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Quantitativismo, post-modernità e marxisti

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Presentazione sul tema: "Quantitativismo, post-modernità e marxisti"— Transcript della presentazione:

1 Quantitativismo, post-modernità e marxisti

2 Gli anni del secondo dopoguerra sono segnati da una crisi sociale ed economica che porta i geografi a rimettere in discussione il ruolo della loro disciplina. Pressati dai crescenti problemi urbani e regionali, dalla necessità di ricostruire quanto nella guerra era stato distrutto, nonché di far fronte in qualche modo al nuovo problema del sottosviluppo, venutosi a creare in seguito al processo di decolonizzazione, gli studiosi di scienze sociali (e ai primi posti i geografi) si sentono in obbligo di fornire risposte concrete.

3 Elisée Reclus, La diffusione delle città nel territorio (La couverture du territoire par les villes) (1905) Se la terra fosse completamente uniforme nel rilievo, nelle qualità dei suoli e nelle condizioni climatiche, le città occuperebbero, per così dire, una posizione geometrica: l’attrazione reciproca, l’istinto sociale, la facilità degli scambi le avrebbe fatte nascere a distanze uguali le une dalle altre. Data una regione piana, senza ostacoli naturali, senza fiume, senza porto, sita in una posizione particolarmente favorevole e non divisa in Stati politici distinti, la città più grande sarebbe sorta direttamente al centro del paese; le città secondarie si sarebbero ripartite a intervalli uguali sul circondario, spazializzate ritmicamente, e ciascuna di esse avrebbe avuto il suo sistema planetario di città inferiori, aventi la loro corte di villaggi. Su una piana uniforme, l’intervallo tra le diverse agglomerazioni dovrebbe essere di una giornata di cammino: il numero di leghe percorse a piedi mediamente tra l’alba e il crepuscolo, ovvero tra dodici e quindici corrispondenti alle ore del giorno, costituisce il passo regolare tra una città e l’altra… Per quanto riguarda i villaggi, la loro distanza media si misura sul percorso che può coprire l’agricoltore che spinge il suo carretto carico di fieno o di spighe di grano.

4 In questo senso, il paradigma storicista – si capisce – non è in grado di venire in soccorso; è così che le sue approssimazioni vengono messe da parte in nome della ‘precisione scientifica’, necessaria per “controllare e regolare la complessità economica e sociale del fenomeno della crescita metropolitana” (Torres 1996), per attuare efficaci progetti e forme di pianificazione a livello regionale, per elaborare, in altre parole, veri e propri strumenti di controllo sociale in grado di avere un effetto immediato.

5 Dall’altro canto, il rapido sviluppo di nuove tecnologie, che vede la comparsa dei primi elaboratori, nonché la proliferazione di inediti strumenti concettuali (si pensi, ad esempio, alla teoria dell’informazione e della comunicazione), offre una possibilità concreta di sottoporre ad analisi scientifica la grande molteplicità di problematiche sociali e territoriali, tanto che, secondo Capel, “l’euforia quantitativa raggiunge il massimo apogeo negli anni Cinquanta, allorché tutte le scienze sociali provano ad introdurre questi metodi come apparente panacea per risolvere i propri problemi” (Capel 1987).

6 In questo quadro “tra i professionisti delle scienze più teoriche, l’asserzione che la sintesi regionale costituisse l’identità essenziale della geografia conferiva alla disciplina un’immagine dilettantistica. Dopo la Seconda Guerra Mondiale si esigeva che le università del Nord America formassero persone in grado di risolvere problemi, o ‘tecnici sociali’ in grado di gestire la sempre più complessa struttura dei processi economici. I geografi non tardarono ad adottare costruzioni teoriche e modelli in grado di promuovere lo status della loro scienza e giustificare la loro posizione accademica” (Holt-Jensen 1999).

