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Ognuno è nato in un luogo

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Presentazione sul tema: "Ognuno è nato in un luogo"— Transcript della presentazione:

1 Ognuno è nato in un luogo

2 Certamente la presenza entra in rischio quando tocca il limite della sua patria esistenziale, quando perde ‘il campanile di Marcellinara’… Questo mondo in cui siamo gettati rende possibile una non fittizia libertà di azione. Presupposto di quest’ultima è la capacità di prendere le distanze dal contesto in cui si vive attraverso il disallontanamento, cioè la tensione orientata verso il raggiungimento di qualcosa che non è qui, non è già disponibile, che è lontano.

3 Percorrendo una strada della Calabria, insicuri del nostro cammino, incontrammo un vecchio pastore …. E gli offrimmo di salire in auto per accompagnarci al bivio giusto…..poi lo avremmo riportato al punto in cui lo avevamo incontrato. Salì in auto con qualche diffidenza, come se temesse un’insidia, e la diffidenza si andò via via tramutando in angoscia, perché, ora, dal finestrino cui sempre guardava, aveva perduto la vista del campanile di Marcellinara, punto di riferimento del suo estremamente circoscritto spazio domestico. Per quel campanile scomparso, il povero vecchio si sentiva completamente spaesato: e solo a fatica potemmo condurlo sino al bivio giusto e ottenere quel che ci occorreva sapere. Lo riportammo poi indietro…….e sempre stava con la testa fuori dal finestrino, scrutando l’orizzonte. Per vedere riapparire il campanile di Marcellinara: finché, quando finalmente lo vide, il suo volto si distese e il suo vecchio cuore si andò pacificando, come per la riconquista di una “ patria perduta”. Giunti al punto di incontro, si precipitò fuori dall’auto………senza neppure salutarci, ormai fuori dalla tragica avventura che lo aveva strappato allo spazio esistenziale del campanile di Marcellinara.[…] Certamente la presenza entra in rischio quando tocca il limite della sua patria esistenziale, quando perde “il campanile di Marcellinara.[1] [1] E.De Martino,La fine del mondo.Contributo all’analisi delle apocalissi culturali,Torino Einaudi 1977, pp.194; cit. in R.Escobar,Metamorfosi della paura, Bologna, Il Mulino 1997, p. 11.

4 Nel breve racconto di Kafka che Max Brod intitolò La partenza, mentre il protagonista sta sellando il cavallo, il servo gli chiede: “Dove va il signore, con il suo cavallo?””Non lo so,”dissi io,”purché sia via di qua, solo via di qua. Via di qua senza sosta, soltanto così potrò raggiungere la mia meta.””Dunque conosci la tua meta,”osservò lui.”Si,”replicai, “L’ho detto,no? Via-di-qua…ecco la mia meta”.  Per il protagonista mettersi alle spalle il luogo della partenza diventa dunque esso stesso una meta. A dire il vero, questa strana meta non sembra essere molto diversa dalla fuga. Cosa può far si che una simile meta non si identifichi necessariamente con una fuga? Il fatto che il “via-di-qua”, il mettersi alle spalle il luogo della pertenza diventi non la meta stessa, ma un momento di una meta che ancora non si conosce. Non si tratta della medesima cosa. Una differenza percorre la linea di confine tra la ricerca di una via d‘uscitachre assume i tratti caratteristici di una fuga e la ricerca di un’uscita che invece assume i tratti caratteristici dell’autonomia. Nel primo casa la scelta è, per così dire, obbligata, nel secondo è voluta. Di solito si fugge per sopravvivere, quando si è prigionieri di altri o di se stessi. La ricerca dell’autonomia sembra invece avere più a che fare con un atto di volontà che si accompagna a un processo di separazione e di isolamento dagli altri. L’autonomia nella nostra cultura tende ad identificarsi con quel risultato della separazione e dell’isolamento che solitamente chiamiamo indipendenza. Ma le cose stanno davvero così? E’ davvero così marcata, chiara ed evidente la differenza tra fuga e autonomia, tra la disperata ricerca di una via di uscita, come quella attuata dagli animali protagonisti di moltissimi racconti di Kafka, la cui sopravvivenza è affidata al loro nascondersi nel buio di una tana o alla loro abilità mimetica, oppure come quella di prigionieri in un carcere o in un lager, e l’uscita dalla minorità che Kant descrive come un volontario e consapevole passaggio alla luce, un processo di rischiaramento? E se invece il problema stesse proprio nel confine che, invece di separare il buio della sopravvivenza dalla luce dell’autonomia, li mette in comunicazione diventando esso stesso linea di una cornice, luogo di un passaggio che rivendica un proprio senzo autonomo? In fondo, quando Robinson Crousoè si imbarca per poi, dopo vari viaggi, naufragare nell’isola deserta e lì edificare i tratti dell’individuo borghese, maschio, adulto, isolato e indipendente, con la Bibbia in una mano e il fucile nell’altra, lo fece disubbidendo al padre. Fu una fuga? Qual è il confine tra la fuga dal padre e la ricerca della propria autonomia?[1]…  [1] Alfonso M. Iacono,Autonomia, potere, minorità.Del sospetto delle paura, della meraviglia, del guardare con altri occhi, Feltrinelli , Milan0, 2000 pp. 9-10

