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Occupati: chi svolge un lavoro al fine di trarne guadagno **

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Presentazione sul tema: "Occupati: chi svolge un lavoro al fine di trarne guadagno **"— Transcript della presentazione:

1 Occupati: chi svolge un lavoro al fine di trarne guadagno **
** gli occupati possono essere considerati una misura indiretta della domanda proveniente dal mercato del lavoro -> in cerca di lavoro = offerta – occupati = offerta - domanda Lez. 1 - Introduzione Occupati: chi svolge un lavoro al fine di trarne guadagno ** Dipendenti (lavoro salariato) Forze di lavoro o popolazione attiva (= offerta) Indipendenti (in proprio) Disoccupati in senso stretto (avevano un lavoro e lo hanno perso) In cerca di lavoro: chi non avendo un lavoro lo cerca attivamente (almeno un’azione di ricerca negli ultimi 30 gg) In cerca di prima occupazione Altre persone in cerca di occupazione (si definiscono in cerca di lavoro solo in seconda istanza) Persone in età lavorativa Studenti Casalinghe Ritirati dal lavoro e inabili in età lavorativa Popolazione non attiva o non forze di lavoro Persone in età non lavorativa Minori < 15 anni Anziani > 64 (70) Indicatori / Indici (possono essere generali, oppure specifici per area geografica, genere, classi di età e/o livelli di istruzione FORZE DI LAVORO / POPOLAZIONE X 100 = TASSO DI ATTIVITÀ (LORDO SE TOTALE POPOLAZIONE, NETTO SE SOLO POPOLAZIONE IN ETÀ LAVORATIVA) OCCUPATI / POPOLAZIONE X 100 = TASSO DI OCCUPAZIONE (LORDO SE TOTALE POPOLAZIONE, NETTO SE SOLO POPOLAZIONE IN ETÀ LAVORATIVA) POPOLAZIONE / OCCUPATI = NUMERO DI PERSONE “A CARICO” DI CIASCUN OCCUPATO IN CERCA DI LAVORO / FORZE DI LAVORO X 100 = TASSO DI DISOCCUPAZIONE Le fonti utilizzate: Indagine ISTAT sulle forze di lavoro (indagine campionaria, frequenza trimestrale) + Censimenti ISTAT + Dati uffici di collocamento (ora centri per l’impiego) + dati EUROSTAT (rielaborazione dati dei diversi istituti statistici nazionali) e studi OCSE per i confronti europei

2 In Italia a confronto con altri Paesi europei:
Lez. 2 Chi cerca lavoro? In Italia a confronto con altri Paesi europei: limitata differenza tassi di disoccupazione totale (Italia 1-2 punti perc. oltre media UE, compresa nella fascia dal 7 al 11%d dove stanno 9 paesi su 14) forte penalizzazione donne (TDF 13%; TDM 7,3%) giovani (TD ,2%; ,5%) bassa penalizzazione di maschi adulti disoccupati in senso stretto forte presenza tra i disoccupati di persone senza esperienza di lavoro in cerca di primo lavoro 41,1% disoccupati in senso stretto 36,4% altri in cerca di lavoro 22,5% TASSO DI DISOCCUPAZIONE F – TASSO DI DISOCCUPAZIONE M / TASSO DI DISOCCUPAZIONE TOTALE: INDICE DI DISCRIMINAZIONE PER GENERE (OPPURE PER ETA’) Sia l’uno che l’altro indice di discriminazione non correlati né con tasso di disoccupazione né con tasso di attività della classe sociale considerata, mentre si evidenzia chiara correlazione negativa con tasso di occupazione (definita “capacità del paese di creare occupazione” Donne più colpite dalla disoccupazione in quasi tutti i paesi europei (eccezione UK, Irlanda e Svezia) ma mentre la differenza in alcuni paesi è poco più di un punto percentuale diventa abissale in Spagna e Italia Modelli d’impatto della disoccupazione per età modello italiano: altissima disoccupazione giovanile, disoccupazione adulta e anziana molto bassa modello tedesco: rischio di disoccupazione quasi uguale ad ogni età (ma nelle classi giovanili effetto del sistema educativo dual system) modello britannico-francese: elevata disoccupazione giovanile, media disoccupazione adulta, medio-alta disoccupazione anziana Prevalgono persone in cerca prima occupazione (eccezione Spagna per abnorme diffusione lavori temporanei) Composizione disoccupazione per genere e per età (impatto tasso di attività) Prevalgono disoccupati in senso stretto + Giovani + Adulti + Anziani + Donne Italia, Spagna, Grecia Francia, Olanda Danimarca Uguale Belgio, Portogallo, Finlandia + Uomini Gran Bretagna, Irlanda Svezia, Austria, Germania Tutte le caratteristiche della situazione italiana sono molto attenuate al centro nord (TO = 60%) e molto accentuate nel mezzogiorno (TO = 42%) TD femminile supera quello maschile di 5-6 punti perc al centro nord vs di nel mezzogiorno Per i maschi TD supera quello degli adulti di 12 punti perc nel centro nord vs di 40 nel mezzogiorno; per le femmine di 17 nel centro nord vs di 43 nel mezzogiorno Conseguenze: nel centro nord situazione di discriminazione moderata che d’altra parte consente pieno impiego ai maschi adulti (TD sempre inferiore al 2%, situazione unica in Europa); nel mezzogiorno TD giovani maschi 50%, giovani donne oltre 60% e anche TD maschi adulti salito dal 2% di prima del 1980 all’8-10% degli anni 90 Negli anno 90 le differenze si sono accentuate, ovvero l tasso di discriminazione verso i giovani nel centro-nord è andato fortemente a diminuire per l’effetto combinato del calo demografico (riduzione del bacino) e della diffusione di lavori instabili (i giovani da in cerca di primo impiego si trasformano in disoccupati)

3 Lez. 3 Disoccupazione, famiglia e welfare state Composizione della disoccupazione per posizione in famiglia modello Italia, Spagna e Grecia: disoccupazione colpisce soprattutto figli, e relativamente poco capifamiglia maschi (che sono la maggioranza) modello Gran Bretagna e Germania: disoccupazione colpisce tutti in ugual misura modello Francia, Belgio, Austria e Olanda: disoccupazione colpisce in misura maggiore donne single capifamiglia Giovani in cerca di prima occupazione nei paesi dell’Europa meridionale sono molti, per la maggior parte vivono ancora in famiglia, e pochi corrono il rischio di vivere in una famiglia senza reddito nei paesi dell’Europa centro-settentrionale: sono pochi, per la maggior parte sono usciti dalla famiglia e sono spesso single, ovvero vivono in famiglia senza reddito Donne adulte in cerca di lavoro nei paesi dell’Europa meridionale sono poche, ed è poco probabile che vivano in famiglia senza reddito perché è poco probabile che siano capifamiglia (es vivano sole dopo un divorzio) nei paesi dell’Europa centro-settentrionale: sono di più e sono spesso capifamiglia (anche con figli a carico), ovvero vivono in famiglia senza reddito Uomini adulti e anziani in cerca di lavoro ovunque vivono perlopiù in famiglie dove non entra alcun reddito da lavoro (ovvero sono capifamiglia) Welfare state in Europa: principio assicurativo: indennizza il lavoratore dal danno provocato dalla perdita di lavoro: indennità proporzionata alla retribuzione percepita e a termine principio assistenziale: sussidio legato allo stato di bisogno, senza scadenza – non presente in Italia e Grecia Indice sintetico di “generosità” tiene conto di: grado di rimpiazzamento (rapporto tra indennità e retribuzione percepita) e durata grado di copertura: % di persone in cerca di lavoro che percepiscono un’indennità Situazione critica Alta protezione Alte indennità per quasi tutti coloro che cercano un lavoro Paesi Nordici e Belgio Disoccupazione assistita Media protezione Media indennità a quasi tutti Germania Basse indennità a metà Francia, Gran Bretagna Disoccupazione né familistica, né assistita Scarsa protezione Basse indennità a pochi Europa Meridionale Disoccupazione familistica Italia: scarsa protezione complessiva frutto però di situazioni molto diversificate, ovvero solito casino: regime generale: solo 6 mesi (9 per 50 anni +) con 40% ultima retribuzione ma per chi perde lavoro da grandi/medie imprese: indennità di mobilità 80% a scalare da 12 a 36 mesi secondo l’età, mobilità lunga 55 anni + indennità lavoratori stagionali (un vero e proprio sussidio di disoccupazione senza averne il nome) Obiettivi indennità di disoccupazione: impedire povertà, aiutare una ricerca mirata del lavoro, ridurre resistenze al cambiamento Possibili effetti perversi accettati a livello micro: indennità più generose -> più disoccupazione di lungo periodo; tuttavia l’indennità non corrode la motivazione al lavoro, si ha invece un più oculato processo di ricerca Controversi a livello macro: relazione tra generosità indennità e tasso di disoccupazione potrebbe essere un risultato indiretto del fatto che indennità incoraggia la permanenza tra la popolazione attiva di donne e anziani, che altrimenti abbandonerebbero la ricerca di lavoro; tuttavia nei paesi ad indennità generose problema sentito, quindi ad esse si accompagnano misure di reinserimento al lavoro Modello familistico italiano: scarse occasioni di occupazione + scarse risorse pubbliche per sostenere le persone senza lavoro evitare conflitti sociali + risparmiare sui costi per sostenere la disoccupazione Effetti positivi pace sociale risparmi sui costi della disoccupazione Effetti negativi ritardata uscita dei giovani dalla famiglia troppi compiti sulla famiglia riduzione natalità occupazione concentrata su capifamiglia -> almeno 1 reddito da lavoro per famiglia disoccupazione concentrata su giovani e donne -> possono fondare identità sociale altrimenti, possono essere mantenuti da capifamiglia Modello entra in crisi quando: aumentano capifamiglia disoccupati occupazioni instabili interessano maschi 40enni (potenziali capifamiglia) unità della famiglia si frantuma

