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La naturalizzazione dell’epistemologia

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Presentazione sul tema: "La naturalizzazione dell’epistemologia"— Transcript della presentazione:

1 La naturalizzazione dell’epistemologia
Seminario sulla Teoria della Conoscenza – Roma La naturalizzazione dell’epistemologia Carlo Cellucci

2 Dovendo parlare di ‘naturalizzazione dell’epistemologia’ è naturale che io cominci col precisare che cosa intendo con questa espressione. Per ‘naturalizzazione dell’epistemologia’ intendo la trattazione della conoscenza come un fenomeno naturale, al pari degli altri fenomeni naturali. Perciò per ‘epistemologia naturalizzata’ intendo la concezione secondo cui la conoscenza è un fenomeno naturale, al pari degli altri fenomeni naturali. Vi sono vari tipi di epistemologia naturalizzata. L’epistemologia naturalizzata di tipo analitico ha il suo iniziatore in Quine, con il suo articolo “Epistemology Naturalized” contenuto nel suo libro Ontological Relativity and Other Essays (1969). Da ultimo Quine è ritornato sulla questione nel suo libro From Stimulus to Science (1995).

3 Secondo Quine, l’epistemologia naturalizzata “studia un fenomeno naturale, cioè un soggetto fisico umano.” “A questo soggetto umano è dato un certo input sperimentalmente controllato – per esempio, una certa gamma di irradiazioni di frequenze assortite – e a tempo opportuno quel soggetto produce come output una descrizione del mondo esterno tridimensionale e della sua storia.” “La relazione tra il magro input e il torrenziale output è una relazione che siamo spinti a studiare per le stesse ragioni che sempre ci hanno spinto all’epistemologia; cioè, per vedere quale relazione l’evidenza abbia con la teoria, e in quali modi la teoria della natura trascenda qualunque evidenza disponibile.”

4 Ma il modo in cui Quine presenta l’epistemologia naturalizzata è insoddisfacente, perché le teorie scientifiche non sono il prodotto di un singolo soggetto fisico umano, bensì il risultato dell’interazione di migliaia o centinaia di migliaia di soggetti fisici umani tra di loro e con il mondo esterno. Perciò, dicendo che il compito dell’epistemologia naturalizzata è quello di mostrare come a un singolo soggetto fisico umano sia dato un input sperimentalmente controllato e a tempo opportuno produca come output una descrizione del mondo esterno tridimensionale, Quine non rende conto del carattere della conoscenza scientifica. La conoscenza scientifica è un fenomeno complesso, in cui interviene un interscambio di più soggetti fisici tra loro e con il mondo esterno. Perciò essa non può essere spiegata in termini del rapporto tra il magro input e il torrenziale output di un singolo soggetto fisico umano. L’epistemologia naturalizzata di Quine è semplicemente una continuazione dell’epistemologia cartesiana, cioè di quel tipo di epistemologia avviata da Cartesio che interpreta la conoscenza in termini dell’attività di un singolo soggetto conoscente.

5 Le cose non migliorano se si considerano formulazioni più recenti dell’epistemologia naturalizzata di tipo analitico, come quella del libro di Penelope Maddy, Second Philosophy (2007). Di tale libro Michael Liston ha scritto: “Esso rappresenta la migliore esplorazione e difesa del naturalismo che io conosca.” Dunque, secondo Liston, si tratta quanto meno di un libro molto rappresentativo della recente epistemologia naturalizzata di tipo analitico.

6 Ora, secondo Maddy l’epistemologo naturalizzato è colui che “comincia dalla percezione del senso comune e passa di lì all’osservazione sistematica, alla sperimentazione attiva, alla formazione di teorie e controllo delle teorie, provvedendo sempre nel contempo a valutare, correggere e migliorare i propri metodi, mano a mano che procede.” Confrontiamo la descrizione di Maddy dell’epistemologo naturalizzato con la descrizione dell’attività dello scienziato che viene data in un manuale di biologia, P.B. Weisz, Elements of Biology. Scrive Weisz: “Tutta la scienza comincia con l’osservazione.” Poi si vede che “l’osservazione presenta un problema.” Quindi “si congettura quale potrebbe essere la risposta al problema,” cioè si passa a “postulare un’ipotesi.” Successivamente si procede alla “sperimentazione. La funzione di ogni esperimento è controllare la validità di una congettura scientifica.” Infine si arriva alla “formulazione di una teoria.” Le due descrizioni sono estremamente simili. Dunque, dal confronto tra esse, appare chiaro che, per Maddy, l’epistemologo naturalizzato è lo scienziato, e l’epistemologia naturalizzata è la scienza.

7 Quine e Maddy hanno in comune un’idea di fondo, cioè che la scienza basta a se stessa e non ha alcun bisogno della filosofia. Si tratta di un’idea di chiara impronta positivistica che è ricorrente nella filosofia analitica. Già il Wittgenstein del Tractatus affermava che “la totalità delle proposizioni vere è l’intera scienza naturale.” Perciò “il metodo corretto in filosofia sarebbe propriamente questo: non dire nulla tranne ciò che può essere detto, cioè le proposizioni della scienza naturale, cioè qualcosa che non ha nulla a che fare con la filosofia.” Ma, se la scienza basta a se stessa, allora l’epistemologia diventa superflua: è completamente esaurita dalla normale attività scientifica. Perciò l’epistemologia naturalizzata di tipo analitico è il de profundis dell’epistemologia.

8 L’epistemologia naturalizzata, invece, non è superflua se la si intende come la concezione secondo cui la conoscenza è un fenomeno naturale, al pari degli altri fenomeni naturali. Compito di un’epistemologia naturalizzata intesa in questo modo è rispondere alle domande: Quale ruolo svolge la conoscenza nella vita di tutti gli organismi? Come nasce e si sviluppa la conoscenza? Con quali mezzi la si può potenziare? Questo delinea un programma per l’epistemologia naturalizzata molto diverso da quelli di Quine e Maddy.

