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DECAMERON Fortuna Amori finiti male Ingegno Amori a lieto fine

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Presentazione sul tema: "DECAMERON Fortuna Amori finiti male Ingegno Amori a lieto fine"— Transcript della presentazione:

1 DECAMERON Fortuna Amori finiti male Ingegno Amori a lieto fine
II giornata Amori finiti male IV giornata Ingegno III giornata Amori a lieto fine V giornata Motti arguti VI giornata Beffe VIII giornata

2 Ingegno III GIORNATA Introduzione alla III giornata Riassunti novelle
Ingegno / beffa Il fine giustifica i mezzi BIBLIOGRAFIA

3 Introduzione “Incomincia la terza giornata, nella quale si ragione, sotto il reggimento di Neifele, di chi alcuna cosa molto da lui desiderata con industria acquistasse o la perduta ricoverasse.” Giovanni Boccaccio, Decameron” I temi fondanti della terza giornata sono l’ingegno, l’impegno e l’applicazione di un piano, espressi da Boccaccio con un latinismo, ovvero il termine “industria”, tradotto in volgare appunto con “zelo” o “impegno”. Ogni novella ha in genere un personaggio che utilizza il proprio intelletto o impegno per ottenere qualcosa di desiderato con qualsiasi mezzo possibile, primo fra tutti l’inganno. L’ingegno dunque si distingue tra le doti umane come quella che ci permette di vivere attivamente nel mondo e di raggiungere i nostri scopi tramite azioni ragionate e piani ben organizzati. Boccaccio infatti considera l’intelletto come qualità fondamentale dell’essere umano, indipendentemente dal fatto che esso sia volto al bene o al male; gli esempi di ingegno della terza giornata sono quindi una rassegna di progetti programmati e razionalmente calcolati, messi magistralmente in atto dai vari personaggi anche e soprattutto al di fuori della legalità delle regole. C’è poi un aspetto interessante degno di nota: gran parte dei protagonisti delle novelle di questa giornata sono membri del clero o comunque individui che abbiano fatto voto di castità, i quali tutti infrangono l’obbligo di verginità. Questo aspetto è tipico del sovvertimento dei valori adoperato nel Decameron: Boccaccio fa commettere azioni sconvenienti a frati e religiosi non per criticare la Chiesa, ma per mettere in risalto il loro ingegno (dote da Boccaccio assai stimata) e il loro essere uomini. L’ingegno dunque si distingue tra le altre doti dell’uomo come quella che ci permette di stare al mondo in modo attivo e di raggiungere i nostri scopi tramite piani spesso ben organizzati già in precedenza.

4 Piano ingegnoso o beffa?
Nella terza giornata si assiste alla messa in atto di piani minuziosamente calcolati che permettono, come si è già detto, al loro autore di raggiungere un determinato obiettivo apparentemente impossibile, molto spesso ricorrendo anche al raggiro d’altri personaggi, i quali potrebbero apparire come vittime delle macchinazioni attuate in una determinata novella. Quali differenze ci possono esserci dunque tra questi piani ingegnosi e le cosiddette beffe? Innanzitutto le beffe trovano origine in intuizioni improvvise, che implicano quindi anche una loro quasi istantanea risoluzione, mentre i piani sono frutto di calcoli razionali e riflessioni adoperati dai protagonisti e resi possibili dal loro abile intelletto. In seguito bisogna prendere in considerazione le possibili vittime: nelle beffe tutta l’azione ruota intorno alla figura della vittima designata, la quale subisce direttamente l’atto ed è quindi l’obiettivo stesso dello scherzo; nei piani orditi dall’intelletto invece la vittima eventuale non è assolutamente il bersaglio dell’azione, ma solo una figura colpita dal protagonista in quanto ostacolo da superare per il possesso del bene agognato (per esempio il marito se si tratta di una donna) e perciò, se gli accade ciò che accade, è puramente casuale che sia proprio lui a subire le trame in corso di svolgimento. Resta da definire chi mette in atto generalmente una beffa e chi un piano ingegnoso: per quanto riguarda la beffa, tra gli artefici vediamo generalmente poveri, giovani e mogli, tutti ansiosi di prendersi gioco di qualcuno in particolare e di danneggiarlo; nella terza giornata invece notiamo che un piano ingegnoso può essere architettato da chiunque abbia un intelletto idoneo e, come si nota molto facilmente, anche da preti ed ecclesiastici molto astuti e furbi. Boccaccio infine non intende nella terza giornata criticare esplicitamente le vittime di piani ingegnosi, quanto invece lodare l’ingegno stesso dei protagonisti delle novelle. Al contrario si comporta con atteggiamento di forte critica nei confronti delle vittime designate della beffa, alle quali attribuisce poca intelligenza, ingenuità e scarsa capacità di stare al mondo; sarà proprio questo elemento di presunzione che porterà spesso l’autore a voler dare alle fiamme l’intera opera del Decameron.

5 Membri del gruppo: -Cassini Stefano -Barzotti Alessandro -Morato Massimiliano -Passerini Matteo Fonti: -Decameron, Giovanni Boccaccio, Mursia - - - -

6 1^ NOVELLA Nuto lavorava in un convento di giovani suore, ma esasperato se ne va. Arrivato a Lamporecchio (il suo paese) racconta la sua vita a Masetto, il quale decide di andare al convento per avere qualcuna delle giovani monache. Masetto si reca al convento e finge di essere muto. Il castaldo lo assume appunto per questa sua menomazione ("anche se è giovane, bello e forte non potrà motteggiar le monache"). Un giorno Masetto finge di dormire e due monachelle gli si avvicinano raccontando certi loro pensieri che poi mettono in atto giacendo a turno con il giovane. Masetto diventa l'amante di tutte le monache senza che la badessa se ne accorga. Un giorno la badessa si trova sola con lui e non riesce a reprimere il suo desiderio, così diventa anch'essa sua amante. Masetto non riesce più a soddisfare tutte le monache così parla alla badessa. Le monache fingono di credere al miracolo e lo eleggono castaldo in modo da togliergli i lavori più pesanti e continuano a "divertirsi" con lui. 2^ NOVELLA Il cocchiere della regina Teodolinda si innamora di lei, ma cerca di nascondere la sua passione. Col passare del tempo nascondere il suo amore diventa sempre più difficile, così il cocchiere decide di cercare di possederla o di uccidersi. Una notte spia Re Agilulfo e vede come fa a farsi riconoscere dalla Regina che lo fa entrare. La notte seguente lo imita e, sfruttando la sua somiglianza col Re e l'oscurità, giace con Teodolinda. Quando Agilulfo va e "cercare" la Regina lei ne resta stupita e glielo dice. Il Re capisce l'inganno, ma tace per non turbarla. Agilulfo si reca nelle abitazioni della servitù e scopre il colpevole, ma non lo uccide, gli taglia i capelli per poterlo riconoscere il giorno seguente. Il cocchiere capisce l'intento del Re e taglia i capelli a tutti gli altri servitori, così Agilulfo, la mattina seguente, non lo riconosce e riesce a salvarsi, perché il Re per non rovinare né la sua reputazione né quella della Regina decide di tacere.