4 Lez. 4 La disoccupazione giovanile In Italia: scarsa presenza “disoccupati puri” elevata protezione dell’occupazione potrebbero autorizzare una spiegazione della disoccupazione giovanile in chiave di insider che sbarrano l’accesso al lavoro agli outsiders Tuttavia altro fenomeno tipicamente italiano è: elevata probabilità che gli occupati si separino dal loro lavoro trovandone rapidamente un altro (senza transitare cioè dalla condizione di disoccupazione come avviene in altri paesi europei), ovvero elevata mobilità job-to-job: fenomeno dovuto a prevalenza dell’occupazione presso la media/piccola azienda, dove la mobilità è elevata, vuoi per caratteristiche strutturali delle aziende (elevato tasso di chiusure e nuove aperture e protezione dell’occupazione minima), vuoi per ricerca continua di migliori opportunità da parte degli occupati, sia per senso di precarietà della propria posizione, sia per scarse possibilità di carriera interne (ancora fenomeno dovuto a dimensioni ridotte delle aziende) Disoccupati puri da meno di un anno / Occupati anno precedente = Indice probabilità perdita lavoro e entrata in disoccupazione Indice correlato positivamente con tasso di disoccupazione del paese Tuttavia Italia in posizione anomala (indice più basso di quanto farebbe prevedere il tasso di disoccupazione). Situazione spiegabile poiché l’indice ignora sia chi ritrova rapidamente un lavoro (situazione italiana), sia chi non ne ricerca più un altro ovvero entra a far parte della popolazione non attiva Indice protezione dell’occupazione Ocse: pone l’Italia tra i paesi ad alta protezione, insieme a Germania e Spagna seguono Svezia, Belgio, Olanda Gran Bretagna e USA hanno l’indice più basso Tuttavia l’indice è viziato dall’impossibilità di tener conto dell’ambito di applicazione delle norme (es piccole imprese sono di diritto o di fatto escluse), della loro reale applicazione , dell’esistenza vuoi di flessibilità (es lavoro nero, occupazione formalmente indipendente), vuoi di rigidità informali Da notare che indice non ha alcuna relazione con la percezione soggettiva di insicurezza da parte dei lavoratori (percezione lavoratori italiani su livelli analoghi a quelli di paesi con basso indice di protezione dell’occupazione) Di fatto alta protezione dell’occupazione frena mobilità nel pubblico impiego e nelle (poche) aziende medio-grandi, ma non impedisce la mobilità nelle (molte) piccole imprese Nessun “salto” evidente alla fatidica soglia dei 15 dipendenti (che peraltro può essere –come ben sappiamo- elusa), ma fenomeno graduale -> cause strutturali Ipotesi 1: a maggior protezione dell’occupazione fa riscontro un più alto tasso di disoccupazione (comportamenti opportunistici): non confermata internazionalmente dai numeri Ipotesi 2: a maggior protezione dell’occupazione fa riscontro minore disoccupazione maschi adulti e maggiore disoccupazione donne e giovani: confermata dai numeri nel confronto internazionale, tuttavia non sufficiente come spiegazione della situazione italiana per le ragioni dette Ipotesi 3 (spiegazione proposta): convergenza tra domanda di lavoro, offerta e effetti societali, ovvero scelte implicite della società: domanda: competenza professionale e socializzazione al lavoro organizzato e subordinato tipiche degli adulti preferite a maggiore istruzione e “entusiasmo” dei giovani in quanto economia italiana poco innovativa; a conferma: sono i settori più innovativi che assumono più giovani; da fine anni 90, con l’accelerazione del mutamento tecnologico e organizzativo almeno al centro-nord i giovani hanno cominciato ad essere preferiti agli adulti; i paesi più innovativi danno più attenzione alle relazioni tra scuola e sistema produttivo offerta: quando il sostegno alla disoccupazione è scarso gli adulti, che vivono soli o hanno carichi familiari, sono molto più pressati a ritrovare un lavoro in fretta rispetto ai giovani, che invece vivono in famiglia e possono attendere più a lungo la loro prima occupazione; a riprova: a livello europeo relazione positiva tra TD giovanile e % di convivenza dei giovani in famiglia e relazione negativa tra squilibrio tra disoccupati giovani e adulti e generosità sostegni alla disoccupazione (inoltre negli adulti può essere minore il problema di declassamento rispetto ad aspettative collegate a titolo di studio?); scelte implicite della società: quando l’occupazione è scarsa e sono scarsi i sostegni pubblici ai disoccupati, vi è consenso nel favorire chi si ritiene abbia più bisogno di lavorare -> privilegio dei capifamiglia sostenuto da sindacati e opinione pubblica. Implicitamente si dà più importanza ai problemi economici degli adulti rispetto ai problemi psicologici dei giovani

5 - + Lez. 5 e 6 Miti e realtà della disoccupazione intellettuale
Ipotesi che la disoccupazione giovanile sia anche intellettuale deve essere “pulita” del fatto che le nuove generazioni sono, di default, più istruite delle precedenti Per parlare in modo specifico di disoccupazione intellettuale per i giovani occorre dimostrare che la più elevata scolarità costituisce una difficoltà aggiuntiva alla ricerca di un’occupazione Questo, se dimostrato, contrasterebbe con due delle più accreditate teorie sul ruolo dell’istruzione nel mercato del lavoro: teoria del capitale umano: lo sviluppo economico richiede maggiore istruzione, quindi i più istruiti corrono meno il rischio di restare senza lavoro; se disoccupazione giovanile è intellettuale, allora vi è un eccesso di giovani istruiti rispetto alla domanda teoria della concorrenza tra i diversi livelli di istruzione: se vi è un eccesso di giovani istruiti, questi comunque corrono meno il rischio di rimanere disoccupati poiché andranno a “spiazzare” i meno istruiti -> se disoccupazione giovanile è intellettuale, allora giovani istruiti non “spiazzano” i meno istruiti, ovvero rimangono disoccupati ma non competono con loro Di fatto la situazione italiana contrasta nettamente con seconda teoria, ovvero tendenzialmente non si verifica il fenomeno dello spiazzamento in quanto vi è una forte resistenza a rinunciare alle aspettative legate al titolo di studio conseguito; questo perché un posto inferiore è percepito non solo come dequalificazione professionale ma anche come declassamento sociale, di nuovo per effetto della convergenza di fattori culturali, strutturali e sociali: culturali: divisione netta tra lavoro manuale e intellettuale strutturali: scarsa mobilità di carriera sul lavoro fa sì che ogni occupazione sembri (e spesso effettivamente sia) “per sempre” sociali: la famiglia spesso lega al fatto che il figlio riesca a trovare il “posto buono” le proprie aspettative di mobilità sociale, ed è quindi ben disposta (oltre che in grado, essendo tendenzialmente il capofamiglia occupato) a sostenere il giovane nell’attesa A questo si è aggiunto un fenomeno congiunturale (che è andato attenuandosi quando è rallentato il ritmo di crescita dei livelli di istruzione) di sfasamento tra aspettative della domanda e dell’offerta: da un lato il progressivo slittamento verso l’alto dei livelli di istruzione richiesti per le stesse posizioni, dall’altro famiglie che continuavano a ragionare con gli equilibri della generazione precedente Rispetto alla prima teoria, invece, considerando il tempo necessario per trovare la prima occupazione (TD a 5 anni dall’uscita dal sistema formativo), la situazione italiana è più complessa, sia perché è cambiata nel tempo, sia perché la media nazionale nasconde fortissimi divari nord-sud: nel tempo: fine anni 70 disoccupazione intellettuale, con netto svantaggio per i diplomati, ma laureati in posizione migliore; anni 80: diplomati e licenza media sullo stesso livello, ancora vantaggio relativo per i laureati; da metà anni 90 diplomati di nuovo in svantaggio, laureati con vantaggio inferiore -> nel periodi di crisi ricompare la disoccupazione intellettuale per aree geografiche: mentre nel centro nord la disoccupazione non si è mai caratterizzata, neppure negli anni 70, come intellettuale, e attualmente si assiste ad una convergenza verso il basso dei tassi di disoccupazione con i più istruiti in posizione migliore, nel mezzogiorno i diplomati sono da fine anni 70 in netto svantaggio e solo ultimamente si è ridotta, mentre i laureati sono in posizione di vantaggio: di fatto nel mezzogiorno vi è tendenza allo spiazzamento dei diplomati da parte dei laureati, mentre non vi è quella allo spiazzamento dei meno istruiti da parte dei diplomati per effetto della frontiera tra lavoro manuale e lavoro intellettuale A totale Italia e considerando invece un periodo più lungo (tra i 5 e i 10 anni dall’uscita dal sistema formativo), il TD dei diplomati si riduce molto più di quello dei meno istruiti -> i diplomati sono alla fine “costretti” a spiazzare i meno istruiti nelle occupazioni manuali A confronto con altri paesi europei: all’entrata nel mercato del lavoro il vantaggio comparativo dei più istruiti in Italia è il più basso, è ridotto in Spagna, mentre è alto in Germania, Gran Bretagna e (soprattutto) in Francia; questo non per effetto di una maggiore presenza di istruiti per fascia d’età (che anzi in Italia è inferiore rispetto Germania, Francia, UK), ma per effetto del diverso modo in cui è articolata la domanda di lavoro lo stesso divario permane confrontando il vantaggio offerto dall’istruzione nel rimanere occupati: anche in Italia tra i 30 e i 59 anni il TD degli istruiti è sempre minore di quello dei meno istruiti, tuttavia la differenza è minore che negli altri Paesi europei in Italia le probabilità di raggiungere una professione intellettuale sono distribuite in modo molto diseguale rispetto al titolo di studio, mentre lo sono in modo molto poco diseguale in Spagna e Grecia, con UK e Francia in posizione intermedia quindi: mentre in Italia i più istruiti sono meno avvantaggiati dall’istruzione in sé, lo sono indirettamente poiché vi sono più alte probabilità che accedano a posizioni intellettuali ad alta qualificazione, che sono le meno esposte alla disoccupazione tuttavia per quei pochi che da posizioni intellettuali entrano in disoccupazione questa dura più a lungo, vuoi perché il comportamento di ricerca è più selettivo, vuoi perché la disoccupazione può avere un maggiore impatto psicologico -> scoraggiamento I UE + 8,5% 5% - 12% 13%

6 Lez. 7 La lunga attesa del “posto” Lavoro minorile non scomparso in Italia: stima 400/ minori lavorano, soprattutto d’estate durante le vacanze, sia nelle regioni povere del mezzogiorno che in quelle ricche del nord-est, soprattutto aiutando genitori e parenti -> questo aiuta la riproduzione da un lato della micro-impresa familiare, dall’altro della subcultura del lavoro minorile. Motivi alla base sono da un lato la povertà, ma anche la convinzione che la scuola non serva e le spinte sociali al consumismo Lavoro degli studenti (superiori e università), ovvero “lavoretti”, più diffuso al centro-nord che al sud, dove maggiore è la concorrenza (per gli stessi lavoretti, vedi sotto) di chi è in cerca del primo lavoro. Più diffuso tra studenti istituti tecnici che non licei (status sociale?) e tra studenti facoltà umanistiche che non scientifiche (tempo?) Interpretabile da un lato come corollario dell’espansione della scuola di massa, dall’altro come indicatore di minore investimento nella scuola che non garantisce più di per sé un lavoro sicuro Lavoretti dei giovani in cerca di prima occupazione più diffusi al nord, dove vi sono maggiori opportunità nei servizi Prevalgono attività a bassa qualificazione (anche se al centro nord vi sono anche più opportunità di livello più elevato, e oltretutto regolari) -> per la maggioranza i lavoretti hanno poco o nessun valore di addestramento professionale Inoltre al centro nord spesso buona contiguità tra lavoretti e “lavoro per la vita”: i primi permettono di accedere alla rete di relazioni sociali che faciliterà la ricerca del secondo; al contrario al sud netta cesura tra lavoretti dequalificati e il più delle volte non regolari (canali di accesso: legami familiari e di vicinato) e settore pubblico garantito che rappresenta spesso l’unica opportunità o quasi di un buon lavoro (canali: sistema clientelare); peraltro la centralità dell’orientamento al pubblico svaluta socialmente anche le (poche) attività private regolari e meno precarie Vi è “schizofrenia” nei diversi comportamenti di ricerca messi in atto per i lavoretti e per il “lavoro per la vita”: per i primi “va bene tutto”, in quanto non coinvolgono l’identità sociale della persone e sono vissuti strumentalmente, anche e soprattutto come modo per prolungare la ricerca del secondo, che invece si vuole coerente con le aspettative suscitate dal livello di istruzione Ma ancor più che non sui lavoretti, l’attesa del “buon posto” si regge sul sostegno economico e sulle aspettative di mobilità sociale della famiglia (dove la condizione socio-economica della famiglia stessa rappresenta doppiamente un vantaggio/svantaggio: da un lato maggiori risorse economiche consentono tempi di attesa più lunghi, dall’altro migliori relazioni sociali favoriscono l’accesso al buon posto – e ovviamente viceversa) La scarsa mobilità di carriera che contraddistingue il lavoro in Italia rende il comportamento d’attesa dei giovani e delle loro famiglie tutt’altro che irrazionale a consuntivo (accentando un lavoro purchessia, il rischio di rimanere disoccupati o comunque intrappolati in posti di lavoro scadenti e a basso reddito è effettivo), anche se a livello individuale la scelta non è frutto di questo ragionamento ma del voler evitare il declassamento sociale (in Italia l’associazione di specifici status sociali ai diversi tipi di lavoro è particolarmente forte) Il fatto che in Italia i disoccupati siano in maggioranza giovani che vivono in famiglia, da un lato, e dall’altro che anche i disoccupati adulti vivano soprattutto al sud dove sono più intense le relazioni sociali, fa sì che in Italia ancora più che negli altri paesi trovi poco riscontro concreto lo stereotipo del disoccupato “solo e emarginato” Tuttavia le reti di relazioni tendono ad essere spesso con persone in situazione di disoccupazione analoga: quindi sono poco utili per l’uscita dalla disoccupazione Le reti di relazioni possono invece spesso essere il collegamento con il lavoro nero (si va dalla cosiddetta “economia informale” alle attività illegali o criminali tout court) che al sud accompagna spesso e volentieri la disoccupazione: si tratta quasi sempre di attività dequalificate che non offrono sbocchi occupazionali stabili, e che quindi non rallentano la ricerca del “buon posto” (quindi non sono “disoccupati puri”, ma neanche “falsi disoccupati”) A differenza che in passato, attualmente la disoccupazione tende a separarsi dalla povertà: poveri sono soprattutto i vecchi, le casalinghe, i minori, mentre disoccupati sono soprattutto i giovani e (in misura minore in Italia) gli adulti. Questo fenomeno in Italia è più accentuato al nord che al sud (al sud sono in condizioni di maggiore povertà rispetto al nord non solo i disoccupati, ma anche gli occupati…), ed è comune a tutti i paesi europei, sia pure per cause diverse: assistenza pubblica (sussidi di disoccupazione) nei paesi dell’Europa settentrionale, assistenza familiare in quelli dell’Europa meridionale “Risolto” il problema economico, rimane fortissimo in Italia quello sociale: generazioni di giovani che ritardano l’inizio della formazione di un’identità professionale (e personale) attraverso il lavoro -> conseguenze psicologiche e sul ciclo di vita (sposarsi e fare figli)