9 Per vederlo, basta considerare che Quine afferma che “un dominio normativo dell’epistemologia sopravvive alla conversione al naturalismo,” cioè quello che “riguarda l’arte di fare congetture, o di trovare ipotesi.” Infatti, “creare buone ipotesi è un’arte creativa,” è “l’arte della scienza.” Anche “il matematico si imbatte nelle sue dimostrazioni con l’intuizione non regolata e la buona fortuna.” Perciò l’arte di trovare ipotesi non può essere naturalizzata. Dicendo che un dominio dell’epistemologia, quello che riguarda l’arte di fare congetture, o di trovare ipotesi, sopravvive, e quindi è irriducibile, alla conversione al naturalismo, Quine esclude dall’ambito dell’epistemologia naturalizzata il problema 2) come nasce e si sviluppa la conoscenza, e il problema 3) con quali mezzi si può potenziare la conoscenza. Inoltre, Quine afferma che il dominio dell’epistemologia che riguarda l’arte di trovare ipotesi è un dominio normativo. Cercherò di far vedere che, invece, i problemi 2) e 3) sono centrali per l’epistemologia naturalizzata, e che essi non sono un dominio normativo, bensì un dominio descrittivo, dell’epistemologia.

10 All’epistemologia naturalizzata, intesa nel senso del programma che ho formulato poco fa, si possono attribuire più padri, ma uno di essi è senz’altro Spencer. Spencer si pone in posizione fortemente critica nei confronti di Kant riguardo all’a priori. Egli afferma, infatti, che dire “che spazio e tempo sono ‘forme della sensibilità’ ” è “tanto ripugnante per il senso comune quanto qualunque altra proposizione si possa formulare.” “I termini ‘verità a priori’ e ‘verità necessaria’ ” non vanno interpretati nel senso di Kant “come implicanti cognizioni completamente indipendenti dall’esperienza, bensì come implicanti cognizioni che sono state rese organiche dall’immensa accumulazione di esperienze, ricevute in parte dall’individuo ma principalmente da tutti gli individui ancestrali i cui sistemi nervosi egli eredita.” Tali cognizioni, “sebbene indipendenti dalle esperienze dell’individuo, non sono indipendenti dall’esperienza in generale, ma sono state stabilite attraverso le esperienze accumulate da organismi precedenti.” Quindi esse sono “a priori rispetto all’individuo ma a posteriori rispetto a quell’intera serie di individui di cui egli costituisce l’ultimo termine.” Cioè, sono a posteriori rispetto alla specie.

11 L’epistemologia naturalizzata di Spencer ha avuto una certa fortuna nell’800, ma ha subito una quasi totale eclissi nei primi decenni del ‘900. L’approccio di Spencer è stato ripreso solo nel 1941 da Konrad Lorenz, nel suo articolo, ‘La dottrina kantiana dell’a priori e la scienza naturale dell’uomo’. Stranamente, però, Lorenz non cita Spencer né in quell’articolo né in opere successive. Questo forse è dovuto al fatto che tra Lorenz e Spencer vi è una differenza rispetto all’a priori. Mentre Spencer è fortemente critico della concezione kantiana dell’a priori, Lorenz si pone in un rapporto di continuità con essa. Considera la propria concezione come un completamento di quella kantiana.

12 Lorenz afferma che “le forme a priori del pensiero e dell’intuizione umana” non “sono altro che funzioni organiche.” Esse “non si sviluppano daccapo in ciascun essere umano come risultato dell’esperienza individuale,” ma sono “un’eredità filogenetica antica,” e perciò, “dal punto di vista dell’individuo,” sono “qualcosa che esiste a priori.” Esse sono “un’acquisizione del mondo organico sviluppata storicamente, la quale rappresenta un adattamento a condizioni esterne, così che la sua forma è stata dettata da quelle condizioni.” “Perciò, da un punto di vista filogenetico, le strutture innate dell’esperienza sorsero a posteriori.” Kant è stato “il grande scopritore delle nostre forme innate del pensiero e dell’intuizione.” Ma egli non ha detto nulla sull’origine delle forme a priori. Perciò la sua teoria va completata riconoscendo che le forme a priori sono state acquisite “attraverso la creazione organica nel corso di una storia filogenetica.” Dunque, sono a posteriori rispetto alla specie.

13 Al riguardo vale la pena di osservare che, mentre matematici e fisici sono generalmente critici della concezione di Kant dell’a priori, molti scienziati della vita hanno, come Lorenz, un atteggiamento benevolo nei suoi confronti. Addirittura Boncinelli afferma che “Kant è il più grande biologo … che sia mai esistito. Per quanto riguarda il problema della conoscenza” egli “ha avuto delle intuizioni fondamentali che sono state poi avallate dalla scienza del Novecento.” L’epistemologia naturalizzata di Spencer e Lorenz, però, è problematica per almeno due ragioni.

14 1) Se la conoscenza a priori è essenziale per la sopravvivenza di ogni singolo individuo, e le strutture innate dell’esperienza sorsero a posteriori, come è stata possibile la sopravvivenza dei nostri più lontani progenitori, che non godevano delle esperienze accumulate da organismi precedenti? Dal punto di vista di Spencer e Lorenz la loro sopravvivenza è un fatto inspiegabile e miracoloso.

15 2) L’approccio di Spencer e Lorenz implica che noi abbiamo capacità inferiori a quelle dei nostri più remoti progenitori. Mentre i nostri più remoti progenitori furono capaci di derivare le forme a priori e le rispettive proprietà dall’esperienza – per esempio, furono capaci di derivare il quinto postulato di Euclide dall’esperienza – noi non siamo più capaci di farlo. Infatti quelle forme, che per loro erano a posteriori, per noi sono a priori, e quindi non sono derivabili dall’esperienza. Ma questo è implausibile perché non vi è alcuna prova che noi non siamo in grado di fare quello che i nostri più remoti progenitori sapevano fare.