5 In alcuni studi odierni sul comportamento animale e umano si possono individuare due tendenze…
Girovagare è una caratteristica umana ereditata geneticamente dai primati vegetariani. Tutti gli esseri umani hanno il bisogno emotivo, se non un vero e proprio bisogno biologico di una base, caverna, covo, territorio tribale, possedimento o porto. E’ qualcosa che noi abbiamo in comune con i carnivori L’autonomia Bruce Chatvin,anatomia dell’irrequietezza, Adelphi, Milano 1996 p.95

6  L’autonomia è come Harold, il bambino di un racconto di Crockett Johnson, il quale si costruisce il proprio mondo con la matita viola. Poiché vuol fare una passeggiata al chiaro di luna, per prima cosa disegna la luna, poi una strada che percorre, poi un albero, poi il mare e una barca con cui naviga, poi ancora una mongolfiera con cui attraversa il cielo. Infine, dal pallone cerca la finestra della sua stanza, ma non la individua. Con la matita viola disegna case, palazzi e finestre, ma non ritrova la sua casa e la sua finestra. Finché a un certo punto si ricorda dove si trovava la finestra della sua stanza quando aveva scorto la luna. Harold aveva visto la luna attraverso la finestra dall’interno della stanza. Così, disegna il suo interno e la luna che si vede dalla sua finestra. Finalmente può coricarsi e prendere sonno. L’autonomia è Harold che si accorge del proprio punto di vista e passa a guardare la luna da una parte all’altra della sua finestra.[1] [1] [1] Alfonso M. Iacono,Autonomia, potere, minorità.Del sospetto delle paura, della meraviglia, del guardare con altri occhi, Feltrinelli , Milan0, 2000 pp. 9-10

7 ‘Sono un geografo, disse il vecchio signore.’ … ‘Ho anche un fiore.’
‘Noi non annotiamo i fiori’ disse il geografo. ‘Perché? Sono la cosa più bella.’ ‘Perché i fiori sono effimeri’ ‘Le geografie’, disse il geografo, ‘sono i libri più preziosi tra tutti i libri. Non passano mai di moda. E’ molto raro che un oceano si prosciughi. Noi descriviamo delle cose eterne.’ ‘Ma i vulcani spenti si possono risvegliare’, interruppe il piccolo principe. ‘Che cosa vuol dire effimero?’ Antoine De Saint – Exupéry, Il piccolo principe, illustrazioni dell’autore, Tascabili Bompiani, Milano, 2001.

8 Un lago: effimero si chiama…
Da La Stampa, domenica 7 Luglio 2002, Pierangelo Sapegno, inviato a Macugnaga

9 …Effimero, si chiama. Per essere un lago, è un nome che non si capisce
…Effimero, si chiama. . Per essere un lago, è un nome che non si capisce. Anche per la fine che gli faranno fare, non si capisce.Vivrà ancora, dopo che gli avranno succhiato l’acqua per portarla in un torrente, il Pedriola, che di mestiere fa proprio quello: porta giù l’acqua dei ghiacciai.. Mica come l’Effimero. E’ nato all’improvviso, qualche giorno fa, per il gran caldo che faceva, sciogliendo le immense pareti bianche sulle cime del Monte Rosa. Figlio dell’effetto serra e di una montagna. Che colpa ne ha lui? Adesso ristagna come un incubo, su, ai 2200 metri del Rosa, al Belvedere, e sotto aspettano che glielo portino via, come se bastasse questo, e pensano che se lo fanno sparire davvero poi se ne vanno via tutti, anche quei rompiscatole delle tv e dei giornali. Come se si potesse portare via il tempo.