7 Lez. 8 Come si cerca e si trova lavoro
I diversi metodi di ricerca In Italia: Numero di metodi utilizzati è maggiore per i più istruiti e al centro-nord dove vi sono più occasioni di lavoro Le donne usano più i metodi formali (sia moderni che tradizionali) e meno quelli informali (reti sociali meno efficienti) – vero in tutta Europa Rispetto al passato vengono usati: meno i concorsi pubblici (in parte problema statistico, comunque record europeo: in altri paesi il fenomeno è trascurabile), il collocamento pubblico, invio domande e visite (ma problema statistico) più le inserzioni sui giornali, agenzie private in misura uguale le segnalazioni di parenti e amici I più istruiti / chi ha perso un lavoro impiegatizio o nei servizi usano: meno segnalazioni amici e conoscenti – vero in tutta Europa più inserzioni giornali – vero in tutta Europa, domande di assunzione e soprattutto al sud concorsi pubblici (nel sud la metà di diplomati e laureati partecipa a concorsi) in misura uguale collocamento I giovani in cerca di prima occupazione usano: più concorsi pubblici e inserzioni giornali I disoccupati usano: più visite a datore di lavoro e collocamento I disoccupati di lunghissimo periodo (oltre 24 mesi) usano: meno segnalazioni, inserzioni giornali, invio domande di assunzione e visite a datori di lavoro più collocamento e soprattutto concorsi Formali moderni Formali tradizionali Informali Organizzati Agenzie private Uffici di collocamento Non Organizzati Invio domande di assunzione Concorsi pubblici Segnalazioni amici e conoscenti Inserzioni sui giornali (fare, leggere) Visita a potenziali datori di lavoro I modelli europei Ricerca formale e organizzata Ricerca formale e informale Ricerca informale e organizzata Inserzioni giornali e agenzie di collocamento, poche relazioni personali Inserzioni giornali e relazioni personali Relazioni personali e uffici pubblici di collocamento Germania e UK Francia e Belgio Italia, Spagna, Grecia Graduatoria di efficacia (come si è trovato lavoro) Collocamento Inserzioni, visite o domande di assunzione Concorso pubblico Reti di relazioni Subentro attività proprio familiare A parità di livello di istruzione per il primo lavoro contano di più le relazioni personali e, tra i laureati, i contatti diretti con le imprese per i successivi lavori contano di più i concorsi pubblici e, tra i meno istruiti, l’avvio di attività in proprio Esiti contraddittori circa relazione tra intensità della ricerca (numero di azioni messe in atto in un dato tempo) e probabilità di trovare il lavoro Reti di relazioni personali, ovvero capitale sociale (capacità dell’individuo di mobilitare relazioni con persone che per il loro status siano in grado di fornire aiuto nella ricerca del buon lavoro) – Dibattito tra maggiore efficacia legami deboli o legami forti teoria che i legami deboli sono i più importanti perché mettono in contatto “mondi” diversi (critica: sarebbero vantaggiosi solo per persone di status sociale basso) e perché sono più che sufficienti a far passare il basso di livello di informazione necessaria perché domanda e offerta si incontrino (critica: le imprese chiedono garanzie di affidabilità per tutti e per medio-alte qualificazioni anche di inserimento in particolari ambienti sociali) legami deboli di fatto prevalgono in USA e nord-Europa; legami forti (familiari) in Italia, Grecia e paesi asiatici

8 Lez. 9 Donne al lavoro I Le donne che erano state espulse dal lavoro durante l’industrializzazione fordista, coincidente anche con l’inurbamento, a partire dagli anni ritornano al lavoro: è il fenomeno più importante degli ultimi anni La crescita è forte negli anni 70, rallenta negli anni 80 e si stabilizza negli anni 90 un po’in tutti i paesi, Italia compresa L’Italia, che partiva da tassi di attività femminile comunque inferiori, mantiene le distanze sia dal gruppo di testa (peasi nordici) sia da quello intermedio (Francia e Germania) Le differenze tra paesi nel tasso di attività totale femminile dipendono da quelle nella partecipazione al lavoro delle donne tra i 25 e i 50 anni, le età dei carichi familiari, e hanno connessioni con gli assetti culturali, sociali ed economici propri di ogni paese In Europa si sono delineati 3 diversi modelli di partecipazione femminile al lavoro: il modello a campana, o maschile, tipico dei paesi nordici: partecipazione in età giovanile che prosegue senza flessioni il modello a M di Francia e Germania: partecipazione in età giovanile, uscita dal lavoro per maternità e figli piccoli, poi ritorno il modello a L rovesciata dell’Europa meridionale: partecipazione solo in età giovanile, poi uscita senza ritorno Attualmente tutti i pesi tendono a convergere verso il modello a campana: l’aumento della partecipazione si concentra nella classe d’età dai 25 ai 50 anni, i cui tassi di attività aumentano molto In Italia la situazione è in netta evoluzione: le differenze rispetto all’Europa sono ormai molto ridotte per le 20-30eeni, mentre rimangono forti per enni Negli anni 80 gli aumenti della partecipazione al lavoro hanno riguardato soprattutto le 25-30, che sono poi evidentemente rimaste dato che negli anni 90 gli aumenti riguardano le 40enni Forti differenza territoriali tra centro nord, dove la figura della casalinga è praticamente scomparsa fra le giovani e si registra una fortissima crescita del tasso di attività tra le adulte, e sud dove il tasso di attività è cresciuto più lentamente, la figura della casalinga è ancora rilevante,e soprattutto molta della partecipazione al lavoro delle 20-30eeni si è tradotta in vana ricerca, pur senza sortire effetti di scoraggiamento Le spiegazioni della crescente partecipazione al lavoro delle donne adulte stanno, in molti paesi tranne l’Italia, nei mutamenti delle caratteristiche della domanda di lavoro attraverso l’introduzione del part time In Europa esistono due vie al part time: quella scandinava, dove il part time coincide prevalentemente con il pubblico impiego ed è concepito per far lavorare le donne in attività stabili e non disagiate; e quello britannico, dove il part time è prevalentemente privato e concepito per assicurarsi basso costo del lavoro e flessibilità In entrambi i casi la maggiore diffusione del part time coincide con la maggiore occupazione femminile, anche e soprattutto considerando la fascia anni dove è maggiore il carico del lavoro familiare In tutti i paesi tranne gli USA e l’Italia negli ultimi 30 anni il part time è cresciuto più del tempo pieno, ed in tutti tranne che in Italia è stato determinante per la crescita dell’occupazione femminile In Italia invece per tutti gli anni 70 e 80 l’occupazione femminile è cresciuta senza che crescesse la quota di part time solo nel 1993 la quota di par time comincia a crescere: passa dall’11% al 18% nel 2001 (comunque una percentuale molto bassa), e dal 1995 quasi la metà della nuova occupazione femminile è a tempo parziale questo fa sì che confrontando l’occupazione femminile in Italia con quella negli altri paesi europei in termini di occupazione a tempo pieno equivalente,le differenze si riducano molto; in particolare le donne adulte che lavorano in Lombardia e Emilia Romagna sono fra le più “indaffarate” in tutta Europa Ovunque il part time è soprattutto diffuso nel commercio, nel settore alberghiero e ristoranti e nei servizi Tende ad essere più presente nei lavori manuali non qualificati e addetti alle vendite in Italia, essendo il part time meno diffuso, le differenze non sono ancora accentuate: questo significa che vi è ancora spazio di crescita del part time in queste attività Nonostante la sua dequalificazione, la scelta del part time tende ad essere più volontaria e meno obbligata a mano a mano che aumenta la sua diffusione L’apparente paradosso è spiegato con la presenza di due categorie molto diverse di donne lavoratrici: da un lato le avanguardie istruite che vivono il lavoro come realizzazione primaria, sono orientate al full time e vivono l’eventuale part time come ripiego (sono queste le donne che hanno generato al crescita del tasso di attività femminile in Italia senza part time); e dall’altro le grateful slaves meno istruite, che rimangono orientate principalmente alla famiglia e vivono il part time come un’opportunità di poter conciliare con la famiglia comunque un lavoro -> questo fa sì che il part time dequalificato si sia diffuso senza provocare tensioni sociali Questa spiegazione in termini di “categorie di donne” è criticata da coloro che vedono le loro scelte come frutto di condizionamenti culturali e comunque “obbligate” dalla carenza di servizi sociali