16 Un’epistemologia naturalizzata essenzialmente diversa da quella di Spencer e Lorenz è stata sviluppata da Popper. Mentre Spencer e Lorenz sostengono che le forme a priori sorsero originariamente a posteriori, Popper afferma che: “Tutto quello che sappiamo è geneticamente a priori.” “Dire, come fa Konrad Lorenz, che la conoscenza kantiana innata, a priori era in origine conoscenza percettiva con la quale noi ora nasciamo perché l’abbiamo ereditata dai nostri antenati – significa ignorare la fondamentale ed estremamente importante intuizione di Kant, che la conoscenza percettiva è impossibile senza la conoscenza a priori.” Contrariamente a quanto afferma Kant, però, “tutta la conoscenza è a priori, geneticamente a priori, nel suo contenuto. Solo l’eliminazione delle ipotesi è a posteriori, il conflitto tra le ipotesi e la realtà. In questo soltanto consiste la componente empirica della nostra conoscenza.” Inoltre, contrariamente a quanto afferma Kant, la conoscenza a priori non “è ‘necessaria’, nel senso di ‘non ipotetica ma apodittica,” ma “ha un carattere ipotetico (o congetturale),” è “solo geneticamente a priori e non valida a priori; non necessaria a priori, non apodittica.”

17 L’approccio di Popper risolve la difficoltà di Spencer e Lorenz che, se la conoscenza a priori è essenziale per la sopravvivenza di ogni singolo individuo, non si spiega come sia stata possibile la sopravvivenza dei nostri più remoti progenitori, che non godevano delle esperienze accumulate da organismi precedenti. Contro Spencer e Lorenz, giustamente Popper afferma che l’a priori non è mai stato a posteriori, e contro Kant giustamente afferma che l’a priori non ha carattere di necessità ma consiste di ipotesi. Tuttavia la posizione di Popper presenta numerosi difetti, che ora elencherò. Dall’analisi di tali difetti emergerà un approccio all’epistemologia naturalizzata alternativo a quello di Popper.

18 Primo difetto della posizione di Popper
Un primo difetto della posizione di Popper è che essa è problematica riguardo all’origine delle ipotesi. Infatti, Popper sostiene che, nel trovare le ipotesi, l’induzione non può svolgere alcun ruolo, perché “non esiste una cosa come l’induzione.” Per sostenerlo, egli afferma che “il 99 per cento della conoscenza di tutti gli organismi è innata e incorporata nella nostra costituzione biochimica.” E “il 99 per cento della conoscenza che Kant considera essere a posteriori ed essere ‘dati’ che sono dati a noi attraverso i sensi, in realtà non è a posteriori ma a priori.” Anzi, secondo Popper, non solo il 99 per cento, ma addirittura il 99.9 per cento della conoscenza di tutti gli organismi è innata. Infatti, egli afferma che “la nostra conoscenza è al 99 per cento, o al 99.9 per cento, biologicamente innata.”

19 Perciò, secondo Popper, sostanzialmente “tutta la conoscenza risale a conoscenza innata e a sue modifiche. Conoscenza innata, ma non certa. Non esiste conoscenza certa,” tutta quella che esiste “è conoscenza congetturale.” Per Popper, poiché il 99.9 per cento della nostra conoscenza è innata e a priori, essa non è il risultato dell’osservazione e quindi non può ottenersi per induzione.

20 Secondo Popper, la conoscenza innata e a priori non si ottiene mediante l’induzione ma con il “metodo dei tentativi e dell’eliminazione degli errori: proponendo in via di tentativo varie possibilità, ed eliminando quelle che non sembrano adeguate.” I “tentativi corrispondono alla formazione di ipotesi in competizione; e l’eliminazione degli errori corrisponde all’eliminazione o confutazione di teorie mediante controlli.” Secondo Popper, questo è il metodo con il quale si risolvono tutti i problemi, ed è “anche il metodo usato dagli organismi viventi nel processo dell’adattamento.” Il singolo organismo “incorpora in un unico corpo, per così dire, i controlli sviluppati durante l’evoluzione del suo phylum”, e a sua volta esso “e il suo comportamento sono entrambi tentativi, che possono essere eliminati per eliminazione degli errori.”

21 Secondo difetto della posizione di Popper
Ma qui emerge un secondo difetto della posizione di Popper. Dire, come fa Popper, che, per trovare le ipotesi, noi non procediamo mediante l’induzione bensì con il metodo dei tentativi ed errori, è in contrasto col fatto che, come lo stesso Popper riconosce, il successo del metodo per tentativi ed errori “dipende in grandissima parte dal numero e dalla varietà dei tentativi: quanti più ne facciamo, tanto più è probabile che uno dei nostri tentativi riuscirà.” Dicendo che, quanti più tentativi facciamo, tanto più è probabile che uno dei nostri tentativi riuscirà, Popper fa dipendere il successo del suo metodo proprio da quell’induzione che, secondo lui, non svolge alcun ruolo nel trovare le ipotesi, anzi addirittura non esiste.

22 Inoltre, dicendo che il successo del suo metodo dipende in grandissima parte dal numero e dalla varietà dei tentativi, Popper rende inspiegabile il successo delle teorie scientifiche. Infatti, il numero delle ipotesi o teorie possibili su qualsiasi argomento è virtualmente illimitato, mentre il numero e la varietà dei tentativi che un organismo può effettuare è, a causa dei suoi limiti fisici e temporali, estremamente ristretto. Perciò se si procedesse, come vuole Popper, per tentativi ed errori, cioè a tentoni, alla cieca, allora la probabilità di successo di una teoria scientifica – qualsiasi teoria scientifica – sarebbe estremamente bassa. Non si spiegherebbe come mai, invece, i tentativi degli organismi di formulare ipotesi sono spesso coronati da successo, cioè portano a ipotesi plausibili.  Questo si spiega solo se la ricerca delle ipotesi non procede a tentoni, alla cieca, ma è guidata razionalmente.