7 E’ così che negli anni Cinquanta, sull’onda di questa ‘rivoluzione quantitativa’, nasce nel mondo anglosassone una ‘nuova geografia’, una geografia che non si accontenta più di ‘descrizioni’, ma pretende di dare ‘risposte’, risposte che solo una geografia intesa come scienza esplicativa è in grado di fornire attraverso la formulazione di leggi generali, di teorie scientifiche. Lo sviluppo di questa ‘nuova geografia’ procede di pari passo con il successo di altre nuove branche disciplinari, come la geografia economica o la scienza regionale. A differenza dei geografi storicisti, i geografi neopositivisti credono in un ordine soggiacente all’apparente caos, ordine al quale si può arrivare solo disponendo di teorie in grado di scoprirlo e spiegarlo. E’ così che “l’osservazione, il lavoro empirico appaiono alla fine e non all’inizio come accadeva con i metodi induttivi fino ad allora dominanti” (Capel 1987).

8 Il primo a formulare una simile impostazione era stato Walter Christaller (1893 – 1969), con la sua famosa tesi “Le località centrali nella Germania meridionale”, ispirata alle teorie economiche dominanti e discussa nel Con questo lavoro Christaller intendeva spiegare come i servizi tendano a disporsi sul territorio, secondo un ipotetico ordine; un ordine del tutto ‘razionale’, basato su una divisione del territorio (che per semplicità egli ipotizza come uno spazio isotropico) in maglie uniformi e gerarchizzate, all’interno delle quali si muove un attore (il consumatore) altrettanto ‘razionale’ e perfettamente informato sulle caratteristiche del mercato, tanto da recarsi necessariamente nella località più vicina per usufruire di un dato servizio, riducendo così al minimo i costi di trasporto (ipotizzati come proporzionali alla distanza).

9 Con questa teoria generale e deduttiva Christaller ci suggerisce che “indipendentemente da come appare la realtà, la teoria ha una sua validità in virtù solamente della propria logica e della propria coerenza. Confrontando poi questa teoria con la realtà, potremo stabilire da un lato fino a che punto la realtà corrisponde alla teoria e possa quindi venir chiarita da questa, e dall’altro in che cosa se ne discosti” (Capel 1987).

10 L’opera di Christaller ha tuttavia scarso impatto in Germania al momento della pubblicazione, in quanto “le sue idee sulla formazione dei modelli erano in disaccordo con le idee geografiche prevalenti a quell’epoca ed egli non riuscì a ottenere una cattedra universitaria. Solo negli anni Cinquanta le idee di Christaller ricevettero ampi riconoscimenti nel mondo anglosassone” (Haggett 1997). In termini kuhniani, “il tentativo di spiegare la distribuzione e la gerarchia delle località centrali attraverso un modello teorico generale non era accettabile all’interno del paradigma allora dominante” (Holt-Jensen 1999). Solo in seguito alla ‘rivoluzione quantitativa’ (che conduce al cambio di paradigma) il modello di Christaller viene rivalutato, e anzi trova pure applicazione pratica, come nel caso della pianificazione dei villaggi nel Nord Oost Polder in Olanda. Il territorio pianeggiante del polder è forse, infatti, quello che più si avvicina alla superficie isotropica immaginata da Christaller e che meglio si presta quindi all’applicazione della sua teoria (Holt-Jensen 1999).

11 La teoria di Christaller viene poi a rappresentare un’importantissima fonte d’ispirazione per i geografi americani, impegnati nell’elaborazione di modelli teorici di strutture urbane e città come località centrali. “L’accelerazione del lavoro teorico era particolarmente marcata nell’ambito di quelle istituzioni guidate da geografi di formazione ‘scientifica’ (specialmente fisica e statistica), e/o dove v’erano buoni contatti con gli sviluppi nella letteratura dell’economia teorica. Durante gli anni Cinquanta in numerose università la commistione tra economia e geografia aveva dato luogo a una fiorente produzione di nuove idee e tecniche” (Holt-Jensen 1999).