9 Lez. 9 Donne al lavoro II In Italia, in assenza di part time e servizi sociali per l’infanzia, e in presenza di una permanente sperequazione nella ripartizione del lavoro domestico fra i partner, le donne riescono a conciliare la loro crescente partecipazione al lavoro retribuito con gli impegni familiari grazie a: ricorso a collaborazioni domestiche (circa il 7% delle famiglie italiane ha una colf almeno a ore) ricorso a reti di aiuto familiare: usate da oltre il 60% delle famiglie con bambini riduzione della fertilità: da 2,4 figli per donna nel 1970 a 1,1 alla fine degli anni 90 In tutti i paesi è evidente una relazione negativa tra numero di figli e tasso di attività; in Italia la relazione è anche non progressiva, ovvero basta un solo figlio provocare una brusca caduta (tranne che per le laureate) L’esperienza scandinava dimostra che, pur trattandosi di politiche costose (lunghi congedi parentali, servizi sociali, ecc) , è possibile conciliare alta fertilità e alto tasso di occupazione femminile D’altra parte esiste una relazione negativa tra il “familismo” proprio dei paesi dell’Europa meridionale e numero di figli: vuoi perché il familismo frena le nascite fuori dal matrimonio, vuoi perché ritarda l’uscita dalla famiglia e quindi l’età del matrimonio, vuoi infine perché il welfare familista carica la famiglia di troppi compiti, provocando così maggiore inattività fra le donne, quindi minor reddito che infine si traduce in numero minore di figli Relazione positiva tra livello di istruzione e partecipazione al lavoro femminile In Italia l’aumento dell’offerta di lavoro femminile si deve, più che a comportamenti diversi di generazioni successive a parità di livello di studio, a cambiamenti della composizione della popolazione femminile per livello di istruzione: sono aumentate laureate e diplomate, e queste non solo lavorano di più, ma rimangono sul mercato del lavoro più a lungo Due le spiegazioni a questa relazione: da un lato la teoria economicista del capitale umano (istruzione come investimento che deve rendere), dall’altra quella sociologica dell’istruzione come veicolo di emancipazione e acquisizione di nuovi modelli sociali L’istruzione, consentendo l’accesso ad occupazioni più qualificate e retribuite, favorisce anche indirettamente un maggiore attaccamento a tali occupazioni La crescita dell’istruzione delle donne è stata favorita da numerosi fattori concomitanti: le famiglie hanno meno figli fra i quali ripartire i costi d’istruzione, l’istruzione rappresenta sempre di più una chiave di mobilità sociale (attraverso il lavoro qualificato, ma anche attraverso il più tradizionale matrimonio che però oramai perlopiù avviene tra persone di pari livello di istruzione), le ragazze “ripagano” maggiormente la famiglia delle spese di istruzione perché a scuola hanno mediamente più successo La crescita dell’occupazione femminile si concentra nei servizi (anche in Italia oltre il 40% degli occupati sono donne) In particolare è rilevante la presenza femminile nel commercio, turismo e ristorazione, nel credito e assicurazioni, nei servizi alla persona pubblici (sanità, istruzione, servizi sociali) e privati Dalla fine degli anni 90 è stata rilevante la crescita dell’occupazione femminile anche nei servizi alle imprese, che presuppongono ulteriori livelli di qualificazione Il pubblico è da sempre il settore che meglio consente di conciliare lavoro e impegni familiari, per le sue caratteristiche strutturali (tempo pieno corto) e non (lassismo); tuttavia il settore pubblico conta solo per 1/3 dell’occupazione femminile Il tipo di attività nelle quali si concentra l’occupazione femminile sono le professioni impiegatizie intermedie (anche ad elevata specializzazione) e le mansioni manuali non qualificate (addette alle vendite, ecc) La nuova domanda di lavoro si rivolge principalmente alle donne perché sono le donne stesse che, uscendo di casa, creano le condizioni per l’esternalizzazione delle funzioni che prima svolgevano al suo interno -> circolo virtuoso del lavoro femminile che crea la propria domanda: in UE il 40% dell’occupazione femminile è nei servizi alle famiglie (dove le donne sono quasi il 70%) Sempre a livello UE un altro 20% dell’occupazione femminile è nei servizi commerciali (dove le donne sono il 40%): stereotipo di genere, la donna più attenta alle esigenze del cliente Alla crescita dell’occupazione femminile si accompagna quindi una sua evidente segregazione in attività “da donne” La segregazione è orizzontale (concentrazione in settori e occupazioni allo stesso livello di prestigio sociale), misurata attraverso l’indice di dissomiglianza (proporzione di donne che dovrebbero cambiare settore per avere un’uguale distribuzione fra tutti) Ma è anche verticale: nel modello europeo le donne sono sotto-rappresentate nelle occupazioni con maggiori livelli di prestigio e qualificazione (professioni dirigenziali e mansioni operaie qualificate) e sovra-rappresentate nelle altre (impiegati esecutivi, addetti a vendite e servizi, occupazioni elementari) Nel modello italiano e dell’Europa meridionale la segregazione verticale è minore, proprio perché sono ancora poco diffusi i tipici lavori part time nella distribuzione e nei servizi alle famiglie e prevalgono ancora fra le occupate le avanguardie istruite e con un forte orientamento al lavoro Ma qui come là anche le avanguardie ad un certo punto si rompono le corna sul soffitto di cristallo: entrate in azienda alla pari degli uomini, fanno poi meno carriera; le spiegazioni stanno sia nella minore disponibilità ad alti investimenti in tempo e mobilità geografica, sia nell’esclusione dalle reti informali (old boys networks)

10 Lez. 11 Nord-Sud: due mercati del lavoro a confronto
Nessun paese UE, inclusa la Germania riunificata, ha divari interni altrettanto forti L’EVOLUZIONE Da metà anni 50 a metà anni 70 Da metà anni 70 ai primi anni 90 Dal 92 al 95 Dal 96 al Centro-Nord Occupazione in leggero calo e disoccupazione stabile (ovvero: la forza lavoro diminuisce in misura proporzionale agli occupati) Forte aumento dell’occupazione e della disoccupazione (ovvero: ciclo economico favorevole, ma la forza lavoro cresce più che proporzionalmente rispetto agli occupati) La più grave crisi del dopoguerra, con caduta dell’occupazione e aumento della disoccupazione Forte ripresa dell’occupazione e netta riduzione della disoccupazione Sud Occupazione in netto calo, disoccupazione in calo e poi stabile Aumento debole dell’occupazione e aumento fortissimo della disoccupazione: nella seconda metà degli anni 80 il TD del sud passa dall’essere il doppio all’essere il triplo di quello del centro nord Caduta dell’occupazione e aumento della disoccupazione Ripresa dell’occupazione e leggera riduzione della disoccupazione Spiegazione e ruolo dei movimenti migratori interni Il massiccio esodo (negli anni 60 fino a ¾ delle nuove leve emigrano) nel Sud fa diminuire sia occupazione che disoccupazione Nel centro nord gli emigrati sostituiscono coloro che escono dal mercato del lavoro: le donne (che rimangono a casa per crollo occupazione in industrie tessili e agricoltura) e i giovani (che rimangono a casa per studiare) Ciclo economico favorevole che però al Sud, in situazione di partenza disagiata, fa sentire meno i suoi effetti; e soprattutto per l’arresto dell’emigrazione – l’anno di cesura è il il sud deve nuovamente far fronte a tutta la propria crescente forza di lavoro Nel centro-nord le donne tornano sul mercato del lavoro Al sud crisi come al nord, ma al sud data la situazione di partenza sfavorita gli effetti sono più forti, e la forbice con il nord si amplia ancora Al sud gli effetti del ciclo economico favorevole sono attutiti: la congiuntura economica, in particolare positiva, incide di più nelle regioni a minore disoccupazione. La forbice con il nord accenna solo lievemente a richiudersi Tasso di Disoccupazione: il divario appare ancora più estremo considerando il solo nord rispetto al sud e i soli maschi: al nord per i maschi pieno impiego (= TD “frizionale” intorno al 3-4%) da fine anni ’70 (tranne che durante crisi metà anni 80); al sud da fine anni 80 disoccupazione di massa per maschi (e situazione di esclusione per le donne) Maschi + femmine: a fine anni 90 Lombardia, Emilia, e Veneto con un TD del 5% competono per il primato del minore TD UE; Calabria e Sicilia con il 25% competono per il primato opposto Tasso di Occupazione: il divario è altrettanto impressionante -> TO lordo è del 43% al Nord (ogni occupato mantiene se stesso + 1 persona e un tot) e del 28-29% al sud (ogni occupato mantiene se stesso più quasi 3 persone) La caduta della mobilità come fenomeno sovra-nazionale: tendenza comune a quasi tutti i paesi avanzati in UE si verifica da fine anni 60, paradossalmente in coincidenza con la scomparsa degli ostacoli normativi alla mobilità: aspetti sociali ed economici contano di più la spiegazione è in termini di costi psicologici e culturali che diventano crescenti una volta assicurata la sopravvivenza attualmente la mobilità non riguarda più i meno istruiti come negli anni 60, ma al contrario le élite culturali (manager multinazionali e organismi internazionali, professori e ricercatori università) per i quali la “patria” finisce col coincidere con il proprio mondo professionale La caduta della mobilità interna in Italia: mobilità si è fermata a metà anni 70, in lieve ripresa negli ultimissimi anni cresce la mobilità interna temporanea (pendolarismo squadre edili, lavoratori interinali, stagisti cooperazione inter-regionale) che però è accompagnata da organizzazione logistica i disoccupati del sud “disposti ad andare ovunque” oscillano tra il 30 e il 33% e sono concentrati tra i maschi, giovani, celibi e istruiti Spiegazioni: re-distribuzione del reddito operata dalla spesa pubblica consente comunque livelli di consumo superiori a quelli che sarebbero consentiti dai livelli locali di produzione rete famiglia-parenti-amici fondamentale quanto il salario nel determinare tenore di vita politica della casa di proprietà riduce mobilità a causa degli elevati costi di transazione differenze salariali non sono tali da bilanciare le differenze dei poteri d’acquisto crisi grande imprese; le piccole non solo hanno minore visibilità (non si conoscono quelle che offrono lavoro) ma danno anche minori garanzie di mantenere l’occupazione nel tempo vecchie catene migratorie (nord-ovest) inutili, perché le nuove aree di attrazione sono al nord-est solo quando non c’è davvero più futuro si perde la speranza -> da fine anni 90 al sud anche il tasso di disoccupazione dei maschi adulti in forte crescita -> ripresa dei flussi