23 Popper afferma che il metodo per tentativi ed errori è l’unico metodo che abbiamo, perché “l’atto del concepire o inventare una teoria” non sembra “richiedere un’analisi logica né esserne suscettibile.” A suo parere, “ogni scoperta contiene ‘un elemento irrazionale’ .” Ma, paradossalmente, per spiegare il successo delle ipotesi o teorie scientifiche, Popper avrebbe bisogno proprio di una spiegazione razionale del processo della scoperta, cioè di quella spiegazione razionale di cui egli nega l’esistenza. Altrimenti il successo delle ipotesi o teorie scientifiche rimarrebbe inspiegabile, sarebbe un evento miracoloso. Non dando una spiegazione razionale del processo della scoperta, Popper compromette la sua intera posizione.

24 Ma, se la ricerca delle ipotesi è guidata razionalmente, da che cosa è guidata?
Essa non può essere guidata dalla deduzione, perché la deduzione non è ampliativa, cioè non permette di ottenere nulla che non fosse contenuto già implicitamente nelle premesse. Mediante la deduzione, dai dati dell’osservazione non si può ottenere nulla che non fosse già contenuto implicitamente in quei dati. Invece le ipotesi o teorie scientifiche devono andare al di là dei dati dell’osservazione.

25 Se non si va al di là dei dati dell’osservazione, li si può al massimo classificare. Dunque si possono solo ottenere tassonomie. Certo, quasi qualsiasi tipo di oggetti può essere classificato secondo qualche schema tassonomico. Ma le tassonomie non vanno al di là dell’osservazione, sono soltanto un modo di organizzare gerarchicamente le osservazioni. Un conto sono le tassonomie, e un altro conto sono le ipotesi o teorie scientifiche, che vanno al di là dell’osservazione perché si suppone che il loro campo di applicazione non sia limitato agli oggetti di cui si è già avuta esperienza ma si estenda anche agli oggetti di cui non si è ancora avuto esperienza.

26 Perciò la ricerca delle ipotesi non può essere guidata dalla deduzione.
Essa può essere guidata solo da inferenze non deduttive, ivi compresa l’induzione. Solo tali inferenze, infatti, permettono, partendo dai dati dell’osservazione, di trovare ipotesi ovvero teorie scientifiche che vanno oltre quei dati.

27 Di conseguenza, è giusto affermare, come fa Popper, che la nostra conoscenza a priori non è mai stata a posteriori, ha un carattere ipotetico, consta di ipotesi che non sono derivate dall’esperienza. Ma, contrariamente a quanto afferma Popper, la ricerca delle ipotesi non avviene col metodo dei tentativi ed errori, cioè a tentoni, dunque alla cieca. Al contrario, è guidata. Essa è guidata da inferenze non deduttive, a cominciare dall’induzione. Popper fraintende la funzione dell’induzione, perché non la considera un mezzo di scoperta, bensì un mezzo di giustificazione. Certo, l’induzione non giustifica nulla, ma da questo Popper trae l’indebita conclusione che l’induzione non svolge alcun ruolo nella conoscenza, anzi l’induzione non esiste affatto. Al contrario, come riconosceva persino Hume, l’induzione esiste e svolge un ruolo essenziale nella conoscenza, non come mezzo di giustificazione bensì di scoperta. È uno dei principali mezzi con cui si trovano le ipotesi.

28 Proprio perché le ipotesi si trovano mediante l’induzione, e in generale mediante inferenze non deduttive, esse sono a priori. A priori non nel senso che sono assolutamente indipendenti da ogni esperienza, ma nel senso che non derivano dall’esperienza. Infatti, anche quando le premesse di un’inferenza non deduttiva derivano dall’esperienza, la conclusione, in quanto non è contenuta nelle premesse, non deriva dall’esperienza. Essa va oltre l’esperienza. Non derivando dall’esperienza, le ipotesi sono a priori. Ciò che è a posteriori è il controllo della loro plausibilità, che avviene necessariamente attraverso un confronto con l’esperienza.

29 Cambiamenti rispetto alla concezione kantiana dell’a priori
Se le cose stanno così, questo comporta essenziali cambiamenti rispetto alla concezione kantiana dell’a priori. 1) Non esistono conoscenze dotate di quel carattere di assoluta indipendenza da ogni esperienza che Kant attribuisce alle conoscenze a priori, quando dice che le conoscenze a priori si costituiscono “indipendentemente da ogni esperienza.” Tutte le conoscenze, per quanto riguarda il controllo della loro plausibilità, sono essenzialmente legate all’esperienza.

30 2) Non esistono conoscenze dotate di quel carattere di rigorosa universalità che Kant attribuisce alle conoscenze a priori, quando dice che queste hanno una “rigorosa universalità,” tale “da non tollerare eccezioni di alcun genere.” Non vi sono verità che non tollerino eccezioni di alcun genere. Tutte le proposizioni sul mondo sono al massimo plausibili, dunque sono sempre suscettibili di eccezioni.

31 3) Non esistono conoscenze dotate di quel carattere di necessità che Kant attribuisce alle conoscenze a priori, quando dice che esse hanno “il carattere di necessità intrinseca.” La nostra nozione di razionalità non è scritta, come riteneva Kant, in una presunta nostra natura trascendentale, non è fissata da un immutabile libro di regole. Perciò essa non è necessaria. Non vi è alcuna conoscenza non suscettibile di revisioni, perciò ci si deve attendere che anche la conoscenza a priori possa sempre essere riveduta.