12 In particolare, William J
In particolare, William J.Garrison nel 1955 conduce un seminario sulle applicazioni della statistica per i dottorandi dell’Università di Washington, Seattle, molti dei quali diverranno figure ‘leader’ nell’ambito del paradigma neopositivista negli Stati Uniti. Centro principale di questa geografia teorica diviene l’Università di Chicago, dove Garrison stesso, insieme ad alcuni suoi ex-dottorandi, si era successivamente trasferito ad insegnare.

13 Anche in Europa il lavoro di Christaller trova fortuna dopo la Seconda Guerra Mondiale. A presentarlo in Svezia è Edgar Kant, un geografo estone rifugiato a Lund. Il suo giovane assistente, Torsten Hägerstrand, indirizza le sue ricerche verso un ‘processo d’innovazione’ che si basa su metodi statistici e matematici. Elabora modelli basati sul calcolo delle probabilità, seguiti poi da prove empiriche, facendo guadagnare grande popolarità al suo dipartimento, che in pochi anni diventa un altro centro di fama mondiale. “La teoria della probabilità si applica da questo momento in geografia con una tale intensità che David Harvey non ha dubbi sullo scrivere che ‘se dovessimo selezionare un linguaggio matematico come dominante nell’attuale ricerca accademica, questo sarebbe probabilmente quello della teoria della probabilità’; nel 1969 dichiara poi che ‘l’uso del linguaggio probabilistico è abituale in geografia’. Le leggi, si afferma, non necessariamente devono essere causali: dalla scoperta dell’indeterminatezza da parte di Heidenberg è noto che possono essere anche stocastiche; la legge causale sarebbe una legge stocastica con un alto grado di certezza” (Capel 1987).

14 Nel concentrarsi sul ‘processo’ piuttosto che su una realtà statica, Hägerstrand rompe definitivamente con la tradizione regionale impostasi con il paradigma storicista (Holt-Jensen 1999), ma non è il primo comunque. Ancora prima di lui, infatti, F.K. Schaefer, geografo tedesco di formazione statistica e docente presso l’Università dello Iowa, aveva criticato duramente la concezione ‘classica’ di regione ereditata dal precedente paradigma, promuovendo, invece, un approccio teorico, in grado di formulare spiegazioni di carattere universale. “I casi unici – sostiene – non possono essere spiegati da una sola teoria; di norma, anzi, ne richiedono una serie. E’ quanto accade con la ‘regione’ dei geografi storicisti che, per definizione, è unica, data la singolare combinazione di fenomeni fisici ed umani in essa presenti” (Capel 1987).

15 Schaefer si oppone dunque alla concezione di regione come ‘unicum’, sostenendo, invece, che “l’unica geografia scientifica è quella sistematica poiché consente di ricercare leggi generali, di formulare teorie che poi vengono applicate allo studio regionale. Perciò, pensa Schaefer, non si deve porre l’enfasi dello studio geografico sull’analisi regionale, anche se la si può compiere per comprovare la validità di una serie di teorie che sono state prima formulate e che cercano di spiegare la peculiare combinazione dei fenomeni prodottisi in un’area data. La regione diviene così una specie di laboratorio in cui si verifica la validità delle teorie prodotte dal geografo sistematico” (Capel 1987). Il concetto di regione non scompare dunque nel nuovo paradigma: semplicemente cambia aspetto, viene rielaborato. Si parla ora di ‘regioni polarizzate’, di ‘teoria generale dei sistemi’ e di altri concetti ancora....

16 GEOGRAFIE RADICALI E POSTMODERNE
Negli anni Sessanta, quando il paradigma neopositivista sembra ormai dominare la scena delle scienze sociali con le sue ‘certezze matematiche’ e i suoi modelli, inizia a svilupparsi una nuova corrente critica che rimette in discussione i principi sui quali si fonda il paradigma. Questa nuova crisi nelle scienze sociali in realtà non è che un riflesso della condizione di sconcerto in cui si è venuta a trovare la società, sottoposta a una serie di sconvolgimenti e disillusioni: si pensi alla fine della guerra fredda, al completamento del processo di decolonizzazione, alla crisi del sistema di dominazione occidentale. Insieme a quest’ultimo entrano in crisi pure i tradizionali valori del sistema capitalista, responsabile del deterioramento della biosfera, del degrado della città e della condizione di alienazione in cui si è venuto a trovare l’uomo moderno.