10 ‘Le geografie’, disse il geografo, ‘sono i libri più preziosi tra tutti i libri. Non passano mai di moda. E’ molto raro che un oceano si prosciughi. Noi descriviamo delle cose eterne.’ Ma come si è formato questo placido lago in cui si riflette un’immagine del mondo altrettanto tranquilla? Stranamente esso è stato alimentato, in passato, dal fiume vorticoso e lutulento delle scoperte geografiche, sui cui ricchi sedimenti venne costruito parallelamente – e poggia tuttora – il mondo d’oggi. Una costruzione e un mondo che non possono certo dirsi tranquilli, come invece sarebbe portato a pensare un extraterrestre che per conoscere la terra leggesse uno dei nostri manuali di geografia. Giuseppe Dematteis, Le metafore della terra, La geografia tra mito e scienza, Campi del sapere Feltrinelli, Milano 1994 p.14

11 L’antico Giano, a cui veniva riconosciuta la qualità di aprire e chiudere tutto quello che esiste sulla faccia della terra ed anche di essere il dio di ogni principio. Dall’altro però i criteri inconfessati della scelta che essa opera quando descrive i luoghi e il fatto di presentare questa visione necessariamente parziale delle cose con i caratteri dell’assolutezza e dell’oggettività danno a queste descrizioni un indubbio significato ideologico. Da un lato, dunque, la geografia dice cose sicuramente vere, tanto da essere, sul piano della conoscenza, condizioni necessarie per la costituzione di un dominio reale e del suo insediamento materiale. Giuseppe Dematteis, Le metafore della terra, La geografia tra mito e scienza, Campi del sapere Feltrinelli, Milano, 1994, pag.21 … La scoperta geografica è il principio dell’esistenza dei luoghi, di tutto ciò che ha luogo, dunque – nel pensiero comune – di ciò che esiste realmente (anche se forse qualcosa che non ha luogo c’è).

12 Una geografia critica e libera tende a moltiplicare le metafore e le categorie concettuali, non cerca di vedere il mondo da un unico punto di vista, gli gira intorno sapendo che non lo rappresenta mai tutto e mai definitivamente, che la rappresentazione non deve escludere la scoperta. Tante rappresentazioni diverse possono essere tutte scientificamente fondate purché collegabili con i domini di diverse teorie, tutte in qualche modo falsificabili, mentre non lo è affatto, l’abbiamo visto, la rappresentazione normale, che pretende di essere l’unica vera, o meglio, vera perché unica Ma mentre la rappresentazione unica ed assoluta è strumento di dominazione, un mondo descritto come una molteplicità possibile di linguaggi, ordini e forme non reciprocamente esclusivi non può essere dominato; può solo essere ascoltato, raccontato, per certi versi ammirato, per altri compatito. Giuseppe Dematteis, Le metafore della terra, La geografia tra mito e scienza, Campi del sapere Feltrinelli, Milano, 1994, pag.164

13 Bruce Chatwin, Le vie dei canti, ed Adelphi, Milano, 1996, p.103
Gli uomini del tempo antico percorsero tutto il mondo cantando; cantarono i fiumi e le catene di montagna, le saline e le dune di sabbia. Andarono a caccia, mangiarono, fecero l’amore, danzarono, uccisero: in ogni punto delle loro piste lasciarono una scia di musica. Avvolsero il mondo intero in una rete di canto; e infine, quando ebbero cantato la Terra, si sentirono stanchi.