32 4) Non esistono conoscenze dotate di quel carattere di certezza che Kant attribuisce alle conoscenze a priori, quando dice che esse sono “certe per se stesse.” Non vi sono verità infallibili , in primo luogo perché le ipotesi si ottengono mediante inferenze non deduttive che, essendo ampliative, sono fallibili. In secondo luogo, anche quando le ipotesi si rivelano plausibili, ossia compatibili con l’esperienza esistente, questo non ne assicura la certezza. Infatti ,esse sono sempre esposte al rischio di controesempi, mano a mano che l’esperienza si estende e si raccolgono nuovi dati.

33 5) Non esiste nulla che sia dotato di quella validità a priori che Kant attribuisce alle categorie, quando parla di “validità a priori delle categorie nei confronti di tutti gli oggetti dei nostri sensi.” Nessuna ipotesi ha validità a priori rispetto a tutti gli oggetti dei nostri sensi. La sua validità, nel senso debole della plausibilità, è sempre relativa ai dati, e può risultare solo da un confronto con gli oggetti dell’esperienza.

34 Terzo difetto della posizione di Popper
Un terzo difetto della posizione di Popper è che la sua affermazione che il 99.9 per cento della nostra conoscenza è innata, non ha fondamento. Popper sostiene che la conoscenza innata è incorporata nella nostra costituzione biochimica, dunque è un prodotto dell’evoluzione biologica. Ma l’evoluzione biologica è molto lenta, perciò la conoscenza innata è necessariamente limitata. Di conseguenza, l’affermazione di Popper che il 99.9 per cento della nostra conoscenza è innata non ha fondamento.

35 Al contrario di quanto afferma Popper, il grosso della nostra conoscenza non è un prodotto dell’evoluzione biologica bensì dell’evoluzione culturale. Rispetto all’evoluzione biologica, l’evoluzione culturale è molto rapida. La sua rapidità, a confronto della lentezza dell’evoluzione biologica, spiega perché dire che il 99.9 per cento della nostra conoscenza è innata, non ha fondamento. Dirlo vuol dire dimenticare che l’evoluzione biologica è molto lenta rispetto all’evoluzione culturale.

36 Quarto difetto della posizione di Popper
Un quarto difetto della posizione di Popper è che egli non si limita ad affermare che il 99.9 per cento della nostra conoscenza è innata. Afferma che il 99.9 per cento della nostra conoscenza è innata e a priori. Ma così Popper confonde l’a priori con l’innato. Si tratta di una confusione, perché l’ambito dell’a priori, che consta di ipotesi, è un prodotto dell’evoluzione culturale e, data la rapidità di quest’ultima, è molto ampio. Invece l’ambito dell’innato è un prodotto dell’evoluzione biologica, e, data la lentezza di quest’ultima, è molto ristretto. Perciò non si può identificare, come fa Popper, l’a priori con l’innato.

37 Quinto difetto della posizione di Popper
Un quinto difetto della posizione di Popper è che egli confonde l’a priori con la conoscenza a priori. Infatti, egli dichiara: “Userò il termine ‘a priori’ per caratterizzare quel tipo di conoscenza – di conoscenza fallibile e congetturale – che un organismo ha prima dell’esperienza dei sensi; grosso modo, è conoscenza innata.” Si tratta di una confusione, perché le ipotesi sono sì, a priori, ma non sono conoscenza, sono soltanto ipotesi. Esse diventano conoscenza solo quando sono sottoposte al confronto con l’esperienza, e lo superano. Soltanto allora esse possono considerarsi plausibili e diventare conoscenza. Ma esse non diventano conoscenza a priori perché, nel confronto con l’esperienza, l’esperienza svolge un ruolo essenziale. Perciò non si deve confondere l’a priori con la conoscenza a priori.

38 Sesto difetto della posizione di Popper
Un sesto difetto dell’approccio di Popper è che egli applica i principi dell’evoluzione darwiniana alle stesse ipotesi o teorie scientifiche. Infatti, afferma che “la crescita della nostra conoscenza è il risultato di un processo strettamente somigliante a ciò che Darwin chiama ‘selezione naturale’; cioè, la selezione naturale delle ipotesi.“ Da ciò appare chiaro che il metodo con cui, secondo Popper, si trovano le ipotesi o teorie scientifiche, cioè il metodo per tentativi ed errori, non è altro che il processo della selezione naturale. Ma allora, poiché la selezione naturale è molto lenta, non si spiega la rapidità dello sviluppo della scienza negli ultimi quattro secoli, che ha visto un’enorme proliferazione di ipotesi e teorie scientifiche. Perciò, contrariamente a quanto afferma Popper, la crescita della nostra conoscenza non può essere il risultato di un processo strettamente somigliante alla selezione naturale. E si conferma che la ricerca delle ipotesi o teorie scientifiche non può procedere a tentoni, col metodo per tentativi ed errori, ma deve essere un processo guidato razionalmente.

39 Settimo difetto della posizione di Popper
Un settimo difetto della posizione di Popper è che egli afferma che la sua è “un’epistemologia senza un soggetto conoscente.” Popper giustifica questa affermazione dicendo che, oltre al Mondo 1, cioè il mondo fisico, e al Mondo 2, cioè il mondo dei processi mentali consapevoli, vi è un Mondo 3, che Popper definisce come “il mondo delle creazioni oggettive della mente umana.” Per valutare l’affermazione di Popper che la sua è un’epistemologia senza un soggetto conoscente, ci si deve chiedere: Che cos’è per Popper la mente umana, le cui creazioni popolano il Mondo 3?

40 Per Popper la mente è, come per Cartesio, un’entità separata dal corpo.
Infatti, Popper afferma che “l’io attivo, l’io psicofisico è il programmatore attivo del cervello (che è il computer), è l’attore il cui strumento è il cervello. La mente è, come dice Platone, il pilota.” Il cervello è impotente senza l’io, come “il computer è impotente senza il programmatore.” “Il cervello è posseduto dall’io, non vale l’inverso.” Così la posizione di Popper è simile a quella di Cartesio. Il corpo, e specificamente il cervello, è una macchina. La mente, l’io, è il programmatore che crea il software che governa la macchina. In effetti Popper dichiara: “Posso perciò descrivere me stesso come un dualista cartesiano.” Mentre Ryle respinge la concezione di Cartesio della mente come un fantasma nella macchina, “io credo nel fantasma nella macchina.”