11 Lez. 12 Dall’industria al terziario
A partire dagli anni 70 tutta la crescita dell’occupazione in Italia (e non solo) si deve al terziario I servizi rappresentano attualmente oltre il 63% dell’occupazione totale, ma questo non è certo un limite massimo (sono il 75% negli USA); il Sud è anche più terziarizzato (67%), ma questo è un effetto perverso del bassissimo peso dell’occupazione nell’industria La dinamica per cui l’occupazione cresce prevalentemente dei servizi spiegata non solo in virtù dell’aumento di richiesta di servizi nelle società avanzate, ma anche della loro minore competitività in termini di produttività del lavoro: mentre nell’industria la produzione cresce con sempre meno lavoratori, nei servizi la crescita della produzione si accompagna alla crescita di occupazione (ovvero i servizi sono labour intensive, perché per la loro natura vuoi necessitano di personale qualificato, vuoi riescono in misura minore a tradurre l’introduzione di nuove tecnologie in aumento di produttività) I diversi tipi di servizi Servizi alle imprese: es pubblicità, legale, finanziari, ecc Servizi finali o per il consumo: es ristorazione, pulizia, educazione, assistenza sanitaria Sono frutto della specializzazione organizzativa di alcune funzioni necessarie alle aziende produttive che vengono esternalizzate; il loro sviluppo dipende quindi dalla diversa tendenza a esternalizzare i servizi dell’industria (ad es molto bassa in Germania). Creano occupazione tendenzialmente ad alta qualificazione Anche in questo caso il loro sviluppo dipende dal bisogno/volontà/possibilità delle famiglie di esternalizzare servizi invece che autoprodurli (self service). In pratica si sviluppano all’aumentare del tasso di occupazione delle donne e, sviluppandosi, creano essi stessi la domanda di lavoro tipicamente femminile. Creano occupazione con qualificazione da medio-bassa a medio-alta e che si presta particolarmente al part time Possono essere privati, ovvero venduti sul mercato -> possibilità d’accesso legata al potere d’acquisto delle famiglie Oppure forniti da strutture pubbliche, ovvero non destinabili alla vendita -> possibilità d’accesso per tutti, finanziati attraverso il prelievo fiscale I diversi modelli per i servizi finali, ovvero i diversi percorsi di terziarizzazione della società Contrariamente all’opinione diffusa, in Italia i dipendenti del settore pubblico NON rappresentano una quota particolarmente elevata dell’occupazione totale. Il contributo del settore pubblico alla crescita dell’occupazione, dopo essere stato rilevante negli anni 70, è rallentato negli anni 80 e dagli anni 90 è trascurabile Svezia e paesi nordici: welfare economy USA (e UK): market economy Italia (ma anche Francia e Germania): self service economy Forte pressione fiscale Bassa pressione fiscale Pressione fiscale medio-alta Diffusi servizi pubblici Diffusi servizi privati a basso costo Più sussidi che servizi pubblici Diffuso self service Elevata occupazione femminile Scarsa occupazione femminile Italia 16% Germania 16% Francia 22% UK 20% … anche se vi sono le solite differenze territoriali, che sono però frutto più della mancanza di alternative che di squilibri rispetto ai bisogni (popolazione) Su occupazione Su popolazione Nord 12% 5,0% Centro 18% 6,7% Sud 23% 6,2% Obiettivo UE per il 2010 è raggiungere un tasso di occupazione netto del 70% (attualmente 63,3%, Italia 53,5%) e del 60% per le donne (attualmente 54,4%, Italia 38,3%), obiettivo da raggiungere attraverso l’ulteriore sviluppo dei servizi Questo significa adottare un modello di società in cui tutti, comprese le donne, trovano nel lavoro una possibilità di autorealizzazione, e i servizi finali vengono esternalizzati -> circolo virtuoso innescato dal lavoro femminile Occorre però trovare una soluzione alla “malattia dei costi” propria dei servizi (creano occupazione perché sono a bassa e costante produttività, ma proprio per questo il loro costo aumenta), problema che si può affrontare in 2 modi alternativi estremi e tutte le possibili vie di mezzo: pagando meno chi ci lavora (working poors modello USA), oppure ripartendo il maggior costo attraverso il sistema fiscale (vuoi servizi pubblici, vuoi fiscalizzazione oneri sociali per i lavoratori a basso reddito) In Italia nonostante il processo di esternalizzazione dell’industria sia forte (per la prevalenza delle piccole imprese) vi è scarsa occupazione nei servizi alle imprese -> segno di scarsa innovazione tecnologica e organizzativa, anche se dagli anni 90 il settore è in netta crescita Vi è invece una relativamente alta occupazione nei servizi finali tradizionali ai privati, che a volte suppliscono all’inefficienza dei servi pubblici (es ) Relativamente scarsa l’occupazione nel turismo, nella sanità e assistenza sociale, nelle attività ricreative Rispetto alla via UE di ulteriore sviluppo dei servizi l’Italia parte da due condizioni opposte: un Nord ricco sovra-industrializzato e sotto-terziarizzato, che può (e deve per migliorare la qualità della vita delle famiglie) seguire la via UE; e un Sud povero sotto-industrializzato dove la crescita occupazionale non può avvenire solo attraverso i servizi

12 Lez. 13 La composizione dell’occupazione - I
Nella società avanzate al crescere del terziario si accompagna una terziarizzazione dell’industria, ovvero una presenza crescente di mansioni non operaie ma impiegatizie La riduzione del lavoro manuale è un fenomeno generale che tocca tutti i settori: lavoro indipendente, (meno contadini e artigiani, più liberi professionisti), trasporti, settore pubblico, commercio e turismo Peraltro nell’industria manifatturiera la crescita dell’utilizzo delle tecnologie avanzate provoca una sempre meno rigida distinzione tra la figura dell’impiegato e quella dell’operaio, che sempre di meno è un lavoratore manuale e sempre più un tecnico specializzato La specificità che storicamente contraddistingue l’Italia è l’avvio ritardato dell’industrializzazione I picchi sono stati agli inizi degli anni 70: massimo del livello dell’occupazione nell’industria manifatturiera (1,2 m operai), più alta quota di lavoratori dipendenti, massimo dell’occupazione nelle grandi industrie -> momento di massima espansione in Italia della cosiddetta “classe operaia centrale” legata all’occupazione in grandi fabbriche di modello fordista (serie) e taylorista (parcellizzazione e ripetitività); triangolo industriale TO-MI-GE e alcuni poli del Sud da quel momento in poi inizia la deindustrializzazione ed il declino dell’occupazione nell’industria, rallentata solo dalla cassa integrazione (formalmente i cassintegrati rimangono occupati) A fine anni 90 gli operai che lavorano nelle grandi fabbriche rappresentano solo il 62% degli occupati (erano il 76% a fine anni 70), mentre la loro quota rimane più alta al decrescere delle dimensioni delle imprese (oltre 70% nelle medie, oltre 80% nelle piccole) Attualmente solo il 38% degli operai lavora nell’industria, un altro 14& nell’edilizia e ben il 40% nel terziario: il processo di terziarizzazione della società fa nascere la figura dell’operaio dei servizi, sorta di “domestico e servitore” non più di una famiglia ma dell’intera società: commesse, camerieri, portieri, estetiste, autisti, facchini, addetti alle pulizie…. Si tratta di lavori di infimo status sociale, per i quali non sono richieste competenze professionali ma alte “competenze trasversali” (?) ovvero coinvolgimento Potrebbe configurarsi un “ghetto di proletari dei servizi”, ma secondo R. no perché accedono a queste professioni spesso “lavoratori in transito”, che vivono il lavoro in modo strumentale e non legano ad esso la definizione del proprio status sociale: giovani (i lavoretti), donne di mezza età, immigrati I cambiamenti propri delle società avanzate sono stati tradizionalmente valutati in modo opposto da un lato dagli economisti, che dall’analisi dei cambiamenti della struttura occupazionale traevano la conclusione ottimista che aumentano i lavori qualificati non industriali (limite: analizzare solo la struttura dell’occupazione dando per scontato che i significati delle definizioni delle mansioni professionali non cambino), e dall’altro dai sociologi del lavoro che dall’analisi dei casi singoli di aziende traevano la conclusione pessimista di una tendenza verso la progressiva dequalificazione delle mansioni (limite: l’analisi del caso singolo) Attualmente vi è accordo sulla visione del cambiamento come terziarizzazione, che però molti ritengono proceda lungo due assi polarizzati Nell’analizzare l’evoluzione della composizione dell’occupazione in Europa, occorre non dimenticare l’effetto globalizzazione, che fa sì che sempre più nei paesi avanzati si concentrino le “teste” ad alta professionalità, a fronte di “corpi” produttivi sparsi nel mondo; inoltre recentemente sta verificandosi una delocalizzazione anche di servizi di livello superiore (centri prenotazione -e di calcolo!- in India) Inoltre occorre non dimenticare mai l’importanza delle “basi”: settori in forte crescita ma piccoli creano meno posti di lavoro di settori magari stabili ma grandi In base a classificazione ISCO dei livelli professionali (parametri: settore professionale / funzione svolta / livello di responsabilità - autonomia): Composizione dell’occupazione per livello di qualificazione professionale frutto della diversa struttura produttiva: in Italia nel settore industriale (prevalenza piccola e media impresa) è molto bassa la presenza di professioni intellettuali la fascia centrale del lavoro manuale è poco istruita e molto indipendente: i sistemi di piccole imprese si fondano su operai specializzati e artigiani poco scolarizzati, ma con grandi capacità di innovazione adattiva e flessibilità al contrario in Germania il sistema di grandi imprese si fonda su maestri operai formati nel sistema di istruzione tecnica, e ingegneri e tecnici capaci di innovazioni fondamentali UK, Svezia, Olanda e Belgio Italia, Francia Germania Spagna e Portogallo PROFESSIONI INTELLETTUALI Quota altissima Quota media Quota alta Quota bassa ATT.TA’ NON MANUALI DEQUALIFICATE ATT.TA’ MANUALI QUALIFICATE ATT.TA’ MANUALI NON QUALIFICATE

13 Lez. 14 La composizione dell’occupazione - II
Anche la struttura dell’occupazione nei servizi privati finali (destinati al consumatore) riflette i diversi sistemi produttivi dei paesi COMMERCIO E TURISMO: in Europa centro-settentrionale, ma anche in Spagna, lo sviluppo delle grandi organizzazioni commerciali e alberghiere ha favorito la diffusione di manager con compiti solo gestionali e di posti di lavoro professionale e tecnico molto qualificato Al contrario in Italia in questi settori prevale la piccola impresa su basi familiari (commercio al dettaglio, piccoli alberghi/pensioni a conduzione familiare) dove il piccolo imprenditore continua a prestare attività di servizio ai clienti, e nell’occupazione dipendente rimane predominante la figura poco qualificata dell’addetto alle vendite e ai servizi SERVIZI PUBBLICI E SOCIALI: sono i servizi destinati alla “riproduzione biologica (sanità) e culturale (istruzione) della società”, per lo più pubblici, e sono i settori a più alta intensità di lavoro intellettuale (anche se in essi statisticamente vengono inseriti anche i servizi domestici, e questo nei pochi paesi dove sono diffusi – Italia e Spagna – provoca un abbassamento della penetrazione delle qualificazioni alte) Nella PA vera e propria l’Italia in termini di qualificazione professionale è in netto ritardo rispetto alla UE: oltre il 40% dei dipendenti sono impiegati esecutivi, mentre altrove sono sempre meno del 30% (mentre il numero totale dei dipendenti è in linea con la media europea) Nella sanità invece la percentuale delle qualificazioni alte (medici) in Italia è molto più alta che negli altri pesi UE, ma come effetto perverso della carenza di figure intermedie paramediche, mentre il totale degli occupati è piuttosto basso (solo il 5% dell’occupazione totale, è il doppio in Francia e UK) Solo nell’istruzione Italia in linea con altri paesi TRASPORTI: Italia sempre fortemente arretrata, ma almeno qui la Spagna sta dietro Dalla seconda parte degli anni 90 in Italia la percentuale di professioni non manuali non qualificate è cresciuta più velocemente che negli altri paesi europei, segno di una tendenza al recupero, mentre le occupazioni manuali sono scese (anche se più quelle qualificate che quelle non qualificate, e il bilancio non tiene conto del netto aumento degli immigrati che sono probabilmente andati a sostituire molti italiani nelle aree meno qualificate) Ovvero la nuova occupazione che si è creata dal 1995 al 2000 (saldo positivo di un milione di posti di lavoro) è stata quasi tutta concentrata nell’area del lavoro non manuale per lo più ad alta qualificazione: dirigenti e professionisti nei servizi alle imprese, nella distribuzione commerciale e nei servizi ai privati, nuove professioni finanziarie, informatiche, risorse umane (cosa è successo dal 2000 in poi???) Le “nuove professioni” sono caratterizzate dalla presenza di “nuove competenze” trasversali ai diversi settori Competenze informatiche: attualmente 42% dei lavoratori italiani utilizzano abitualmente il computer (media UE 45%, in alcuni paesi si arriva al 70%) “Life skills” ovvero competenze che vanno oltre il semplice “know how” frutto di formazione e esperienza, e attengono invece alla vita personale del lavoratore: competenze cognitive (identificare e risolvere problemi, guidare processi lavorativi non determinati), competenze comunicative e sociali (manipolare rapporti interpersonali), competenze affettive (coinvolgersi negli obiettivi e assumersi responsabilità), capacità e volontà di adesione alle culture aziendali, e a quelle professionali (proprie della propria “corporazione”) trasversali alle aziende: sono saperi impliciti o taciti che non si acquisiscono con un apprendimento formale, ma sono frutto delle diverse reti di relazioni (familiari, amicali, sociali). Vero ma…ORRORE La fabbrica fordista e taylorista aveva sostituito al concetto di “mestiere” (abilità manuali e competenze tecniche-merceologiche acquisite tramite esperienza che rappresentavo qualità proprie del lavoratore e che consentivano una facile mobilità interaziendale, anche se non intersettoriale) quello di “mansione” o “posto” (insieme limitato di compiti secondo l’organizzazione di ogni impresa, rendevano difficile la mobilità interaziendale a favore di quella interna) La società attuale rompe il nesso tra attività e settori merceologici, facendo emergere figure professionali trasversali definite dalla funzione e dal livello (fabbricazione, trattamento dati, vendite, ecc). Si attenuano quindi i confini aziendali e si affermano attività che non dipendono dall’organizzazione, ovvero possono essere trasferite in qualsiasi organizzazione: aumentano i flussi di entrata-uscita dall’impresa, si sviluppano nuove forme di carriera che alternano periodi in azienda a periodi di lavoro indipendente Le “nuove professioni” hanno caratteristiche che prescindono dalle organizzazioni, sono fondate su sapere “scientifico” e reputazione, richiedono autonomia e discrezionalità, danno accesso a opportunità tramite sia curriculum formale che la cooptazione dei pari; le carriere diventano esterne alle imprese, si formano mercati professionali: l’attaccamento alla professione sostituisce quello all’impresa