7 3^ NOVELLA Una donna si era innamorata di un giovane che -aveva notato- era in buoni rapporti con un frate. Il giorno dopo questa andò dal frate a confessarsi e disse che questo suo amico la importunava anche se lei era sposata; quando il frate rivide l'uomo, lo redarguì per il gesto ma egli si meravigliò perché non aveva mai fatto una cosa di simile e così andò sotto casa della donna a chiedere spiegazioni e quella si scusò e mostrò a lui tutto il suo interesse e provò a sedurlo; una volta tornato a casa, la donna riandò dal frate e le disse che quel suo amico le aveva fatto delle proposte indecenti. Questi chiamò il giovane e lo sgridò di nuovo, allorchè egli capì subito che la donna si serviva del frate per invitarlo; andò quella notte stessa da lei che lo aspettava nella sua camera e si sollazzarono insieme con l'impegno di ritrovarsi altre volte senza più ricorrere al frate. 4^ NOVELLA Un uomo chiamato Puccio di Rinieri era molto devoto al Signore e dal momento che non poteva avere figli volle farsi terziario dell’ordine francescano. Conobbe un monaco di nome Don Felice che iniziò a frequentare la casa di Puccio e si invaghì della moglie Isabetta. Allora disse a Puccio che poteva indicargli una penitenza che facevano anche il papa e i prelati per raggiungere il Paradiso più velocemente e cioè stare in preghiera tutta la notte in una stessa stanza della casa da dove si vedesse il cielo, sdraiato per terra e con le mani a guisa di crocifisso. Egli accettò e tutte le sere successive Don Felice lo invitò a eseguire la penitenza e nel frattempo in un’altra stanza egli poteva tranquillamente giacere con sua moglie per tutta la notte.

8 5^ NOVELLA Francesco Vergellesi era un cavaliere ricco ma molto avaro e aveva bisogno di un cavallo per partire alla volta di Milano, così andò da un giovane ricco che ne possedeva uno e che era follemente innamorato di sua moglie. Quest’ultimo acconsentì a donarglielo in cambio di una chiacchierata con la moglie, e il cavaliere stupito che non gli avesse chiesto soldi accettò senza battere ciglio. Il giovane manifestò alla donna tutto il suo amore per lei e le disse che comprendeva la sua situazione però se avesse voluto, in assenza del marito, avrebbe potuto stendere due asciugamani alla finestra e lui vedendoli sarebbe accorso subito. Così durante l’assenza del marito lei cadde in tentazione e facendogli il segno stabilito lo fece venire e si abbracciarono e baciarono tutta la notte. 6^ NOVELLA La novella narra delle perizie d’amore di Ricciardo Minutoli nei confronti di Catella, la moglie di Filippello Sighinolfo. Per conquistarla, il protagonista sfrutta la gelosia della donna facendole credere che il marito la tradisce proprio con la moglie di Ricciardo stesso.Catella,insospettita,crede al racconto di Ricciardo ed approva la sua proposta di andare a verificare di persona il tradimento del marito quella sera stessa.Il marito, naturalmente, non ne sa niente e viene sostituito da Ricciardo che,approfittando del buio della stanza,non è riconosciuto da Catella e passa così la serata nella stanza della pensione con la donna amata. Sul far del giorno, però, Ricciardo mostra la propria identità, e Catella è costretta ad accettare il suo amore.

9 7^ NOVELLA C’era a Firenze un giovane di nome Tedaldo che amava Monna Ermellina, moglie di Aldobrandino Palermini, la quale ricambiava questo amore però un giorno non ne volle più sapere di lui. Tedaldo non capendo il perché, se ne rattristò molto e fuggì ad Ancona al servizio di un signore, però sentendo cantare una canzone che lui una volta aveva dedicato alla sua amata, gli tornarono in mente i bei ricordi e tornò a Firenze. Nel frattempo si era sparsa la voce della sua morte e lui capì che si trattava di Faziuolo al quale somigliava molto, allora si travestì da pellegrino per non essere riconosciuto e introdottosi in casa di lei si fece credere religioso e la costrinse a confessare perché aveva costretto all’esilio Tedaldo. Quando questa gli disse che era colpa di un frate che le aveva detto di on tradire il marito, questi gli rispose con abile discorso che era molto più grave mandare in esilio una persona che tradire, e vedendola pentita si tolse il mantello e si manifestò a lei e dopo le spiegazioni dovute si riconciliarono e ritornarono amanti come una volta. 8^ NOVELLA Ferondo, un uomo modesto, era maritato con una bellissima donna di cui era geloso all’inverosimile. Un giorno la donna, esasperata dalle gelosie del marito,decide di confessarsi presso un abate e gli espone i difetti del marito, giungendo ad affermre che preferirebbe rimanere vedova che sopportarlo ancora; a questo punto, entra in gioco l’elemento della passione: l’abate si innamora della donna e finge di volerla liberare dalla ossessioni del marito;in cambio,però, pretende il suo amore. L’abate somministra così a Ferondo un sonnifero in grado di farlo addormentare per qualche giorno, quindi finge che sia morto. La donna, che era venuta a sapere che l’abate era ricco di gioielli, supera le titubanze iniziali e decide di passare la notte insieme a lui. Ferondo si sveglia e si stupisce nel vedere un monaco davanti a sè che lo prende a frustate. Apprenderà poi dal monaco stesso che si trova in Purgatorio. All’improvviso si perde la cognizione del tempo: infatti dopo soli tre giorni, la donna rimane incinta dell’abate, così l’abate decreta che è giunto il momento di far risorgere Ferondo. L’abate si reca da Ferondo e gli dice che può ritornare in vita. L’abate dice inoltre che la donna è incinta e che il figlio dovrà essere chiamato Benedetto. Il finale presenta l’abate come vincitore in quanto questi è venerato dai suoi concittadini quasi come un santo, e di tanto in tanto frequenta la casa della donna, non più tormentata dal marito.