17 Le pianificazioni basate sulle teorie spaziali neopositiviste, nelle quali un tempo si era nutrita una così grande fiducia, dimostrano tutta la loro debolezza, così come anche il mito dell’infallibilità di una scienza oggettiva in grado di risolvere i problemi che affliggono la società inizia a vacillare.

18 In risposta a questa situazione di disillusione generale e in seguito alla presa di coscienza delle carenze del paradigma neo-positivista, si sviluppano una serie di correnti critiche (o radicali). E’ così che la visione ‘meccanicistica’ del mondo, propria del paradigma neo-positivista e, più in generale, delle scienze empiriche, viene affiancata da altre due metafore. La prima, quella ‘realista’, adottata dalle scienze critiche, propone una lettura del mondo in chiave marxista, lettura che sarà, appunto, alla base delle geografie marxiste, ‘impegnate’ sul piano sociale e quindi incentrate sull’analisi di fenomeni come la povertà, l’emarginazione sociale, le condizioni di vita urbana, i conflitti sociali, ecc. La seconda, quella ‘umanista’, propria delle scienze ermeneutiche, invita invece a considerare il mondo in chiave soggettiva, demolendo così il mito positivista della ‘realtà oggettiva’ e della ‘neutralità dell’osservatore’ (Capel 1987).

19 Ne scaturisce una nuova geografia umanistica (o antropocentrica), costruita cioè ‘attorno all’uomo’, considerato non più ‘una pedina’ che si sposta da una parte all’altra della carta seguendo le razionali logiche del mercato, ma come il vero protagonista, dotato altresì di una sensibilità che trascende ogni teorizzazione di tipo matematico. Una geografia, quella umanistica, interessata quindi allo studio di luoghi e paesaggi, non più intesi come ‘oggetti’, ma piuttosto come ‘spazi poeticizzati’, dotati di una propria identità e di una propria retorica, o meglio ancora come “spazi vissuti, al punto tale da determinare una grandissima personalizzazione delle percezioni, con nette delimitazioni, con confini senza equivoci” (Lando 1993).

20 La polifonia di questo scenario dominerà gli anni Ottanta e si offrirà come presupposto per una nuova “svolta culturale”, come la definirà Johnston (1997), che porterà a un definitivo rigetto della logica neo-positivista, a un diffuso “scetticismo verso i grandi postulati e le grandi teorie dell’era moderna” (Johnston & Gregory 1998) e a un’aperta denuncia e codificazione della cosiddetta crisi della rappresentazione.

21 Si assisterà, quindi, alla nascita di una geografia postmoderna, assolutamente refrattaria a qualsiasi tipo di struttura rigida, di classificazione, di ordine e di dogma, e anzi, difficilmente inquadrabile all’interno del modello kuhniano, dal momento che una caratteristica del postmoderno è proprio quella di rompere con la logica paradigmatica: qualsiasi ‘mappa cognitiva’ di una disciplina, per usare un termine caro ai ‘postmderni’, è infatti, per forza di cose, parziale e soggettiva. La sua configurazione non può prescindere dalla parzialità e dalla soggettività di chi la produce. Pertanto, il tentativo di tracciare lo ‘stato dell’arte’ della geografia postmoderna costituirebbe un’impresa velleitaria, proprio perché l’introduzione del postmoderno in geografia ha significato la rottura della logica paradigmatica, lo scetticismo nei confronti delle ricostruzioni lineari della storia disciplinare, la denuncia dell’ordine che ogni cartografia, ogni operazione di mapping, tenta di imporre silenziosamente sulla realtà.