14 Lez. 15 Flessibilità del lavoro e occupazioni instabili I:
i contratti atipici Distinzione tra due diversi tipi di flessibilità del lavoro: flessibilità numerica: in relazione con i vincoli che regolano licenziamenti e assunzioni, con la possibilità di assumere lavoratori a tempo determinato e di sub-appaltare il lavoro ad altre imprese o a lavoratori in proprio (costi fissi-variabili, efficienza) flessibilità funzionale: in relazioni con la possibilità di spostare un lavoratore da un posto all’altro nell’impresa; presuppone, oltre all’assenza di vincoli, anche condizioni di polivalenza professionale e coinvolgimento negli obiettivi aziendali (efficacia) Le imprese possono perseguire entrambi gli obiettivi di flessibilità, dividendo la forza lavoro in due: un nucleo fisso di lavoratori “strategici”, sui quali fare affidamento per la flessibilità funzionale una fascia periferica a geometria variabile, che rende possibile la flessibilità numerica (ma può anche accadere il contrario, ad esempio nei servizi alle imprese: il nucleo fisso è costituito dalle mansioni meno qualificate, mentre i professionisti ruotano secondo esigenze, opportunità e disponibilità) L’alternativa tra flessibilità numerica e funzionale dipende dalla disponibilità di lavoratori con le competenze richieste, oltre che dalla dimensione dell’impresa, dall’incertezza dei mercati e dalla complessità del lavoro: tipicamente al crescere di queste tre caratteristiche, cresce il bisogno di flessibilità funzionale, al decrescere cresce il bisogno di quella numerica; la flessibilità numerica porta con sé anche svantaggi (scarsa cooperazione e scambio tra lavoratori e impresa, scarsa motivazione per il lavoratore a investire in capitale umano) che la rendono controproducente in produzioni ad alta intensità tecnologica o intellettuale Controversa la relazione tra flessibilità numerica e occupazione: se è vero che a livello micro un’impresa può essere invogliata ad assumere dalla facilità di licenziare, è anche vero che a livello macro una maggior flessibilità può tradursi in più ampie oscillazioni dell’occupazione per un maggior numero di lavoratori, ma non in maggiore occupazione in assoluto Accettato tuttavia che una maggiore flessibilità riduce il ricorso al lavoro nero Lavori non standard o atipici definiti per differenza rispetto alla classica configurazione del lavoro subordinato affermatasi fino agli anni 70, in quanto non presentano almeno una delle sue caratteristiche fondanti: subordinazione ad una sola impresa contratto a tempo indeterminato impegno a tempo pieno protezione contro il rischio di perdere il lavoro Il lavoro a domicilio è una forma di lavoro atipico certamente non nuova, ed è tutt’ora molto diffuso su scala mondiale. Si caratterizza per la retribuzione a pezzo e non a tempo e può contare sull’enorme riserva del lavoro femminile. In Italia è in declino al nord, ma in aumento al sud e tra le donne immigrate Le forme “moderne” di lavoro atipico sono tutte caratterizzate dal fatto che si tratta di lavoro temporaneo; possono essere: contratti a termine, con fini formativi (contratti di formazione lavoro e di apprendistato) e non lavoro stagionale lavoro interinale Sono forme di lavoro in netta crescita, ma ancora minoritarie: in UE rappresentano il 13% dell’occupazione dipendente (ma in Spagna situazione abnorme, rappresentano il 33%); in Italia rappresentano il 10% (raddoppio dall’inizio degli anni 90), ed hanno avuto una crescita più elevata negli anni di crisi (92/93) e in quelli iniziali della ripresa, con tendenza alla stabilizzazione quando la ripresa si è consolidata; la tendenza al ricorso al lavoro temporaneo sembra soprattutto connessa ai cicli economici, mentre non mostra apprezzabili relazioni né con la rigidità di regolamentazione del lavoro temporaneo stesso, né con il grado di protezione del lavoro permanente; controversa anche qui la relazione tra lavoro temporaneo e occupazione In tutta Europa, Italia compresa, il lavoro temporaneo si caratterizza soprattutto come la forma di inserimento dei giovani nel mondo del lavoro: attività irregolari, contratti di apprendistato, di formazione lavoro e a termine sono le tappe di una lunga gavetta che alla fine sfocia (ma non prima dei 25 anni e in maggioranza oltre i 30) in assunzione a tempo indeterminato; questa porta alla formazione di un vasto precariato giovanile che provoca un’erosione dell’occupazione permanente la seconda categoria “tipica” sono le donne in genere il lavoro temporaneo è più diffuso tra i meno istruiti, tuttavia vi è una significativa quota di istruiti (giovani in transito) e alte professionalità (persone ad alto capitale umano, in questo caso il lavoro temporaneo può essere volontario); alto rischio di “intrappolamento” dopo i 35 anni Il lavoro interinale si caratterizza oltre che per la temporaneità del rapporto, per il fatto che c’è dissociazione tra datore di lavoro (l’agenzia di lavoro interinale) e impresa utilizzatrice in Italia introdotto dal 1986 con il pacchetto Treu, è ammesso di fatto per qualsiasi settore, con vincoli (dipendenti dai settori) di quota massima per impresa; le imprese possono ricorrervi per più motivi, comprese le punte di attività, imprevedibili o meno; alle agenzie vengono posti vincoli di solidità e di investimento in formazione, il che fa sì che in Italia si siano affermate le multinazionali; fenomeno di nicchia: in Italia rappresenta lo 0,3% dell’occupazione totale (media UE 1,5%), anche se intorno ad esso ruota un numero ben maggiore di lavoratori (in Italia nel 2000 il 2% del lavoro dipendente) alle imprese assicura (con costi maggiori ma variabili) rapidità di reperimento e personale selezionato (più per affidabilità che per professionalità specifica); viene utilizzato soprattutto da grandi imprese del nord (Lombardia) per mansioni operaie, impiegati esecutivi, figure tecniche (informatici) tra gli interinali il 60% sono giovani < 30 anni, gli immigrati il 15-20%, significativa presenza di donne quarantenni che ritornano al lavoro; laureati 5-7%, diplomati 35-45%: la sua temporaneità permette anche a giovani istruiti di accettare lavori manuali (bacino sud); dal 14 al 25% degli interinali vengono assunti a scadenza; si delineano le tre figure: chi transita, chi rimane intrappolato, e i professionisti dell’interinale

15 Lez. 16 Flessibilità del lavoro e occupazioni instabili II:
il lavoro indipendente Da metà degli anni ’70 (avvio processo di deindustrializzazione) si arresta anche il calo del lavoro indipendente, che rinasce anche dove era in via d’estinzione (es UK, dove attualmente vale il 7% del totale occupati), anche se negli anni 90 la ripresa si arresta Il fenomeno vale anche per l’Italia, che è il Paese che ha sempre mantenuto la più alta quota di lavoro indipendente extra-agricolo: dal minimo storico del 22% a fine anni 70, si è risaliti al 28% rimasto costante per tutti gli anni 90 Lavoro indipendente è realtà eterogenea: dagli imprenditori ai commercianti, dagli artigiani ai consulenti, dai professionisti ai coadiuvanti I lavoratori indipendenti sono definiti dal fatto di poter organizzare la propria attività in modo autonomo, senza vincoli imposti dall’organizzazione, e di sopportare il rischio d’impresa o comunque stipulare contratti che hanno per oggetto non il proprio lavoro in sé ma il suo risultato Una distinzione importante è quella tra lavoratori indipendenti che hanno alle dipendenze dei salariati, e non (lavoratori in proprio); nei paesi dove il lavoro indipendente è più diffuso la percentuale dei lavoratori in proprio è maggiore: l’Italia detiene il record. E sono questo tipo di lavoratori indipendenti quelli che sono più ricresciuti a partire dagli anni 70 Tutti i lavoratori indipendenti hanno tendenzialmente orari di lavoro più lunghi dei dipendenti; si dividono invece per la distribuzione dei redditi, che è più polarizzata di quella dei dipendenti: tutti lavorano molto, ma alcuni guadagnano anche poco Sono più direttamente esposti alle conseguenze dei cicli economici, ma anche qui polarizzazione tra chi può limitarsi a ridurre i guadagni e chi è marginale, o comunque a rischio perché mono-committente In tutti i paesi sono perlopiù di uomini, in età adulta o avanzata, capifamiglia, con esperienza lavorative in piccole imprese: la quota degli indipendenti cresce con l’età (Italia: 24% dell’occupazione per i ventenni, 63% per i sessantenni): ritardo nell’ingresso dovuto alla necessità di aver cumulato esperienze e relazioni, ritardo nell’uscita dovuto all’interesse per un lavoro gratificante o al bisogno La diffusione del lavoro indipendente in Italia mostra un taglio ancora tradizionale: riguarda oltre il 50% degli occupati nell’agricoltura e (differenza vs altri paesi) nel commercio oltre il 40% nei servizi alle imprese e (differenza vs altri paesi) nel turismo oltre il 30% (differenza vs altri paesi) nell’edilizia e nei servizi alle persone non oltre il 17% nell’industria manifatturiera (comunque differenza vs altri paesi), nei trasporti e nelle comunicazioni Negli anni 90 vi sono stati profondi mutamenti: diminuzione dei coltivatori diretti, piccoli commercianti e artigiani, aumento dei professionisti nei servizi alle imprese e nel credito, degli addetti ai servizi sociali e alla persone e del turismo ulteriore aumento degli “pseudoartigiani” nell’edilizia I cambiamenti hanno interessato i giovani e il nord; questo fa sì che oggi vi siano forti differenze per età per settore (artigiani e commercianti sono più anziani, mentre tra i professionisti pesano i trentenni) e altrettanto forti differenze territoriali (nuove attività indipendenti ad alta qualificazione al nord, auto-impiego povero nel commercio e nell’artigianato al sud) Le spiegazioni date alla diffusione del lavoro indipendente tendono a vederlo come alternativa forzata al lavoro dipendente che non si trova: sarebbe quindi tanto più diffuso quanto maggiore è la difficoltà all’ingresso nel primo lavoro e quanto minore è il sostegno pubblico alla disoccupazione; l’Italia rappresenterebbe il caso emblematico Tuttavia questa spiegazione contrasta con il fatto che, in concreto, in Italia la maggior parte di coloro che avviano lavoro indipendente non sono né giovani né disoccupati, ma o provengono al contrario da un lavoro dipendente o ereditano un’attività indipendente Anche se non mancano situazioni marginali e forzose, soprattutto per i giovani, è più convincente per l’Italia la spiegazione del lavoro indipendente come canale di mobilità sociale, soprattutto per i meno istruiti (vista la scarsa possibilità di carriera che invece contraddistingue il lavoro dipendente), dove alle attività tradizionali si sono recentemente aggiunte le nuove opportunità nei servizi L’AREA GRIGIA TRA INDIPENDENZA E SUBORDINAZIONE, ovvero le nuove forme di lavoro “indipendente” solo perché meno protetto franchising: controllo sulla gestione analogo a quello su filiali proprie, senza però sopportarne i rischi (Italia: 0,2% degli occupati, Francia e Olanda 1,5%) cooperative in sub-appalto: fenomeno italiano (5% del lavoro indipendente), di fatto il sostituto dell’interinale per lavori dequalificati (pulizie, manutenzione) collaborazioni coordinate e continuative (obsoleto!), che si aggiungono ai collaboratori occasionali (partita IVA o trattenuta): stimabili in , rappresentano il 12/13% degli indipendenti in proprio e il 30% dei professionisti e tecnici; concentrati nelle aree a maggior sviluppo (il 25% solo in Lombardia) e nei servizi; prevalenza di istruiti (17% laureati, 33% diplomati) e di occupazioni a buona o alta qualificazione (informatici, redattori, intervistatori, venditori, animatori, guide turistiche…); perlopiù maschi e giovani, caratterizzati da grande eterogeneità dei guadagni (comunque per l’azienda rappresentano un costo minore del lavoro dipendente); polarizzazione tra chi subisce la collaborazione (tappa della gavetta per il lavoro dipendente) e chi la vive come un utile passaggio verso un’attività professionale Risicata maggioranza (55%) di giovani tutt’ora inizia a lavorare come dipendente a tempo determinato, ma il 30% inizia con contratti a termine e l’ultimo 15% come indipendente; auspicabile un approdo sociale di sicurezza di mercato che si accompagna a posizioni instabili (interinali, collaborazioni) liberamente scelte; nell’attesa i giovani continuano a vivere in famiglia e a rimandare l’entrata nell’adultità, sia pure socialmente “consolati” dalla retorica dei media sulla fine del posto fisso…