10 9^ NOVELLA Giletta di Nerbona si innamora Beltramo di Rossiglione, figlio del conte di Rossiglione il quale, prima di morire, ha affidato il giovane alla custodia del re di Francia in persona. Quando anche il padre di Giletta muore, la ragazza decide di partire ed andare a guarire una fistola che tormentava il re con l’arte imparata dal padre medico al fine di poterne chiedere come ricompensa il matrimonio con Beltramo. La ragazza riesce dunque a guarire il re e questo le concede di sposare il giovane conte, il quale però accetta riluttante e parte per Firenze dove intraprende la carriera militare; durante l’assenza del marito Giletta rimette in sesto i possedimenti del marito e si rende gradita a tutti i sudditi, in seguito però decide di contattare il marito per farlo tornare inviandogli due cavalieri. I due cavalieri arrivano da Beltramo e gli domandano di tornare, ma questo risponde di voler tornare a condizione che sua moglie gli si presenti davanti con l’anello che lui non abbandona mai e con un figlio frutto del suo seme; quando la contessa sente le condizioni impossibili, inizialmente si abbatte e parte in pellegrinaggio arrivando nella zona di Firenze, dove scorge il marito e scopre da un’albergatrice che egli è innamorato di una ragazza di povera famiglia. Le speranze di Giletta si riaccendono e la contessa si mette d’accordo con la madre della ragazza al fine di ingannare il marito e riuscire a farsi mettere incinta da lui e a sottrargli l’anello spacciandosi per la sua amata; il piano riesce e dopo il concepimento di due gemelli Giletta torna a corte e mostra al marito di aver accontentato le sue pretese. Il conte riconosce l’abilità della moglie e se ne innamora conducendo con lei un matrimonio felice.

11 10^ NOVELLA La giovanissima Alibech, figlia di un ricco turco, sentendo parlare di Dio e del cristianesimo, decide di servire il Signore e di diventare eremita. Questa decide di andare nel deserto per farsi insegnare da un eremita come condurre la propria vita, ma viene allontanata due volte da religiosi che temevano la tentazione della carne; al terzo tentativo la ragazza viene accolta dal giovane Rustico, il quale le prepara un giaciglio e le permette di stare con lui. Il giovane eremita però dopo poco tempo non resiste alla tentazione e, con la scusa di volere insegnare ad Alibech come si possa rimandare il diavolo all’inferno, la fa spogliare e spaccia i loro organi genitali come rispettivamente il diavolo e l’entrata dell’inferno; inizialmente la ragazza trova fastidiosa questa “attività spirituale” ma con il tempo comincia a piacerle e continua a chiedere a Rustico di aiutarla a rispedire il diavolo da dove è venuto. Per la gioia dell’eremita, il quale è ormai stanco di assecondare le richieste della ragazza, la casa di Alibech a Capsa prende fuoco e muoiono tutti i suoi parenti lasciandola come unica erede, così Neerbale, giovane turco a cui è stata promessa in sposa, la va apprendere nel deserto e la riporta a casa. Alibech racconta cosa le è successo suscitando l’ilarità di tutti e le viene detto che potrà benissimo continuare a ricacciare il diavolo nell’inferno anche con il suo futuro marito Neerbale.

12 Il fine giustifica i mezzi
La seconda e la terza giornata sono strettamente collegate fra loro. Filomena, reginetta della seconda giornata, propone, infatti, il tema della Fortuna, cui si collega il tema dell’industria, ritenuta da Boccaccio non solo come ingegnosità ed abilità nel parlare, ma addirittura come virtù in senso etico. Il vero filo conduttore della terza giornata è infatti la Fortuna, cui s’intreccia, però, la furbizia umana, capace di superare gli ostacoli che il destino interpone agli uomini e di sfruttare le occasioni che questo offre. Una particolare occasione è rappresentata dalla devozione religiosa, spesso sinonimo di superstizione, con la quale i protagonisti riescono raggirare i contendenti, come il caso dell’abate della VII novella, che sfrutta l’invenzione medievale del Purgatorio per gabbare Ferondo, o nel caso di Masetto di Lamporecchio, la cui azione è favorita dal silenzio conventuale. L’originalità di Boccaccio si colloca nel giudizio proposto dall’autore sull’esito delle vicende. Boccaccio, infatti, non giudica in assoluto il carattere delle azioni svolte dai protagonisti: naturalmente prende le distanze da personaggi del calibro di Masetto di Lamporecchio, ma la sua valutazione dipende soprattutto dalla conclusione dell’azione. Le vicende dei personaggi di Boccaccio, quindi, sono sintetizzate dal motto “il fine giustifica mezzi”, in cui il fine è rappresentato da un piacere più o meno duraturo e di mezzi sono l’ingegnosità e l’industria.

13 I MOTTI ARGUTI “Noi abbiamo già molte volte udito che con be' motti o con risposte pronte o con avvedimenti presti molti hanno già saputo con debito morso rintuzzare gli altrui denti o i sopravegnenti pericoli cacciar via; e per ciò che la materia è bella e può essere utile, voglio che domane con l' aiuto di Dio infra questi termini si ragioni, cioè di chi, con alcun leggiadro motto tentato, si riscotesse, o con pronta risposta o avvedimento fuggí, perdita o pericolo o scorno”. INTRODUZIONE

14 INTRODUZIONE “ Bella cosa è in ogni parte saper ben parlare, ma io la reputo bellissima quivi saperlo fare dove la necessità lo richiede” Il Decameron (“dieci giorni”) è strutturato lungo l’arco di tempo di due settimane: dieci giovani fiorentini, fuggiti dalla città a causa dell’epidemia di peste del 1348, si rifugiano in una villa in campagna; per trascorrere il tempo, decidono di raccontarsi a vicenda dieci novelle al giorno per un totale di dieci giornate. Ogni volta, vengono eletti un re o una regina, cui spetta l’onore di stabilire il tema su cui si baseranno tutte le novelle. Nella VI giornata, la regina eletta è Elissa; decide, come tema principale, quello dei motti arguti: l’arguzia consiste nell’abilità retorica di scampare pericoli e situazioni avverse, dote che si rivela estremamente utile ai personaggi citati da Boccaccio: essi approfittano delle proprie trovate per volgere le situazioni in cui si trovano a proprio vantaggio e riuscire a salvarsi la reputazione o, in alcuni casi, la vita. A differenza dell’astuzia, che si basa principalmente sulla capacità di escogitare ed applicare soluzioni di vario genere per risolvere una controversia, l’arguzia evidenzia la prontezza riflessiva dell’uomo, che riesce ad avvalersi della propria genialità senza concedere troppo tempo alla riflessione. BIBLIOGRAFIA INDICE DELLE NOVELLE