22 Ne consegue che qualsiasi progetto culturale – anche la proposta di un percorso antologico – può essere inteso solo come uno ‘stratagemma’, come un tentativo di ingabbiare una determinata realtà secondo una (altrettanto) determinata prospettiva, in un dato luogo e in un dato momento. La scelta è tra il dichiarare le condizioni su cui il progetto si regge oppure il nasconderle. Ogni testo ha infatti un Autore con la sua storia e i suoi obbiettivi, un contesto culturale e materiale di riferimento, e un tempo. E non è mai un atto innocente. (…) Il contesto accademico che ha reso possibile il dibattito sul postmoderno (quello anglo-americano), che alle sollecitazioni interne ed esterne provocate dall’avanzare del pensiero postmoderno in filosofia e nelle scienze sociali, ha reagito spesso in maniera frammentata e incoerente, ma in molti casi ha tuttavia risposto con atteggiamenti comuni, o perlomeno configurabili all’interno di una serie di ‘filoni’” (Minca 2001).

23 Ciò è reso, inoltre, ancora più difficile dal fatto che stiamo tuttora vivendo questa fase, che potremmo definire ‘post-paradigmatica’: Kuhn stesso, infatti, ci avverte della difficoltà di definire il paradigma corrente (se di paradigma poi in questo caso possiamo veramente parlare…). Potremmo allora paragonare queste nuove geografie postmoderne, più che a ‘compartimenti’, a diramazioni che si abbracciano e si intersecano in continuazione, all’insegna della fluidità e della ‘flessibilità’, come testimoniano le denominazioni stesse dei vari filoni. Il campo d’azione di queste nuove geografie è particolarmente ampio; esso, infatti, si muove dalla costruzione dell’individualità attraverso le poetiche dello spazio alla questione ambientale, intesa come problema culturale, dal dibattito sul problema della descrizione, sintomatico della ‘crisi della rappresentazione’ cui si accennava, a una ri-lettura del pensiero sociale e politico, e così via.

24 Più che di ‘geografia postmoderna’, allora, sarebbe forse più corretto parlare di ‘geografie postmoderne’, dal momento che la pluralità, l’indeterminatezza e la frammentarietà che caratterizzano il postmoderno si riflettono inevitabilmente anche nel campo disciplinare della geografia, producendo una serie di complesse diramazioni – basti ricordare, ad esempio, le geografie femministe, le geografie postcoloniali, la geografia post-marxista e la new cultural geography. Queste nuove geografie spesso condividono strumenti e approcci (alcuni dei quali appartenenti alle precedenti geografie umanistica e marxista), per cui risulta molto difficile (oltre che improprio) operare una ‘classica’ suddivisione in ‘compartimenti stagni’.

25 La principale strategia utilizzata dai geografi postmoderni, indipendentemente dal loro campo d’interesse, è la ‘decostruzione’, “un modo d’interpretazione critica, che cerca di dimostrare come la (diversa) collocazione di un autore (o di un lettore), in termini di cultura, di classe, genere ecc., abbia influenzato la scrittura (e la lettura) di un testo. I significati di un testo sono dunque, se non infiniti, quantomeno considerevoli. La decostruzione è quindi essenzialmente un metodo destabilizzante, che getta nel dubbio la pretesa di autorità delle precedenti tradizioni” (Johnston & Gregory 1998). Questo tipo di lettura apre naturalmente prospettive del tutto inedite e una serie di problematiche di indubbio interesse

26 Funzionalismo modernista vs postmodernità

27 C. Baudelaire La modernità è il transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell’arte di cui l’altra metà è l’eterno e l’immutabile Il pittore della vita moderna 1863

28 Marchall BERMAN : Trovarsi in un ambiente che ci promette avventura, potere, gioia, crescita, trasformazione di noi stessi e del mondo e che al contempo minaccia di distruggere tutto ciò che abbiamo, tutto ciò che conosciamo, tutto ciò che siamo. L’esperienza della modernità, 1985

29 HABERMAS SVILUPPARE UNA SCIENZA OBIETTIVA, UNA MORALE E UN DIRITTO UNIVERSALI, UN’ARTE AUTONOMA SECONDO LE RISPETTIVE LOGICHE INTERNE.