14 Noi immaginiamo che le relazioni che un determinato soggetto animale intrattiene con le cose del suo ambiente abbiano luogo nello stesso spazio e nello stesso tempo di quelle che ci legano agli oggetti del nostro mondo umano. Questa illusione riposa sulla credenza in un mondo unico in cui si situerebbero tutti gli esseri viventi. … L’ape, la libellula o la mosca che osserviamo volare accanto a noi in una giornata di sole, non si muovono nello stesso mondo in cui noi li osserviamo né condividono con noi – o fra di loro – lo stesso tempo e lo stesso spazio. Giorgio Agamben,L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri Torino 2000 p.45

15 Esiste una foresta-per-la-guardia-forestale, una foresta-per-il-cacciatore, una foresta-per-il-botanico, una foresta-per-il-viandante, una foresta-per-l’amico- della-natura, una foresta-per-il-legnaiolo, e, infine, una foresta di favola in cui si perde Cappuccetto Rosso. Esiste uno ‘spazio geografico’?

16  Esiste uno spazio geografico» ? [1]
Torniamo ora alla nostra definizione. Che cosa differenzia di fatto la geografia dalle altre discipline? Qual è il fondamento della sua specificità e della sua unità disciplinare? A ben vedere questo soltanto: di ordinare informazioni di varia natura riferendole tutte all'entità astratta dello spazio terrestre, cioè in definitiva il concetto di "spazio geografico". E che cos'è lo "spazio geografico"? Per la stragrande maggioranza dei geografi è un principio assiomatico, a cui essi non ritengono necessario dedicare nessuna particolare riflessione. Perciò ancora oggi in geografia lo spazio viene assunto così come esso si presenta nel senso comune: come se fosse un'entità reale, qualcosa che " contiene" gli oggetti fisici della superficie terrestre. Poco conta che nessuno abbia mai potuto vedere ne toccare lo "spazio" allo stato puro. Di fatto tutti noi maneggiamo comunemente un suo modello materiale, molto efficace: un foglio di carta su cui sono tracciati meridiani e paralleli, uno spazio figurato, atto a contenere appunto i simulacri dei vari oggetti distribuiti sulla faccia della Terra. La carta geografica o topografica ci suggerisce e conferma ogni giorno l'idea dello spazio come contenitore d'oggetti. Perciò essa è fondamentale in geografia. Si potrebbe dire che ne è la base essenziale, tanto è vero che alle origini del pensiero occidentale, come di quello moderno troviamo una quasi perfetta coincidenza tra geografia e cartografia. Se cerchiamo di rendere esplicito questo modo di concepire lo spazio geografico, troviamo che esso corrisponde allo spazio assoluto di Newton, e ciò non è certo casuale, date le ben note relazioni tra la meccanica classica, le pratiche e i modelli culturali della società occidentale moderna. [1] Giuseppe Dematteis, Le metafore della terra, Feltrinelli, Milano,1994, p.90