15 Novella 4 Autrice: Neifele
Chichibio, cuoco veneziano alla corte del fiorentino Corrado Gianfigliazzi, riceve l'incarico di preparare la cena arrostendo una gru cacciata dal padrone il giorno stesso. Una volta terminata la preparazione della gru, giunge Brunetta allettata dal piacevole profumo che ne proviene e gli chiede di poterne assaggiare una coscia. Chichibio, innamorato della ragazza, cede alla sua richiesta. Portata in tavola la gru, il signore si accorge della mancanza della coscia. Il cuoco, non avendo il coraggio di ammettere la propria colpa, afferma che tutte le gru possiedono una sola zampa: Corrado gli propone allora di dimostrare la sua tesi. Il giorno successivo i due si recano al fiume e notano che le gru si reggevano su una zampa. Al grido “Ho, ho!” del signore le gru si svegliano, mostrando entrambe le zampe; per riscattarsi, Chichibio risponde: “[..] ma voi non gridaste 'ho, ho!' a quella d’ iersera'; ché se così gridato aveste ella avrebbe così l'altra coscia e l' altro piè fuor mandata, come hanno fatto queste.” La risposta piacque tanto al padrone che Chichibio riuscì a trasformare l'ira di quello in risa. Commento: In questa novella, è interessante notare come Chichibìo sfrutti la propria genialità per impietosire il signor Gianfigliazzi: l’atmosfera passa da tesa e concitata a ironica e rilassata; il padrone non può non riconoscere l’esilarante inventiva del giovane cuoco, così scoppia a ridere e lo perdona. INDICE DELLE NOVELLE

16 Novella 6 Autrice: Fiammetta
Dei giovani in una brigata a Montighi discutevano su chi fossero i più gentili e antichi uomini a Firenze. Udite varie tesi, il sollazzevole Michele Scalza affermò che fossero i Baronci. Decisero allora di organizzare una scommessa: avrebbe vinto una cena chi avesse dimostrato la propria teoria. Scelto come giudice Piero di Fiorentino, lo Scalza sosteneva che gli uomini più nobili fossero anche i più antichi poichè, non essendo ancora Dio esperto nella pittura, li creò in malo modo (infatti tra loro vi era chi aveva il naso lungo, chi i mascelloni da asino, chi un occhio più grosso dell' altro). Avendo suscitato il riso generale, venne acclamato come vincitore. Commento: In questa novella, l’arguzia risulta affiancata e sostenuta dall’astuzia, in quanto il giovane Michele Scalza riesce a convincere gli sfidanti di essere nel giusto, inventando una sorta di “genesi” della famiglia Baronci, cercando di rasentare il più possibile il verosimile: organizza un discorso e stupisce i convitati, i quali non possono astenersi dall’acclamare l’astuto Scalza e concedergli la vittoria. INDICE DELLE NOVELLE

17 Novella 7 Autore: Filostrato
A Prato, come in molte altre città italiane, vigeva una legge secondo la quale le donne colte in adulterio dal proprio marito dovessero essere condannate al rogo. Accadde una notte che madonna Filippa fu trovata da suo marito Rinaldo Pugliesi a letto con Lazzarino de'Guazzagliotri, giovane nobile e bello. Doveva così essere applicata la legge, e la donna non si tirò indietro. Arrivata davanti al podestà, quest'ultimo, anche se impietosito, le chiese di confessare ciò che era accaduto, così madonna Filippa mise alla prova le sue capacità retoriche. Disse infatti di aver sempre soddisfatto ogni richiesta di suo marito, e che sarebbe stato un terribile spreco gettare via il “rimanente” con cui poteva allietare altri uomini.Grazie alla sua straordinaria prontezza, la donna, oltre a salvare se stessa, riuscì a fare abrogare la legge, che rimase valida solamente per le donne che fornivano prestazioni previo pagamento. Commento: Questa novella presenta un esempio particolare di utilizzo del motto arguto: Madonna Filippa, dopo essere stata accusata, viene portata in tribunale per essere processata. Agli occhi del giudice e dell’intera giuria, afferma che l’amore inutilizzato nel rapporto coniugale può essere giustamente consumato con un altro uomo. La folla acclama la donna, che riesce addirittura a modificare la legge. Una teoria, benché assurda ed antietica, riesce a prevalere, poiché inattaccabile dal punto di vista logico. INDICE DELLE NOVELLE

18 Novella 10 Autore: Dioneo
Frate Cipolla, per aumentare i guadagni dell' elemosina, promette di mostrare al popolo una reliquia: la penna dell' angelo Gabriele. Due giovani decidono però di prendersi gioco del frate, sottraendogli la reliquia che, nel frattempo, era stata affidata al servo Guccio Imbratta. Quest'ultimo, abbandonato il suo incarico, si reca presso la cucina dell' albergo, dove lo attende la Nuta, una donnaccia sporca e volgare. I ragazzi riescono così a sostituire la reliquia con dei carboni. Frate Cipolla, al momento della cerimonia, sorpreso di non trovare la penna dell' angelo Gabriele, bensì dei carboni, riesce a salvarsi dicendo che essi provenivano dalla brace in cui era stato arso San Lorenzo. Commento: Quella di Frate Cipolla è l’unica novella dove la trama è notevolmente influenzata dai personaggi secondari, a causa dei quali il protagonista si trova di fronte all’ostacolo da aggirare: egli poi, sfrutta magistralmente l’ignoranza della folla, che rimane incredula e stupefatta delle sue affermazioni. Sorprendente è la prontezza del frate, che supera la sorpresa dovuta allo scambio della reliquia, ed escogita immediatamente una frase ad effetto. INDICE DELLE NOVELLE

19 INDICE DELLE NOVELLE Novella Prima Novella Sesta Novella Seconda
Novella Settima Novella Terza Novella Ottava Novella Quarta Novella Nona Novella Quinta Novella Decima

20 Autrice: Filomena Novella Prima
Un cavaliere dice a madonna Oretta di portarla con una novella a cavallo, e malcompostamente dicendola, è da lei pregato che a piè la ponga. Giovani donne, come né lucidi sereni sono le stelle ornamento del cielo e nella primavera i fiori de' verdi prati, e de' colli i rivestiti albuscelli, così de' laudevoli costumi e de' ragionamenti belli sono i leggiadri motti, li quali, per ciò che brievi sono, tanto stanno meglio alle donne che agli uomini, quanto più alle donne che agli uomini il molto parlar si disdice. E' il vero che, qual si sia la cagione, o la malvagità del nostro ingegno o inimicizia singulare che à nostri secoli sia portata dà cieli, oggi poche o non niuna donna rimasa ci è, la qual ne sappi né tempi opportuni dire alcuno, o, se detto l'è, intenderlo come si conviene: general vergogna di tutte noi. Ma per ciò che già sopra questa materia assai da Pampinea fu detto, più oltre non intendo di dirne. Ma per farvi avvedere quanto abbiano in sé di bellezza à tempi detti, un cortese impor di silenzio fatto da una gentil donna ad un cavaliere mi piace di raccontarvi. Sì come molte di voi o possono per veduta sapere o possono avere udito, egli non è ancora guari che nella nostra città fu una gentile e costumata donna e ben parlante, il cui valore non meritò che il suo nome si taccia. Fu adunque chiamata madonna Oretta, e fu moglie di messer Geri Spina; la quale per avventura essendo in contado, come noi siamo, e da un luogo ad un altro andando per via di diporto insieme con donne e con cavalieri, li quali a casa sua il dì avuti avea a desinare, ed essendo forse la via lunghetta di là onde si partivano a colà dove tutti a piè d'andare intendevano disse uno de' cavalieri della brigata:

21 - Madonna Oretta, quando voi vogliate, io vi porterò, gran parte della via che ad andare abbiamo, a cavallo, con una delle belle novelle del mondo. Al quale la donna rispose: - Messere, anzi ve ne priego io molto, e sarammi carissimo. Messer lo cavaliere, al quale forse non stava meglio la spada allato che 'l novellar nella lingua, udito questo, cominciò una sua novella, la quale nel vero da sé era bellissima; ma egli or tre e quattro e sei volte replicando una medesima parola, e ora indietro tornando, e talvolta dicendo: - Io non dissi bene; - e spesso né nomi errando, un per un altro ponendone, fieramente la guastava; senza che egli pessimamente, secondo le qualità delle persone e gli atti che accadevano, proffereva. Di che a madonna Oretta, udendolo, spesse volte veniva un sudore e uno sfinimento di cuore, come se inferma fosse stata per terminare; la qual cosa poi che più sofferir non potè, conoscendo che il cavaliere era entrato nel pecoreccio, né era per riuscirne, piacevolmente disse: - Messere, questo vostro cavallo ha troppo duro trotto; per che io vi priego che vi piaccia di pormi a piè. Il cavaliere, il qual per avventura era molto migliore intenditore che novellatore, inteso il motto, e quello in festa e in gabbo preso, mise mano in altre novelle, e quella che cominciata avea e mai seguita, senza finita lasciò stare. INDICE DELLE NOVELLE

22 Novella Seconda Autrice: Pampinea Cisti fornaio con una sola parola fa raveder messer Geri Spina d'una sua trascutata domanda. Molto fu da ciascuna delle donne e degli uomini il parlar di madonna Oretta lodato, il qual comandò la reina a Pampinea che seguitasse; per che ella così cominciò: Belle donne, io non so da me medesima vedere che più in questo si pecchi, o la natura apparecchiando a una nobile anima un vil corpo, o la fortuna apparecchiando a un corpo dotato d'anima nobile vil mestiero, sì come in Cisti nostro cittadino e in molti ancora abbiamo potuto vedere avvenire; il qual Cisti, d'altissimo animo fornito, la fortuna fece fornaio. E certo io maladicerei e la natura parimente e la fortuna, se io non conoscessi la natura esser discretissima e la fortuna aver mille occhi, come che gli sciocchi lei cieca figurino. Le quali io avviso che, sì come molto avvedute, fanno quello che i mortali spesse volte fanno, li quali, incerti de' futuri casi, per le loro oportunità le loro più care cose né più vili luoghi delle lor case, sì come meno sospetti sepelliscono, e quindi né maggiori bisogni le traggono, avendole il vil luogo più sicuramente servate che la bella camera non avrebbe. E così le due ministre del mondo spesso le lor cose più care nascondono sotto l'ombra dell'arti reputate più vili, acciò che di quelle alle necessità traendole più chiaro appaia il loro splendore. Il che quanto in poca cosa Cisti fornaio il dichiarasse, gli occhi dello 'ntelletto rimettendo a messer Geri Spina, il quale la novella di madonna Oretta contata, che sua moglie fu, m'ha tornata nella memoria, mi piace in una novelletta assai piccola dimostrarvi.

23 Dico adunque che, avendo Bonifazio papa, appo il quale messer Geri Spina fu in grandissimo stato, mandati in Firenze certi suoi nobili ambasciadori per certe sue gran bisogne, essendo essi in casa di messer Geri smontati, e egli con loro insieme i fatti del Papa trattando, avvenne che, che se ne fosse cagione, messer Geri con questi ambasciadori del Papa tutti a piè quasi ogni mattina davanti a Santa Maria Ughi passavano, dove Cisti fornaio il suo forno aveva e personalmente la sua arte esserceva. Al quale quantunque la fortuna arte assai umile data avesse, tanto in quella gli era stata benigna che egli n’era ricchissimo divenuto, e senza volerla mai per alcuna altra abbandonare splendidissimamente vivea, avendo tra l'altre sue buone cose sempre i migliori vini bianchi e vermigli che in Firenze si trovassero o nel contado. Il quale, veggendo ogni mattina davanti all'uscio suo passar messer Geri e gli ambasciadori del Papa, e essendo il caldo grande, s'avisò che gran cortesia sarebbe il dar lor bere del suo buon vin bianco; ma avendo riguardo alla sua condizione e a quella di messer Geri, non gli pareva onesta cosa il presummere d'invitarlo ma pensossi di tener modo il quale inducesse messer Geri medesimo a invitarsi. E avendo un farsetto bianchissimo indosso e un grembiule di bucato innanzi sempre, li quali più tosto mugnaio che fornaio il dimostravano, ogni mattina in su l'ora che egli avvisava che messer Geri con gli ambasciadori dover passare si faceva davanti all'uscio suo recare una secchia nuova e stagnata d'acqua fresca e un picciolo orcioletto bolognese nuovo del suo buon vin bianco e due bicchieri che parevano d'ariento, sì eran chiari: e a seder postosi, come essi passavano, e egli, poi che una volta o due spurgato s'era, cominciava a ber sì saporitamente questo suo vino, che egli n'avrebbe fatta venir voglia a' morti. La qual cosa avendo messer Geri una e due mattine veduta, disse la terza: - Chente è, Cisti? è buono? - Cisti, levato prestamente in piè, rispose: - Messer sì, ma quanto non vi potre'io dare a intendere, se voi non assaggiaste.- Messer Geri, al quale o la qualità o affanno più che l'usato avuto o forse il saporito bere, che a Cisti vedeva fare, sete avea generata, volto agli ambasciadori sorridendo disse:

24 - Signori, egli è buono che noi assaggiamo del vino di questo valente uomo: forse che è egli tale, che noi non ce ne penteremo; - e con loro insieme se n'andò verso Cisti. Il quale, fatta di presente una bella panca venire di fuori dal forno, gli pregò che sedessero; e alli lor famigliari, che già per lavare i bicchieri si facevano innanzi, disse: - Compagni, tiratevi indietro e lasciate questo servigio fare a me, ché io so non meno ben mescere che io sappia infornare; e non aspettaste voi d'assaggiarne gocciola! E così detto, esso stesso, lavati quatro bicchieri belli e nuovi e fatto venire un piccolo orcioletto del suo buon vino diligentemente diede bere a messer Geri e a' compagni, alli quali il vino parve il migliore che essi avessero gran tempo davanti bevuto; per che, commendatol molto, mentre gli ambasciador vi stettero, quasi ogni mattina con loro insieme n'andò a ber messer Geri. A'quali, essendo espediti e partir dovendosi, messer Geri fece un magnifico convito al quale invitò una parte de' più orrevoli cittadini, e fecevi invitare Cisti, il quale per niuna condizione andar vi volle. Impose adunque messer Geri a uno de' suoi famigliari che per un fiasco andasse del vin di Cisti e di quello un mezzo bicchier per uomo desse alle prime mense. Il famigliare, forse sdegnato perché niuna volta bere aveva potuto del vino, tolse un gran fiasco. Il quale come Cisti vide, disse: - Figliuolo, messer Geri non ti manda a me. Il che raffermando più volte il famigliare né potendo altra risposta avere, tornò a messer Geri e sì gliele disse; a cui messer Geri disse: - Tornavi e digli che sì fo: e se egli più così sponde, domandalo a cui io ti mando. Il famigliare tornato disse: - Cisti, per certo messer Geri mi manda pure a te.

25 Al quale Cisti rispose: - Per certo, figliuol, non fa.
- Adunque, - disse il famigliare - a cui mi manda? Rispose Cisti: - Ad Arno. Il che rapportando il famigliare a messer Geri, subito gli occhi gli s'apersero dello 'ntelletto e disse al famigliare: - Lasciami vedere che fiasco tu vi porti; - e vedutol disse: - Cisti dice vero; - e dettagli villania gli fece torre un fiasco convenevole. Il quale Cisti vedendo disse: - Ora so io bene che egli ti manda a me, - e lietamente glielo impiè. E poi quel medesimo dì fatto il botticello riempiere d'un simil vino e fattolo soavemente portare a casa di messer Geri, andò appresso, e trovatolo gli disse: - Messere, io non vorrei che voi credeste che il gran fiasco stamane m'avesse spaventato; ma, parendomi che vi fosse uscito di mente ciò che io a questi dì co' miei piccoli orcioletti v'ho dimostrato, ciò questo non sia vin da famiglia, vel volli staman raccordare. Ora, per ciò che io non intendo d'esservene più guardiano tutto ve l'ho fatto venire: fatene per innanzi come vi piace. Messer Geri ebbe il dono di Cisti carissimo e quelle grazie gli rendè che a ciò credette si convenissero, e sempre poi per da molto l'ebbero e per amico. INDICE DELLE NOVELLE

26 Novella Terza Autrice: Lauretta Monna Nonna de' Pulci con una presta risposta al meno che onesto motteggiare del vescovo di Firenze silenzio impone. Quando Pampinea la sua novella ebbe finita, poi che da tutte la risposta e la liberalità di Cisti molto fu commendata, piacque alla reina che Lauretta dicesse appresso, la quale lietamente così a dire cominciò. Piacevoli donne, prima Pampinea e ora Filomena assai del vero toccarono della nostra poca virtù e della bellezza de' motti; alla quale per ciò che tornar non bisogna, oltre a quello che de' motti è stato detto, vi voglio ricordare essere la natura de' motti cotale, che essi come la pecora morde deono così mordere l'uditore, e non come 'l cane; per ciò che, se come il cane mordesse il motto, non sarebbe motto ma villania. La qual cosa ottimamente fecero e le parole di madonna Oretta e la risposta di Cisti. E' il vero che, se per risposta si dice, e il risponditore morda come cane, essendo come da cane prima stato morso, non par da riprendere, come, se ciò avvenuto non fosse, sarebbe; e per ciò è da guardare e come e quando e con cui e similmente dove si motteggia. Alle quali cose poco guardando già un nostro prelato, non minor morso ricevette che 'l desse; il che in una piccola novella vi voglio mostrare. Essendo vescovo di Firenze messer Antonio d'Orso, valoroso e savio prelato, venne in Firenze un gentile uom catalano, chiamato messer Dego della Ratta, maliscalco per lo re Ruberto. Il quale, essendo del corpo bellissimo e vie più che grande vagheggiatore, avvenne che fra l'altre donne fiorentine una ne gli piacque, la quale era assai bella donna ed era nepote d'un fratello del detto vescovo.

27 - Messere, è forse non vincerebbe me, ma vorrei buona moneta.
E avendo sentito che il marito di lei, quantunque di buona famiglia fosse, era avarissimo e cattivo, con lui compose di dovergli dare cinquecento fiorin d'oro, ed egli una notte con la moglie il lasciasse giacere; per che, fatti dorare popolini d'ariento, che allora si spendevano, giaciuto con la moglie, come che contro al piacer di lei fosse, gliele diede. Il che poi sappiendosi per tutto, rimasero al cattivo uomo il danno e le beffe; e il vescovo, come savio, s'infinse di queste cose niente sentire. Per che, usando molto insieme il vescovo e 'l maliscalco, avvenne che il dì di San Giovanni, cavalcando l'uno allato all'altro, veggendo le donne per la via onde il palio si corre, il vescovo vide una giovane, la quale questa pestilenzia presente ci ha tolta donna, il cui nome fu monna Nonna de' Pulci, cugina di messere Alesso Rinucci, e cui voi tutte doveste conoscere; la quale, essendo allora una fresca e bella giovane e parlante e di gran cuore, di poco tempo avanti in Porta San Piero a marito venutane, la mostrò al maliscalco; e poi essendole presso, posta la mano sopra la spalla del maliscalco, disse: - Nonna, che ti par di costui? Crederrestil vincere? Alla Nonna parve che quelle parole alquanto mordessero la sua onestà, o la dovesser contaminar negli animi di coloro, che molti v'erano, che l'udirono. Per che, non intendendo a purgar questa contaminazione, ma a render colpo per colpo, prestamente rispose: - Messere, è forse non vincerebbe me, ma vorrei buona moneta. La qual parola udita il maliscalco e 'l vescovo, sentendosi parimente trafitti, l'uno siccome facitore della disonesta cosa nella nepote del fratel del vescovo, e l'altro sì come ricevitore nella nepote del proprio fratello, senza guardar l'un l'altro, vergognosi e taciti se n'andarono, senza più quel giorno dirle alcuna cosa. Così adunque, essendo la giovane stata morsa, non le si disdisse il mordere altrui motteggiando. INDICE DELLE NOVELLE