30 WEBER /BERNSTEIN I pensatori illuministi ponevano un legame forte e necessario fra la CRESCITA della scienza, la RAZIONALITA’ e la LIBERTA’ umana universale. Una volta smascherata e compresa l’eredità illuminista, si rivelava il trionfo della RAZIONALITA’ FINALIZZATA-STRUMENTALE che colpisce la totalità della vita sociale e culturale, le strutture economiche, il diritto, l’amministrazione burocratica e persino le arti. La crescita (della razionalità finalizzata strumentale) non porta alla realizzazione della libertà universale ma alla creazione di una “gabbia di acciaio” di razionalità burocratica.

31 MODERNISMO POSTMODERNISMO SCHEMA 1 Romanticismo
Forma (congiuntiva, chiusa) Finalità Progetto Gerarchia Oggetto d’arte/opera finita Distanza Creazione/totalizzazione/sintesi Presenza Concentrazione Genere/confine Semantica Leggibile Genitale/fallico Determinatezza Dadaismo Antiforma (disgiuntiva, aperta) Gioco Caso Anarchia Processo/performance/happening Partecipazione Decreazione/decostruzione/antitesi Assenza Dispersione Testo/intertesto Retorica Scrivibile Polimorfo/androgino Indeterminatezza

32 Romanticismo – Arte ritorno alla natura, Nazionalismo
Sguardo al passato medioevale aspirazione all’assoluto

33 La libertà che guida il popolo –
Eugène Delacroix 1830 Il Bacio - Francesco Hayez 1859

34 Marina di Posillipo - Giacinto Gigante 1844

35 dadaismo Anti arte Anti estetica Non messaggio

36 Fontana – M. Duchamp 1917 Merzbau – Kurt Schwitters

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38 Architettura post-moderna
In generale, per il post-modernismo si intende la tendenza e la consapevolezza della società contemporanea che considera superato lo status quo del progresso continuo ed ascendente proprio della modernità. Le certezze ideali, filosofiche, scientifiche in un futuro sempre migliore ed in perenne ascesa vengono ad affievolirsi, fino a negarne la validità. Occorre invece ripensare la storia e recuperare la memoria del passato.In particolare, nell'architettura postmoderna si definiscono gli studi e le esperienze che, dalla metà degli anni anni sessanta /anni settanta del XX secolo, hanno contestato le funzioni, le forme, gli spazi i particolari, l'ambiente costruito propri del Movimento Moderno. L'architetto post-moderno progetta una nuova architettura, che esprime una libertà stilistica sgombra dai vincoli modernisti, che attinge dalla storia del passato “frammenti” di diverse culture, elaborando non una falsificazione storica, come l'eclettismo ottocentesco, ma una nuova composizione “post-moderna”.

39 Bofill – Montpellier Edificio Dép. Hérault
Leon Krier

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42 Architettura moderna Bauhaus - Dessau Robie House – F. Lloyd Wright
Casa del Fascio - Como Piacentini – Colosseo quadrato

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47 Complesso di Pruitt-Igoe, St Luis (Missouri) - Minori Yamasaki 1952

48 Demolizione 16 marzo 1972

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62 Il Betilo è la pietra sacra che in Medio Oriente si credeva caduta dal cielo e dotata di poteri magici. Questo simbolo designava l'oggetto del culto rivolto agli spiriti delle pietre sacre. L’Omphalos, (ombelico ma anche pietra scolpita ne tempio di apollo a delfi) dice Guenon, era di solito materialmente rappresentato da una pietra sacra, che si definiva Betilo o Betile, e che in ebraico non è altro che Beith-El, la “casa di Dio”, l’abitacolo divino. La pietra è difatti propriamente la casa di Dio, il Tabernacolo sede della Shekinah, e il culto ad essa legato era rivolto non alla pietra, ma alla divinità che in essa risiedeva. Quella stele avrebbe dovuto ricordare per sempre il passaggio della meteora: poiché essa diventava una "Bayt Allah", la dimora di Dio. Pietre sacra, a forma di stele fallica o antropomorfa, rinvenute in molte tombe di giganti di età nuragica.