16 Lez. 17 Lavorare senza regole
Le “altre economie” Economia informale (familiare o comunitaria) Economia irregolare o in nero Economia criminale Oggetto dell’attività Lecito Illecito Retribuzione del lavoro No, le attività sono inserite in relazioni di reciprocità Violazione delle norme che tutelano il lavoro dipendente e disciplinano quello in proprio No lavoratori dipendenti non registrati e/o indipendenti senza autorizzazioni imprese fantasma (non solo il lavoratore, ma anche l’azienda è sconosciuta alla pubblica amministrazione Economia sommersa: economia monetaria non criminale che sfugge alle rilevazioni statistiche (sommerso e irregolare possono non coincidere) Stime UE quota attività irregolari nell’economia del paese (1998) (oltre al lavoro non registrato comprendono anche il reddito non tassato: fuori busta, sottofatturazioni, doppio lavoro) Grecia 29-35% Italia 20-26% Spagna 10-23% UK, Francia, Germania 4-14% Paesi scandinavi, Austria 2-9% La diffusione del lavoro nero, pur venendo giustificata come inevitabile a fronte di una pressione fiscale troppo alta, vista in ottica internazionale non appare correlata ad essa (economia irregolare poco diffusa in paesi ad elevata pressione fiscale), quanto: alla struttura dell’occupazione del paese (vi sono settori che più di altri si prestano ad attività irregolari, es l’agricoltura) al grado di coesione delle società, che se basso determina accettazione e se alto sanzione sociale dell’irregolarità (50% degli italiani esprime comprensione per l’evasione fiscale) da controlli (in Italia rapporto ispettori/occupati è un settimo della media europea) e sanzioni (in Italia multe, in Francia carcere) In Italia come in altri paesi sono fattori di diffusione del lavoro nero le piccole dimensioni dell’impresa, la bassa intensità di capitali e impianti, l’immaterialità della prestazione e la prossimità al consumatore finale A questi fattori tradizionali si aggiungono come elementi favorevoli tendenze invece molto recenti: la crescita della domanda di servizi per le famiglie, l’esternalizzazione e diffusione del lavoro indipendente, la diffusione delle tecnologie informatiche In Italia l’economia sommersa “vantava” una lunga tradizione agricola, ma non è affatto scomparsa con la modernizzazione: da retaggio dell’arretratezza è diventata un tratto strutturale dell’economia italiana, con solita, pesantissima accentuazione al sud Stima che i lavoratori irregolari siano circa 3 milioni, pari al 14% degli occupati L’evoluzione della composizione del lavoro nero rispecchia quella del lavoro regolare: forte crescita nei servizi (attualmente oltre il 60% del totale), calo nell’agricoltura (attualmente il 20%), stabilità nell’industria (10-14%) e nelle costruzioni (6-15%) Le differenze territoriali Centro Nord Sud Agricoltura 40% 83% Industria 9% 37% Servizi vendibili 7% 19% Totale (senza PA) 36% Le tipologie di lavoro nero variano a seconda del grado di imposizione da parte dell’impresa /consenso del lavoratore, dello status del datore di lavoro (impresa o privato) e dello status del lavoratore (presenza o assenza di copertura previdenziale) Spesso c’è convenienza reciproca (es doppio lavoro o lavoro dei pensionati), ma sempre sono presenti saldi legami di complicità, poiché le relazioni informali sono essenziali affinché si incontrino domanda e offerta; le relazioni di complicità si fondano anche su norme implicite che regolano la ripartizione dei vantaggi monetari: le denunce avvengono quando gli arrangiamenti non sono rispettati; le relazioni personali impediscono sia che il lavoratore faccia denuncia, sia che il datore di lavoro sfrutti troppo (le regole saltano quando non vi è relazione personale -> sfruttamento immigrati) 60% delle posizioni irregolari è occupato da doppiolavoristi, ovvero quasi un terzo dei lavoratori italiani ha una seconda attività, per circa la metà in agricoltura (in agricoltura su 100 occupati in via principale ve ne sono 270 in via secondaria e mentre calano i primi, i secondi rimangono stabili) il secondo lavoro extra-agricolo si espande negli anni 80, ed è lavoro soprattutto terziario; la domanda proviene perlopiù dalle famiglie (prevalgono infatti i secondi lavori indipendenti); per 1/3 il secondo lavoro è di natura differente dal primo, per 1/3 è simile, per 1/3 si rifà a precedenti attività precarie I doppiolavoristi in Italia coincidono con il gruppo di maggioranza degli occupati: maschi adulti e capifamiglia. Il secondo lavoro è favorito da: scarsi vincoli (controlli) nel primo (es: dip. pubblici) adeguate risorse professionali e relazionali stimolo derivante da stato di deprivazione: ritenere di guadagnare troppo poco rispetto al gruppo di riferimento (di nuovo es: dip. pubblici) pressioni esercitate da esigenze di reddito familiare

17 Lez. 18 Gli immigrati in una società terziaria e segmentata I
Quadro generale I “quattro stadi” dell’immigrazione 1 Immigrati quasi tutti lavoratori maschi giovani, spesso “élite” nel paese di provenienza per livello di istruzione e conoscenze e capacità di mettersi in gioco, ritorno a breve scadenza 2 Cresce l’età, diminuisce l’istruzione, si prolunga la permanenza e si riduce il turnover 3 Crescono i ricongiungimenti familiari, aumentano gli insediamenti stabili, cresce la domanda di servizi 4 Notevole dimensione di immigrati stabili, i figli spesso sono cittadini del paese ospitante, domanda di identità culturale -> nascono le minoranze etniche LA VECCHIA IMMIGRAZIONE IN EUROPA anni 60 e 70, industrializzazione dei paesi dell’Europa del centro nord attira milioni di lavoratori dalle campagne di quella meridionale e dal nord-africa (Italia unico paese industriale senza lavoratori stranieri) immigrazione “a tempo e scopo definiti” da metà anni 70 la crisi economica dovuta allo shock petrolifero, l’emergere di conflittualità degli immigrati e l’uscita dal modello industriale ad alta intensità di lavoro dequalificato concorrono a far sì che i paesi dell’Europa del centro nord chiudano le frontiere all’immigrazione la chiusura accelera il processo di maturazione del movimento migratorio, che in questi paesi si stabilizza al quarto stadio (rappresentano dal 4 all’8% della popolazione, con inserimento nel mercato del lavoro che rimane tuttavia a livelli bassi) LA NUOVA IMMIGRAZIONE I flussi migratori riprendono da metà degli anni ’80, ma questa volta diretti verso l’Europa meridionale, impreparata a diventare zona di immigrazione In Italia stima che immigrati siano oggi 1,5 milioni, pari al 2,7% della popolazione, L’immigrazione è in larga parte non autorizzata (inizialmente assenza di controlli, poi comunque facilità di ingressi); attualmente 1 milione circa regolarizzati; ricongiungimenti significativi da metà degli anni 90 Alta frammentazione dei paesi d’origine, parecchi immigrati non avevano legami precedenti con l’Italia; d’altra parte l’immigrazione richiede la costituzione di “catene migratorie”: rapido sviluppo delle catene migratorie spiegato sia con la rivoluzione dei trasporti e telecomunicazioni, sia con l’elevato grado di istruzione di molti emigranti la nuova immigrazioni si contraddistingue per essere anche spesso femminile: non più come in passato le donne solo come seconda ondata per i ricongiungimenti, ma donne, perlopiù giovani e nubili ma anche sposate con figli, e spesso istruite, che emigrano come”capofamiglia” Nelle motivazioni all’emigrazione contano più l’attrazione per condizioni migliori che non la fuga da condizioni disperate: a livello macro i paesi che generano maggiore emigrazione non sono quelli con minire reddito pro-capite, a livello micro emigra chi ha risorse materiali e culturali (le “élite” della prima fase) Per emigrare occorre avere risorse culturali (aspettative che si ritiene possano essere soddisfatte in un paese sviluppato, capacità di rompere con la cultura d’origine), risorse materiali (soprattutto in caso di immigrazioni non autorizzate), e risorse caratteriali (capacità di reggere i rischi) -> un “sapere migratorio” L’immigrazione verso l’Italia e gli altri paesi dell’Europa meridionale è favorita, oltre che dalla configurazione geografica (coste) che rende materialmente più facile l’immigrazione non autorizzata, anche dall’effetto di attrazione dell’economia sommersa: le catene migratorie trasmettono l’informazione di un paese dove è facile trovare lavoro anche senza permesso di soggiorno, perché si può lavorare in nero -> l’immigrazione non autorizzata non si frena con i controlli alle frontiere, ma con quelli sul mercato del lavoro interno Attualmente in Italia si è entrati nella fase di crescente inserimento degli immigrati nell’occupazione regolare; si stima che a fine anni 90 essi rappresentino oltre il 4% dell’occupazione dipendente; la qualificazione professionale è in larghissima maggioranza (77%) quella di operai generici Tre modelli territoriali di inserimento: modello industriale (nord-est e centro): piccole imprese manifatturiere (soprattutto metalmeccaniche) e edili + agricoltura stagionale e allevamento modello metropolitano (Milano e Roma): lavoro domestico nelle famiglie e servizi per la qualità della vita urbana (ristorazione, commercio) modello meridionale: da un lato lavoro domestico nelle città, dall’altro agricoltura perlopiù stagionale nelle aree rurali