41 Dunque, per Popper, il Mondo 3 è popolato dalle creazioni oggettive della mente umana, intesa come un’entità separata dal corpo. Ma, per lui, il 99.9 per cento della conoscenza di tutti gli organismi è conoscenza innata e incorporata nella nostra costituzione biochimica, dunque incorporata nel nostro corpo. Perciò la sua affermazione che il Mondo 3 è popolato dalle creazioni oggettive della mente umana implica che il Mondo 3 è pressoché vuoto. Infatti, se il 99.9 per cento della nostra conoscenza è incorporata nel nostro corpo, la nostra conoscenza è conoscenza del corpo, non della mente, essendo la mente un’entità separata dal corpo. In effetti, l’assunzione di Popper che il 99.9 per cento della nostra conoscenza è incorporata nel corpo implica che la nostra conoscenza è pressoché totalmente conoscenza del corpo.

42 Ovviamente, che la nostra conoscenza sia pressoché totalmente conoscenza del corpo, è una conclusione non desiderata da Popper. Eppure è una logica conseguenza delle sue assunzioni. Si può arrivare alla stessa conclusione – che la nostra conoscenza è conoscenza del corpo – senza partire dalle implausibili assunzioni di Popper. Basta applicare il criterio metodologico che in un’argomentazione non è lecito appellarsi ad assunzioni di cui non si ha alcuna prova. Non vi è alcuna prova che Dio esista, dunque in un’argomentazione non è lecito appellarsi all’assunzione che Dio esista. Non vi è alcuna prova che la mente esista, dunque in un’argomentazione non è lecito appellarsi all’assunzione che la mente esista. In particolare, non è lecito appellarsi all’assunzione che la mente esista nel dare una spiegazione della conoscenza.

43 Invece, abbiamo numerose prove che il corpo esiste
Invece, abbiamo numerose prove che il corpo esiste. Perciò, nel dare una spiegazione della conoscenza, è lecito appellarsi all’ipotesi che il corpo esista. Ma allora è lecito supporre che la conoscenza sia conoscenza del corpo. Infatti gli esseri umani hanno conoscenza, hanno un corpo, e non vi è alcuna prova che abbiano altro che un corpo. Perciò, se la conoscenza non fosse conoscenza del corpo, di che cos’altro potrebbe essere conoscenza?

44 L’affermazione che la conoscenza è conoscenza del corpo è in effetti la posizione del più acuto filosofo della mente dell’ultimo secolo. Mi riferisco a Palomar, il personaggio dell’omonimo racconto di Italo Calvino, il quale afferma: “Di solito si pensa che l’io sia uno che sta affacciato ai propri occhi come al davanzale d’una finestra e guarda il mondo che si estende in tutta la sua vastità davanti a lui.” “Di là c’è il mondo, e di qua? Sempre il mondo: cos’altro volete che ci sia.” L’io “non è anche lui un pezzo di mondo che sta guardando un altro pezzo di mondo?”

45 Proprio così. Come dice Palomar, l’io è soltanto un pezzo di mondo che guarda un altro pezzo di mondo. La conoscenza dell’io è soltanto la conoscenza di questo pezzo di mondo, cioè del corpo. L’io, la mente, è un pezzo di mondo perché consiste semplicemente in certe capacità del corpo, a partire dalle capacità sensoriali e motorie. Parlare di ‘mente’ è solo una metafora e un modo abbreviato per indicare certe capacità del corpo. E poiché tra queste sono comprese anche le capacità sensoriali e motorie, la mente non risiede nella testa ma nell’intero corpo. Infatti, la mente è un insieme di funzioni del corpo.

46 Questo implica che il soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto hanno lo stesso grado e tipo di realtà: sono due pezzi di mondo. E implica che si deve adottare una visione naturalistica dell’intero processo della conoscenza, sia dei processi cognitivi interni al soggetto conoscente sia di quelli esterni al soggetto conoscente, che hanno luogo nel mondo esterno. Infatti, che la mente sia un pezzo di mondo implica che i processi interni al soggetto della conoscenza e quelli che hanno luogo nel mondo esterno non possono essere separati, devono essere analizzati contemporaneamente.

47 La conoscenza va analizzata alla stessa stregua di altre capacità degli organismi viventi sviluppatesi nel corso dell’evoluzione, la cui funzione è quella di assicurare la sopravvivenza.   Essa va analizzata, quindi, come una funzione di un sistema reale, formatosi in seguito a un processo naturale, che si trova in un rapporto interattivo con un altrettanto reale mondo circostante. E questo perché gli organismi sono esseri i cui caratteri e le cui capacità, compresa la capacità conoscitiva, sono un prodotto dell’evoluzione biologica, quindi sono il risultato di un adattamento.

48 Non soltanto la conoscenza è una funzione di un organismo che è il risultato di un adattamento, ma l’adattamento stesso, da cui gli organismi traggono origine, è un processo conoscitivo. Infatti, ogni adattamento indica che l’organismo ha acquisito una certa quantità di conoscenza sull’ambiente. Per un organismo, essere vivente è uno stato biologico ottimale rispetto all’ambiente, che dipende dalla conoscenza che l’organismo acquisisce sull’ambiente. Quando lo stato biologico ottimale viene perduto, gli organismi cercano di ripristinarlo sulla base della nuova conoscenza che riescono ad acquisire sull’ambiente. Quando l’alterazione e lo sconvolgimento superano certi limiti, gli organismi non riescono a sopravvivere.