63 Il Museo "Museo mediterraneo dell'arte nuragica e dell'arte contemporanea", che si localizzerà sul porto di Cagliari. Finalità del nuovo Museo sarà ospitare reperti dell'arte nuragica e opere di arte contemporanea e favorire un confronto critico ed interpretativo tra le due sfere

64 Cinque sfide 1. Il Museo dovrà fungere da volano di rimandi per gli altri luoghi di identificazione dell'arte nuragica nella Sardegna e nel bacino del Mediterraneo, a partire dal Museo Archeologico di Cagliari.

65 Cinque sfide 2. Il nuovo Museo dovrà ospitare un laboratorio di confronto e sperimentazione che accosti in forme e modi inconsueti gli oggetti e le opere di arte nuragica e contemporanea.

66 Cinque sfide 3. Il Museo dovrà offrire un percorso espositivo multiplo, capace di mettere in tensione e fare interagire la percezione estetica delle opere con la loro storicizzazione e contestualizzazione.

67 4. Il Museo dovrà costituirsi come luogo di produzione, ricerca e sperimentazione sulle relazioni tra arte nuragica e arti contemporanee. Cinque sfide

68 Cinque sfide 5. Il nuovo Museo dovrà infine rappresentare a tutti gli effetti un motore di rigenerazione urbana per la città di Cagliari. La presenza all'interno e nei pressi del Museo di spazi di tipo ricettivo e di intrattenimento rivolti sia ai visitatori, sia ai turisti, sia ai cittadini potrà infatti aiutare il Museo a connotarsi come porta di accesso e visibilità per l'isola. Particolare attenzione dovrà quindi essere data dai concorrenti alle forme di accesso al Museo e alle relazioni tra i suoi spazi interni ed esterni. La sequenza degli spazi di carattere pubblico (hall di ingresso, libreria, mediateca, bar, ristoranti, sala conferenze, spazi commerciali...) dovrà infatti essere progettata in stretta coerenza con il contesto spaziale, culturale ed economico circostante la nuova architettura.

69 Vince il progetto della architetto Zaha Hadid irachena, decostruttivista, allieva di Koolhas, che in questi anni progetta (tra l’altro) - Grattacielo City life a Milano, la stazione di Napoli - Afragola, il Museo Maxxi (Museo Arte XXI secolo) a Roma, Stazione marittima di Salerno, il Rhegium waterfront di Reggio Calabria… il Guggenheim di Taiwan. su un totale di 10 progetti presentati da: - Massimiliano Fuksas, Herzog & De Meuron, Gonçalo Nuno Pinheiro de Sousa Byrne, Archea, Francesco Garofalo, Giampiero Lagnese, Mutti, OBR, Jean Nouvel,

70 Dal progetto della Hadid
Il nuovo museo è come una concrezione corallina, cava al suo interno, dura e porosa sulla superficie esterna, ma in grado di ospitare, in un continuo scambio osmotico con l’ambiente esterno, attività culturali in un ambiente vivo e mutevole. A tratti si assimila al terreno, creando un nuovo paesaggio, talvolta acquista una forte massività definendo un nuovo skyline.

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82 Notazioni critiche - quartiere periferico, popolare, enclanve « sensibile » forte valore urbanistico di posizione e di pregio paesaggistico Spinta del capitale edilizio e delle società immobiliari alla riqualificazione architettonica, urbanistica, rischio di espulsione dei ceti popolari Il museo non rientra nel piano strategico della città

83 Terminal croceristico


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