28 Novella Quarta Autrice: Neifile Chichibio, cuoco di Currado Gianfigliazzi, con una presta parola a sua salute l'ira di Currado volge in riso, e sé campa dalla mala ventura minacciatagli da Currado. Tacevasi già la Lauretta, e da tutti era stata sommamente commendata la Nonna, quando la reina a Neifile impose che seguitasse; la qual disse. Quantunque il pronto ingegno, amorose donne, spesso parole presti e utili e belle, secondo gli accidenti, à dicitori, la fortuna ancora, alcuna volta aiutatrice de' paurosi, sopra la lor lingua subitamente di quelle pone, che mai ad animo riposato per lo dicitor si sarebber sapute trovare; il che io per la mia novella intendo di dimostrarvi. Currado Gianfiglia sì come ciascuna di voi e udito e veduto puote avere, sempre della nostra città è stato nobile cittadino, liberale e magnifico, e vita cavalleresca tenendo, continuamente in cani e in uccelli s'è dilettato, le sue opere maggiori al presente lasciando stare. Il quale con un suo falcone avendo un dì presso a Peretola una gru ammazata, trovandola grassa e giovane, quella mandò ad un suo buon cuoco, il quale era chiamato Chichibio, ed era viniziano, e sì gli mandò dicendo che a cena l'arrostisse e governassela bene. Chichibio, il quale come riuovo bergolo era così pareva, acconcia la gru, la mise a fuoco e con sollicitudine a cuocerla cominciò. La quale essendo già presso che cotta grandissimo odor venendone, avvenne che una feminetta della contrada, la qual Brunetta era chiamata e di cui Chichibio era forte innamorato, entrò nella cucina; e sentendo l'odor della gru e veggendola, pregò caramente Chichibio che ne le desse una coscia.

29 Chichibio le rispose cantando e disse:- "Voi non l'avrì da mi, donna Brunetta, voi non l'avrì da mi". Di che donna Brunetta essendo un poco turbata, gli disse: - In fè di Dio, se tu non la mi dai, tu non avrai mai da me cosa che ti piaccia; - e in brieve le parole furon molte. Alla fine Chichibio, per non crucciar la sua donna, spiccata l'una delle cosce alla gru, gliele diede. Essendo poi davanti a Currado e ad alcun suo forestiere messa la gru senza coscia, e Currado maravigliandosene, fece chiamare Chichibio e domandollo che fosse divenuta l'altra coscia della gru. Al quale il vinizian bugiardo subitamente rispose: - Signor mio, le gru non hanno se non una coscia e una gamba. Currado allora turbato disse: - Come diavol non hanno che una coscia e una gamba? Non vid'io mai più gru che questa? Chichibio seguitò: - Egli è, messer, com'io vi dico; e quando vi piaccia, io il vi farò veder né vivi. Currado, per amor dei forestieri che seco aveva, non volle dietro alle parole andare, ma disse: - Poi che tu dì di farmelo vedere né vivi, cosa che io mai più non vidi né udii dir che fosse, e io il voglio veder domattina e sarò contento; ma io ti giuro in sul corpo di Cristo, che, se altramenti sarà, che io ti farò conciare in maniera che tu con tuo danno ti ricorderai, sempre che tu ci viverai, del nome mio-. Finite adunque per quella sera le parole, la mattina seguente come il giorno apparve, Currado, a cui non era per lo dormire l'ira cessata, tutto ancor gonfiato si levò e comandò che i cavalli gli fosser menati; e fatto montar Chichibio sopra un ronzino, verso una fiumana, alla riva della quale sempre soleva in sul far del dì vedersi delle gru, nel menò dicendo: Tosto vedremo chi avrà iersera mentito, o tu o io. Chichibio, veggendo che ancora durava l'ira di Currado e che far gli convenia pruova della sua bugia, non sappiendo come poterlasi fare, cavalcava appresso a Currado con la maggior paura del mondo, e volentieri, se potuto avesse, si sarebbe fuggito; ma non potendo, ora innanzi e ora addietro e da lato si riguardava, e ciò che vedeva credeva che gru fossero che stessero in due piedi. Ma già vicini al fiume pervenuti, gli venner prima che ad alcun vedute sopra la riva di quello ben dodici gru, le quali tutte in un piè dimoravano, si come quando dormono soglion fare. Per che egli prestamente mostratele a Currado, disse: - Assai bene potete, messer, vedere che iersera vi dissi il vero, che le gru non hanno se non una coscia e un piè, se voi riguardate a quelle

30 che colà stanno. Currado vedendole disse: - Aspettati, che io ti mosterrò che elle n'hanno due; - e fattosi alquanto più a quelle vicino gridò: - Ho ho; - per lo qual grido le gru, mandato l'altro piè giù, tutte dopo alquanti passi cominciarono a fuggire. Laonde Currado rivolto a Chichibio disse: - Che ti par, ghiottone? Parti ch'elle n'abbian due? Chichibio quasi sbigottito, non sappiendo egli stesso donde si venisse, rispose: Messer sì, ma voi non gridaste - ho ho - a quella di iersera; ché se così gridato aveste, ella avrebbe così l'altra coscia e l'altro piè fuor mandata, come hanno fatto queste. A Currado piacque tanto questa risposta, che tutta la sua ira si convertì in festa e riso, e disse: - Chichibio, tu hai ragione, ben lo dovea fare Così adunque con la sua pronta e sollazzevol risposta Chichibio cessò la mala ventura e paceficossi col suo signore. COMMENTO INDICE DELLE NOVELLE

31 Novella Quinta Autore: Panfilo Messer Forese da Rabatta e maestro Giotto dipintore, venendo di Mugello, l'uno la sparuta apparenza dell'altro motteggiando morde. Come Neifile tacque, avendo molto le donne preso di piacere della risposta di Chichibio, così Panfilo per voler della reina disse. Carissime donne, egli avviene spesso che, sì come la Fortuna sotto vili arti alcuna volta grandissimi tesori di virtù nasconde, come poco avanti per Pampinea fu mostrato, così ancora sotto turpissime forme d'uomini si truovano maravigliosi ingegni dalla Natura essere stati riposti. La qual cosa assai apparve in due nostri cittadini, de' quali io intendo brievemente di ragionarvi. Per ciò che l'uno, il quale messer Forese da Rabatta fu chiamato, essendo di persona piccolo e sformato, con viso piatto e ricagnato, che a qualunque de' Baronci più trasformato l'ebbe sarebbe stato sozzo, fu di tanto sentimento nelle leggi, che da molti valenti uomini uno armario di ragione civile fu reputato. E l'altro, il cui nome fu Giotto, ebbe uno ingegno di tanta eccellenzia, che niuna cosa dà la Natura, madre di tutte le cose e operatrice col continuo girar de' cieli, che egli con lo stile e con la penna o col pennello non dipignesse sì simile a quella, che non simile, anzi più tosto dessa paresse, in tanto che molte volte nelle cose da lui fatte si truova che il visivo senso degli uomini vi prese errore, quello credendo esser vero che era dipinto. E per ciò, avendo egli quella arte ritornata in luce, che molti secoli sotto gli error d'alcuni, che più a dilettar gli occhi degl'ignoranti che a compiacere allo 'ntelletto de' savi dipignendo intendeano, era stata sepulta, meritamente una delle luci della fiorentina gloria dir si puote;