49 Lo stato biologico ottimale dipende strettamente dalla condizioni dell’ambiente a cui l’organismo si adatta. Per raggiungere tale stato, il genoma ha bisogno di avere precise conoscenze sull’ambiente. Solo dati sull’ambiente codificati nel genoma, quali la forza gravitazionale, la temperatura media, la pressione, la composizione chimica, ecc., consentono l’evoluzione di organismi perfettamente adattati a un particolare ambiente. Inoltre, come il singolo organismo usa processi conoscitivi nel suo sviluppo, così anche l’intera specie usa processi protoconoscitivi nel suo sviluppo. La specie percepisce l’ambiente, individua i dati rilevanti e li valuta per aumentare l’adattamento e raggiungere lo stato biologico ottimale.

50 La specie raggiunge lo stato ottimale attraverso il processo della riproduzione differenziale.
Differenze tra gli organismi individuali sono presenti in ogni popolazione di organismi. Molte di queste differenze, per esempio il colore degli occhi, non hanno effetto sulla sopravvivenza, ma alcune differenze possono aumentare le chance di sopravvivenza di un organismo individuale. Per esempio, un coniglio che corre più veloce degli altri ha più probabilità di sfuggire ai predatori. E gli organismi individuali che hanno migliori capacità di sopravvivenza hanno anche migliori chance di riprodursi.

51 Se i caratteri che danno a certi organismi individuali un vantaggio riproduttivo sono ereditabili, cioè possono essere trasmesse dai genitori ai figli, allora, nella generazione successiva, vi sarà una proporzione un po’ più alta di organismi individuali dotati di quei caratteri. Anche se il vantaggio riproduttivo nella riproduzione differenziale è molto piccolo, dopo molte generazioni ogni vantaggio ereditabile diverrà dominante nella popolazione, poiché il processo dà luogo a una crescita esponenziale. In questo modo l’ambiente di un organismo seleziona i tratti che conferiscono un vantaggio riproduttivo agli organismi, producendo cambiamenti graduali, cioè evoluzione.

52 Tale selezione si basa sulla conoscenza dell’ambiente.
Ogni organismo è un sistema conoscitivo. La sua conoscenza dell’ambiente si basa, in parte, sulla conoscenza incorporata nel suo genoma, e, in parte, sui dati che l’organismo riesce ad acquisire sull’ambiente. La situazione è simile a quella dei nostri organi di senso che, nel ricevere dati, già incorporano nella loro struttura molta conoscenza. Per esempio, la struttura dell’occhio incorpora molta conoscenza sulla natura della luce. Infatti la forma sferica dell’occhio, la struttura radiale dell’iride, e le funzioni del cristallino e della retina, corrispondono alle leggi a cui obbediscono i raggi luminosi.

53 Lo stesso vale per l’intero organismo
Lo stesso vale per l’intero organismo. Il suo genoma incorpora molta conoscenza, ma l’organismo per sopravvivere deve acquisire nuova conoscenza sull’ambiente. Un organismo è conoscenza che sollecita ulteriore conoscenza. Ogni organismo costituisce un’ipotesi sul mondo, che è messa alla prova dalla lotta per la sopravvivenza. La vita ottiene conoscenza sul mondo attraverso la strategia attiva dell’avanzare costantemente ipotesi mediante inferenze non-deduttive, ipotesi che vengono successivamente confermate o messe in crisi dalla selezione naturale.

54 Il rapporto tra l’organismo e l’ambiente è di tipo bilaterale.
Da un lato, la conoscenza dell’ambiente plasma gli organismi, nel senso che certi caratteri degli organismi rispecchiano caratteri dell’ambiente. Per esempio, le pinne e il modo di muoversi dei pesci rispecchiano le caratteristiche idrodinamiche dell’acqua, che sono proprie dell’acqua indipendentemente dal fatto che al suo interno si muovano o meno dei pesci. Similmente, l’occhio rispecchia caratteri fisici propri della luce, indipendentemente dal fatto che vi siano degli occhi a vederla. Già Goethe diceva:  “La luce chiama in vita un organo che le diventi affine; e l’occhio si forma alla luce per la luce, affinché la luce interna muova incontro a quella esterna.” “E qui ci ritorna” il ricordo "delle parole dell’antico mistico,” Plotino: “Potremmo guardare la luce, se l’occhio non fosse solare?”

55 Dall’altro lato, gli organismi cercano l’ambiente più adatto, e alcuni di essi lo plasmano attivamente. Questo vale per la stessa formazione della vita. Il gene si cerca un ambiente di proteine. Infatti esso contiene istruzioni per fabbricare proteine. Un gene può dirigere la sintesi di più proteine, in media da quattro a cinque proteine.

56 In questo senso il rapporto tra l’organismo e l’ambiente è un rapporto bilaterale.
In tale rapporto l’organizzazione degli organi di senso e, laddove è presente, del sistema nervoso centrale, svolge un ruolo essenziale. Infatti, l’organizzazione degli organi di senso permette agli organismi di ottenere dati sull’ambiente, e di rispondere a essi in modo funzionale alla propria sopravvivenza. Ma l’apparato conoscitivo degli organismi è esso stesso un pezzo dell’ambiente che, proprio adattandosi ad altri elementi dell’ambiente, ha raggiunto la propria forma attuale. Su questo si fonda la nostra fiducia nel fatto che tutto ciò che il nostro apparato conoscitivo ci comunica sulla realtà esteriore corrisponde a qualcosa di reale. E su questo si basa il nostro quotidiano, pratico rifiuto dello scetticismo.