18 Lez. 19 Gli immigrati in una società terziaria e segmentata II Settori di attività, evoluzione e prospettive future LAVORO DOMESTICO (comprende l’assistenza agli anziani in fase di espansione) aree metropolitane occupazione prevalentemente femminile anche se non solo immigrate provenienti soprattutto da Filippine, Sud America e Est Europa, spesso con catene organizzate gestite da associazioni cattoliche stima che oltre la metà delle immigrate che lavora come colf lo faccia in nero le regolari rappresentano oggi oltre la metà delle colf registrate, proporzione destinata a crescere poiché le italiane sono anziane molto spesso (più delle italiane) a tempo pieno vivendo presso le famiglie: convenienza in fase 1, consente di risparmiare e quindi aumentare le rimesse a casa con il tempo (arrivo di marito e figli) tendenza a passare al lavoro ad ore o altre attività, comunque sempre manuali e tendenzialmente sotto-qualificate rispetto al titolo di studio, che spesso è un diploma INDUSTRIA MANIFATTURIERA nord-est e centro è il settore dove più spesso gli immigrati sono in regola per lo più imprese piccole e medie, pochi nelle microimprese (dipendenti sono amici o familiari) e nelle grandi (dove per prestigio sociale i posti appetibili anche per italiani) concentrati nelle mansioni fisicamente più gravose e che richiedono disponibilità a turni e straordinari: anche qui questo può coincidere con l’interesse dell’immigrato di prima fase, che non ha con sé la famiglia e in compenso vuole massimizzare velocemente le rimesse sono però in aumento le richieste per mansioni che oltre ad essere disagiate (il che le rende poco appetibili per gli italiani) richiedono anche abilità e competenze professionali: nelle piccole imprese del veneto, romagna e marche si sta iniziando a creare la figura dell’immigrato operaio di riferimento nei posti cruciali, figura nel tempo destinata (se quanto avvenuto con gli italiani si ripeterà) a mettersi in proprio alle imprese gli immigrati interessano non per la flessibilità ma la contrario per la stabilità, ovvero per la capacità di reggere a lungo condizioni di lavoro gravose EDILIZIA tutte le regioni, anche quelle ad alta disoccupazione percentuale degli irregolari alta, ancora maggiore che tra gli italiani diffuso il “mercato delle braccia” (caporalato), spesso con mediatori immigrati AGRICOLTURA Sud (agricoltura stagionale), ma anche Nord (agricoltura stagionale e allevamento) immigrati richiesti per lavori stagionali (agricoltura di raccolta), oppure stabili ma gravosi (lavoro nelle serre e nelle aziende zootecniche) nel sud speso irregolari, reclutati a giornata da caporali anch’essi immigrati, e pagati meno degli italiani (ricatto) al nord per lo più regolari, molti immigrati tra gli addetti agli alpeggi e mungitori (lavori per i quali gli italiani non sono più disponibili) tra gli stagionali alcuni sono pendolari con il paese d’origine, altri alternano con lavori in edilizia o d vendita ambulante VENDITA AMBULANTE i più visibili, ma ormai in drastico calo (non oltre il 10%) e presenti in modo mirato: località turistiche, grandi città per molti è stata una scelta transitoria iniziale, oppure rappresenta il complemento alla stagionalità in agricoltura per alcuni è diventata scelta professionale -> licenze regolari LAVORO INDIPENDENTE A lungo frenato dalla frammentazione dei gruppi etnici, dalla quasi impossibilità di ottenere una licenza e dalla concorrenza data dalla forte diffusione del lavoro in proprio tra gli italiani, è attualmente in crescita, parallelamente alla crescita degli insediamenti etnici nelle grandi città terziario (ristorazione, piccolo commercio, pulizie) e artigianato (panifici, laboratori di pelli, artigianato edile) no segregazione etnica, né per quanto riguarda risorse né per quanto riguarda mercati di sbocco, tranne che per cinesi (che secondo R. riproducono anche vecchi modelli italiani) SERVIZI URBANI (I BAD JOBS) lavapiatti, benzinai, facchini, addetti alle pulizie.. spesso assunzioni a tempo parziale e ore rimanenti pagate in nero anche quando regolari, rapporti precari e salari ai minimi (piccole unità lavorative in cerca di flessibilità) Rapporto tra regolari e irregolari: dopo il succedersi delle sanatorie, le tendenze di lungo periodo vedono crescere molto l’occupazione regolare, ridursi moltissimo quella irregolare totale (immigrati senza permesso di soggiorno), e crescere sia pure di poco l’occupazione irregolare degli immigrati autorizzati; ovvero il lavoro nero degli immigrati diventa sempre più simile a quello degli italiani, pur con alcuni fattori che lo favoriscono ancor di più: fattori di debolezza: bisogno di guadagnare, non poter aspettare non avendo una rete familiare di sostegno fattori opportunismo: prospettiva di ritorno al paese d’origine a breve scadenza fattori strutturali: il lavoro immigrato è più presente nei settori (agricoltura, edilizia, lavoro domestico) ove prolifera il lavoro nero Nel complesso gli immigrati rafforzano i seguenti aspetti del mercato del lavoro italiano: contribuiscono a riprodurre l’economia sommersa contribuiscono a frenare la mobilità interna, in particolare sud -> nord consentono alle famiglie di accedere a servizi a basso costo in assenza di stato sociale consolidano la struttura occupazionale tradizionale svolgendo attività non più appetibili per gli italiani Le previsioni di domanda di lavoro immigrato da parte dell’industria e servizi sono del 25% a livello nazionale, con punte accentuatissime nel nord-est, nei servizi di pulizia e costruzioni (90% nelle piccole imprese di costruzioni del veneto!) e per il personale non qualificato Le situazioni di concorrenza con i lavoratori italiani sono limitate alle più disagiate regioni del sud, nel complesso le più frequenti sono le situazioni di complementarietà, soprattutto nei servizi in espansione (es turismo e divertimento) dove si combinano mansioni di alto e basso livello, e un’analisi comparativa OCSE arriva a conclusioni simili anche a livello europeo Con il consolidarsi della “fase 4” il prossimo passaggio sociale sarà la gestione dei problemi non più di immigrazione ma di convivenza e integrazione di minoranze etniche

19 Lez. 20 Politiche del lavoro e servizi per l’impiego
Sono definiti “politiche del lavoro” gli interventi che oltre ad incidere sul mercato del lavoro comportano una spesa pubblica distinzione tra politiche passive: sostegno al reddito in caso di perdita del lavoro (indennità e sussidi) e politiche attive: azioni dirette a rendere più efficiente il funzionamento del mercato del lavoro In Italia la spesa per le politiche del lavoro è pari all’1,8% del PIL, vs media UE del 2,8% (più bassa solo in Grecia, Portogallo e UK dopo interventi liberisti degli anni 80); record massimo va all’Olanda, che spende quasi il 10% L’Italia tradizionalmente spende molto poco in politiche passive mentre il divario rispetto alla media UE è più ridotto per la spesa in politiche attive (che tuttavia per il ¾ consistono in sgravi fiscali alle imprese per assumere giovani e disoccupati, e non in spesa per interventi mirati e innovativi) tuttavia nessun paese ha tutt’ora realizzato un reale spostamento dai sussidi alle politiche attive, che sono più facili a dirsi che a realizzarsi Le politiche attive: formazione per adeguare le caratteristiche professionali dei lavoratori alle esigenze delle aziende collocamento mirato per favorire l’incontro tra domanda e offerta incentivazione delle assunzioni promozione delle pari opportunità, per favorire l’accesso al lavoro a chi è svantaggiato Gli interventi consistono: nel promuovere l’incontro tra domanda e offerta attraverso la diffusione gratuita di informazione al fine di diminuire i tempi di disoccupazione e di copertura dei posti vacanti (ovvero aumentare l’occupazione) e ridurre gli svantaggi dei soggetti con minori risorse (dal lato dei lavoratori ma anche da quello delle imprese, es le piccole) nel costituire un archivio dei lavoratori frutto di colloqui con consulenti esperti che sappiano ben delinearne le caratteristiche, e costituire con uguale attenzione e professionalità un parallelo archivio delle posizioni vacanti, per poi arrivare a matching mirati nel dare informazione e orientamento professionale per permettere ai lavoratori di fare scelte più consapevoli e far emergere attitudine personali adeguate alla situazione locale nel supportare il reinserimento dei disoccupati di lunga durata, dando loro motivazione e strumenti (curriculum, colloquio) nel promuovere la centralità dell’esperienza lavorativa anche attraverso i lavori socialmente utili come alternativa (o precondizione) ai sussidi nel promuovere l’occupazione femminile in chiave sia di formazione e riqualificazione, sia di sostegno alla carriera all’interno delle aziende nel promuovere l’inserimento dei portatori di handicap attraverso selezione attitudinale e collocamento mirato Le politiche attive mirano a tre obiettivi, spesso difficili da conciliare: ridurre la disoccupazione ridurre la spesa pubblica in sussidi di disoccupazione ridurre la povertà Il problema nasce dal fatto che se riescono a trovare un buon lavoro ai disoccupati sono costose e quindi vanificano il risparmio in sussidi di disoccupazione, mentre se sono poco costose inseriscono i disoccupati in lavori mal pagati, e quindi non rispondono al terzo obiettivo; Inoltre a monte vi è il prerequisito della crescita economica, che ne rappresenta la condizione necessaria (anche se non sufficiente) La UE dal 1998, quando si è data l’obiettivo del 70% di occupazione per il 2010, definisce annualmente delle linee guida per le politiche del lavoro dei singoli paesi; sono non vincolanti e poggiano su 4 “pilastri” promuovere l’occupabilità delle persone, favorendo la formazione anche permanente, l’invecchiamento attivo, la mobilità, l’integrazione di disabili e immigrati sviluppare imprenditorialità e occupazione attraverso l’emersione del sommerso, l’economia sociale (sussidiata), lo sviluppo di nuovi servizi a persone e imprese incoraggiare la capacità di adattamento di imprese e lavoratori favorendo al concertazione della modernizzazione dell’organizzazione del lavoro rafforzare le pari opportunità tra uomini e donne (mainstreaming) Per quanto riguarda l’Italia queste linee guida sono adeguate per il centro-nord (anche se non considerano l’attuale debolezza dei sussidi e la carenza di strutture che dovrebbero applicarle), mentre non lo sono per il sud dove le politiche del lavoro rappresentano un intervento secondario rispetto a quelli indispensabili di politica economica e industriale In Italia la riforma del 1997 dei servizi per l’impiego ha comportato un doppio salto mortale: si è passati dal totale accentramento che vigeva precedentemente al massimo decentramento a livello di regioni e province, il che ha comportato e comporta problemi di coordinamento (conferenza stato-regioni) si è passati da una gestione passiva e burocratica ad una che deve essere promozionale e professionale, con problemi di quantità ( addetti mentre dovrebbero essere minimo ) e qualità del personale i nuovi servizi hanno cominciato a funzionare solo dal 2001 anche nelle province più avanzate, con molti problemi che però sembrano avviati a soluzione tra i problemi tutt’ora da risolvere la perdurante mancanza del SIL (Sistema Informativo del Lavoro) centralizzato che fa sì che ogni regione gestisca in via autonoma il proprio archivio e il fatto che mentre la riforma prevedeva che, sul modello francese, anche i privati potessero fare collocamento, di fatto questi tendono a non farlo se non per le posizioni alte, perché poco remunerativo – situazione simile in altri paesi questo sottolinea due ruoli essenziali che secondo R. non possono che essere coperti dal pubblico: fornire informazioni a tutti e sostenere i soggetti deboli


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