17 Il ragno non sa nulla della mosca…

18  Non[1] esiste una foresta in quanto ambiente oggettivamente determinato: esiste una foresta-per-la-guardia-forestale, una foresta-per-il-caccia- tore, una foresta-per-il-botanico, una foresta-per-il-vian-dante, una foresta-per-l'amico-della-natura, una foresta- per-il-Iegnaiolo e, infine, una foresta di favola in cui si perde Cappuccetto Rosso. Anche un minimo dettaglio -per esempio il gambo di un fiore di campo -considerato in quanto portatore di significato, costituisce di volta in volta un elemento diverso di un ambiente diverso, a seconda, per esempio, che lo si osservi nell'ambiente di una ragazza che coglie fiori per farne un mazzetto da spillare sul suo corsetto, in quello della formica che se ne serve come un tragitto ideale per raggiungere il suo nutrimento nel calice del fiore, in quello della larva della cicala che ne fora il canale medullare, utilizzandolo poi come una pompa per costruire le parti fluide del suo bozzolo aereo e, infine, in quello della mucca che semplicemente lo mastica e ingoia per nutrirsi. Ogni ambiente è una unità chiusa in se stessa, che risulta dal prelievo selettivo di una serie di elementi o di «marche» nella Umgebung, che non è, a sua volta, che l'ambiente dell'uomo. Il primo compito del ricercatore che osserva un animale è quello di riconoscere i portatori di significato che ne costituiscono l'ambiente. Questi non sono, però, oggettivamente e fattiziamente isolati, ma costituiscono una stretta unità funzionale -o, come Uexkull preferisce dire, musicale -con gli organi ricettori dell’animale deputati a percepire la marca (Merkorgan) e a reagire ad essa (Wirkogan). Tutto avviene come se il portatore di significato esterno e il suo ricettore nel corpo dell'animale costituissero due elementi di una stessa partitura musicale, quasi due note nella « tastiera sulla quale la natura esegue la sinfonia sovratemporale ed extraspaziale della significazione», senza che sia possibile dire come mai due elementi tanto eterogenei abbiano potuto essere così intimamente collegati. Si consideri in questa prospettiva una tela di ragno. Il ragno non sa nulla della mosca, ne può prenderne le misure come fa un sarto prima di confezionare un vestito per il suo cliente. E tuttavia esso determina l'ampiezza delle maglie della sua tela secondo le dimensioni del corpo della mosca e commisura la resistenza dei fili in proporzione esatta alla forza d'urto del corpo della mosca in volo. I fili radiali sono, inoltre, più solidi di quelli circolari, perché questi ultimi -che, a differenza dei primi, sono ricoperti di un liquido vischioso -devono essere abbastanza elastici da poter imprigionare la mosca e impedirle di volare. Quanto ai fili radiali, essi sono lisci e asciutti, perché il ragno se ne serve come una scorciatoia per piombare sulla sua preda e avvolgerla definitivamente nella sua invisibile prigione. Il fatto più sorprendente è, infatti, che i fili della tela sono esattamente proporzionati alla capacità visiva dell'occhio della mosca, che non può vederli e vola quindi verso la morte senza accorgersene. I due mondi percettivi della mosca e del ragno sono assolutamente incomunicanti e, tuttavia, così perfettamente accordati che si direbbe che la partitura originale della mosca, che si può anche chiamare la sua immagine originaria o il suo archetipo, agisca su quella del ragno in modo tale che la tela che questo tesse può essere qualificata come «moscaria». Benché il ragno non possa vedere in alcun modo la Umwelt della moscà (Uexkull afferma, formulando un principio che doveva avere fortuna, che « nessun animale può entrare in relazione con un oggetto come tale», ma solo coi propri portatori di significato), la tela esprime la paradossale coincidenza di questa reciproca cecità. [1] Giorgio Agamben, L’aperto,Bollati Boringhieri, Torino 2002, p.46

19 fa’ che, cerca di, tendi a, dimmi tutto,
Mondo, sii, e buono; esisti buonamente, fa’ che, cerca di, tendi a, dimmi tutto, ed ecco che io ribaltavo eludevo e ogni inclusione era fattiva non meno che ogni esclusione; su bravo, esisti, non accartocciarti in te stesso in me stesso […] Su, bello, su. Su, műnchhausen. Caspar Friedrich, Monaco sulla riva del mare, 1810

20 Il mondo visibile della realtà emerge dal mondo invisibile del pensiero e a sua volta il mondo invisibile del pensiero emerge dal mondo visibile della realtà Renè Magritte, Il figlio dell’uomo, 1964

21 La scienza non può essere “più vista solo come immagine di una realtà da rispecchiare fedelmente, ma anche come riflesso dell’uomo nello specchio della natura: e non dell’uomo astratto ricercatore intercambiabile con ogni altro, bensì dell’uomo come persona, individuo preciso, storico, determinato dalla società e dalla cultura in cui è immerso. Non più, o non solo, dunque una scoperta progressiva del segreto del mondo, bensì anche il tentativo di dare al mondo un significato, recuperando all’impresa scientifica uno spessore culturale e affettivo, che riscatti dall’appiattimento legato alla dicotomia astorica del vero e del falso”. [1] G.O.Longo, L’ambiguità tra scienza e filosofia,”Nuova Civiltà delle Macchine”, 11,n.3/4(43-44),1993,p.52 Renè Magritte, La condizione umana, 1935

22 Laboratorio epistemologico Pensare per storie A cura di:
Maria Rocchi. Docente di storia e italiano, attualmente comandata presso l’IRSIFAR (Istituto romano per la storia d’Italia dal Fascismo alla Resistenza) Lucilla Ruffilli. Docente di Chimica e laboratorio. Fondatrice del Laboratorio epistemologicoPensare per storie Maria Domenica Simeone.Docente di materie letterarie presso l’ITIS Bernini di Roma. Fondatrice del Laboratorio epistemologicoPensare per storie Fine

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