57 Gli ‘occhiali’ del nostro modo di pensare e di vedere, cioè i nessi di causalità, spazio, tempo, ecc., sono funzioni di un’organizzazione neurosensoriale sviluppatasi al servizio della conservazione della specie.   Questo appare chiaro dal fatto che gli organismi hanno sviluppato organi solo per quegli aspetti della realtà con cui per essi è vitale entrare in rapporto al fine della sopravvivenza. Per esempio, le api hanno una grande capacità di riconoscere i colori, perché per esse è vitale saper individuare un fiore ricco di nettare. Esse lo individuano in virtù del suo particolare colore. Invece, i gatti hanno una scarsa capacità di riconoscere i colori, perché per essi non è vitale saperli riconoscere, essendo cacciatori prevalentemente crepuscolari. In compenso, i gatti hanno una vista molto acuta, perché per essi è vitale saper riconoscere tutto ciò che si muove in condizioni di scarsa visibilità.

58 Quello che l’organizzazione dei nostri organi di senso e del nostro sistema nervoso ci permette di conoscere, per quanto limitato, è stato sperimentato in un periodo di prova durato intere epoche. Perciò, entro certi limiti, possiamo fidarci di esso. Tuttavia, oltre agli aspetti dell’ambiente che sono vitali per noi, la realtà presenta molti altri aspetti. Noi non abbiamo un organo per cogliere tali aspetti, proprio perché durante l’evoluzione non siamo stati costretti a sviluppare particolari forme di adattamento a essi. Per questo motivo noi siamo ciechi alle molte ‘lunghezze d'onda’ con cui il nostro ‘apparato ricevente’, cioè i nostri organi di senso, non sono sintonizzati. Noi siamo ‘limitati’, sia in senso letterale sia in senso traslato.

59 Questo ha un’importante conseguenza.
Dobbiamo evitare di scambiare per caratteri dell’oggetto osservato quei dati che in realtà dipendono unicamente dalla limitatezza delle prestazioni dello strumento.   Goethe commise un errore del genere quando, nella sua teoria dei colori, scambiò per caratteri fisici della luce qualità cromatiche degli oggetti risultanti dal nostro apparato percettivo.

60 D’altra parte, dobbiamo evitare di commettere l’errore di Lorenz, di ritenere che ciò che vediamo dipenda unicamente dai dati che ci vengono forniti dai nostri organi di senso. Secondo Lorenz, l’a priori spaziale euclideo si fonda sui nostri organi di senso. Anzi, in un certo senso, i nostri organi di senso si identificano con quell’a priori. Egli, infatti, afferma che sui nostri organi di senso “si fonda l’intuizione dello spazio tridimensionale ‘euclideo’, e anzi, in un certo senso, essi si identificano addirittura con questa intuizione.” Per Lorenz “l’occhio come tale è una teoria: Vale a dire, una teoria secondo cui la luce è così e così.”

61 Questo è smentito da numerosi fatti.
Per esempio, noi abbiamo una visione grosso modo tridimensionale del mondo esterno ma le immagini sulla retina sono bidimensionali. Perciò, contrariamente a quanto afferma Lorenz, l’occhio, non può essere identificato con l’a priori spaziale euclideo, che è tridimensionale: esso è in grado di fornire al cervello solo dati bidimensionali  L’a priori spaziale euclideo non si identifica con i nostri organi di senso, è il risultato di ipotesi che facciamo sul mondo esterno sulla base di quei dati.

62 Sensi e ragione Questo ha un’importante conseguenza per la tradizionale opposizione tra sensi e ragione, o meglio, tra conoscenza sensibile e conoscenza razionale: implica che tale tradizionale opposizione è ingiustificata. Secondo un’antica tradizione, la ragione è una facoltà conoscitiva totalmente diversa dai sensi. Certo, i sensi possano confermare ciò che si arriva a sapere razionalmente. Ma conoscere qualcosa sulla base della ragione significa darne una giustificazione in termini diversi dall’evidenza sensibile. Specificamente, significa darne la ragione o causa. Già Platone affermava: “L’opinione vera accompagnata da ragione [logos] è conoscenza, mentre quella non accompagnata da ragione sta al di fuori della conoscenza.”

63 È vero che in questa antica tradizione non vi è un modo univoco di intendere la ragione.
Per alcuni, la ragione è ragione discorsiva, perché la conoscenza a cui essa dà luogo è conoscenza discorsiva, conoscenza basata su processi inferenziali. Per altri, invece, la ragione è ragione intuitiva, perché la conoscenza a cui essa dà luogo è fondamentalmente conoscenza intuitiva, caratterizzata dall’apprensione immediata dell’oggetto e da un’identificazione del soggetto dell’apprensione con l’oggetto appreso. Ma sia per gli uni sia per gli altri la conoscenza a cui dà luogo la ragione è qualcosa di essenzialmente diverso da quella a cui danno luogo i sensi.

64 Ora, la tradizionale opposizione tra conoscenza sensibile e conoscenza razionale non ha fondamento, perché non può esistere una conoscenza sensibile, se con questo si intende una conoscenza data dai sensi. Infatti, i sensi da soli non danno conoscenza. Questo appare chiaro dal fatto, già menzionato, che mentre gli oggetti fisici sono tridimensionali, le loro immagini sensibili sulla retina sono bidimensionali. Le immagini sulla retina non sono sufficienti per vedere gli oggetti come tridimensionali. Per vederli come tridimensionali si deve formulare un’ipotesi sulla natura dell’oggetto a partire dai dati sulla retina, mediante un’inferenza non deduttiva. Che, per vedere un oggetto come tridimensionale sia necessario questo, mostra che la visione ha bisogno di ipotesi, dunque dell’a priori. Perciò non può esistere una conoscenza puramente sensibile.

65 Dall’altro lato, non può esistere neppure una conoscenza razionale, se con questo si intende una conoscenza data dalla ragione. Infatti l’a priori, cioè le ipotesi, di per sé non dà conoscenza. Per dare conoscenza l’a priori deve essere confrontato con l’esperienza. Perciò non può esistere una conoscenza puramente razionale. Poiché non può esiste una conoscenza puramente sensibile, né può esistere una conoscenza puramente razionale, la tradizionale opposizione tra sensi e ragione non ha fondamento.


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