32 e tanto più, quanto con maggiore umiltà, maestro degli altri in ciò vivendo, quella acquistò, sempre rifiutando d'esser chiamato maestro. Il quale titolo rifiutato da lui tanto più in lui risplendeva, quanto con maggior disidero da quegli che men sapevano di lui o dà suoi discepoli era cupidamente usurpato. Ma, quantunque la sua arte fosse grandissima, non era egli per ciò né di persona né d'aspetto in niuna cosa più bello che fosse messer Forese. Ma, alla novella venendo, dico che avevano in Mugello messer Forese e Giotto lor possessioni; ed essendo messer Forese le sue andate a vedere, in quegli tempi di state che le ferie si celebran per le corti, e per avventura in su un cattivo ronzino da vettura venendosene, trovò il già detto Giotto, il qual similmente avendo le sue vedute, se ne tornava a Firenze. Il quale, né in cavallo né in arnese essendo in cosa alcuna meglio di lui, sì come vecchi, a pian passo venendosene, insieme s'accompagnarono. Avvenne, come spesso di state veggiamo avvenire, che una subita piova gli soprapprese; la quale essi, come più tosto poterono, fuggirono in casa d'un lavoratore amico e conoscente di ciascuno di loro. Ma dopo alquanto, non faccendo l'acqua alcuna vista di dover ristare, e costoro volendo essere il dì a Firenze, presi dal lavoratore in prestanza due mantellacci vecchi di romagnuolo e due cappelli tutti rosi dalla vecchiezza, per ciò che migliori non v’erano, cominciano a camminare. Ora, essendo essi alquanto andati, e tutti molli veggendosi, e per gli schizzi che i ronzini fanno co' piedi in quantità zaccherosi (le quali cose non sogliono altrui accrescer punto d'orrevolezza), rischiarandosi alquanto il tempo, essi, che lungamente erano venuti taciti, cominciarono a ragionare. E messer Forese, cavalcando e ascoltando Giotto, il quale bellissimo favellatore era, cominciò a considerarlo e da lato e da capo e per tutto, e veggendo ogni cosa così disorrevole e così disparuto, senza avere a sé niuna considerazione, cominciò a ridere, e disse: - Giotto, a che ora venendo di qua allo 'ncontro di noi un forestiere che mai veduto non t'avesse, credi tu che egli credesse che tu fossi il miglior dipintor del mondo, come tu sé?

33 A cui Giotto prestamente rispose:
- Messere, credo, che egli il crederebbe allora che, guardando voi, egli crederebbe che voi sapeste l'abicì. Il che messer Forese udendo, il suo error riconobbe, e videsi di tal moneta pagato, quali erano state le derrate vendute. INDICE DELLE NOVELLE

34 Novella Sesta Autrice: Fiammetta
Pruova Michele Scalza a certi giovani come i Baronci sono i più gentili uomini del mondo o di maremma, e vince una cena. Ridevano ancora le donne della bella e presta risposta di Giotto, quando la reina impose il seguitare alla Fiammetta, la qual così 'ncominciò a parlare. Giovani donne, l'essere stati ricordati i Baronci da Panfilo, li quali per avventura voi non conoscete come fa egli, m'ha nella memoria tornata una novella, nella quale quanta sia la lor nobiltà si dimostra, senza dal nostro proposito deviare; e per ciò mi piace di raccontarla. Egli non è ancora guari di tempo passato che nella nostra città era un giovane chiamato Michele Scalza, il quale era il più piacevole e il più sollazzevole uom del mondo, e le più nuove novelle aveva per le mani; per la qual cosa i giovani fiorentini avevan molto caro, quando in brigata si trovavano, di poter aver lui. Ora avvenne un giorno che, essendo egli con alquanti a Montughi, si 'ncominciò tra loro una quistion così fatta: quali fossero li più gentili uomini di Firenze e i più antichi. De'quali alcuni dicevano gli Uberti, e altri i Lamberti, e chi uno e chi un altro, secondo che nell'animo gli capea. Li quali udendo lo Scalza, cominciò a ghignare, e disse: - Andate via, andate, goccioloni che voi siete, voi non sapete ciò che voi vi dite; i più gentili uomini e i più antichi, non che di Firenze, ma di tutto il mondo o di maremma, sono i Baronci; e a questo s'accordano tutti i fisofoli e ogn'uom che gli conosce, come fo io;

35 e acciò che voi non intendeste d'altri, io dico de' Baronci vostri vicini da Santa Maria Maggiore. Quando i giovani, che aspettavano che egli dovesse dire altro, udiron questo, tutti si fecero beffe di lui, e dissero: - Tu ci uccelli, quasi come se noi non cognoscessimo i Baronci come facci tu. Disse lo Scalza: - Alle guagnele non fo, anzi mi dico il vero, e se egli ce n'è niuno che voglia metter su una cena a doverla dare a chi vince con sei compagni quali più gli piaceranno, io la metterò volentieri; e ancora vi farò più, che io ne starò alla sentenzia di chiunque voi vorrete. Tra'quali disse uno, che si chiamava Neri Mannini: - Io sono acconcio a voler vincer questa cena; - e accordatisi insieme d'aver per giudice Piero di Fiorentino, in casa cui erano, e andatisene a lui, e tutti gli altri appresso, per vedere perdere lo Scalza e dargli noia, ogni cosa detta gli raccontarono. Piero, che discreto giovane era, udita primieramente la ragione di Neri, poi allo Scalza rivolto, disse: - E tu come potrai mostrare questo che tu affermi? Disse lo Scalza: - Che? Il mosterrò per sì fatta ragione, che non che tu, ma costui che il nega, dirà che io dica il vero. Voi sapete che, quanto gli uomini sono più antichi, più son gentili, e così si diceva pur testé tra costoro; e i Baronci son più antichi che niuno altro uomo, sì che son più gentili; e come essi sien più antichi mostrandovi, senza dubbio io avrò vinta la quistione. Voi dovete sapere che i Baronci furon fatti da Domenedio al tempo che egli avea cominciato d'apparare a dipignere; ma gli altri uomini furon fatti poscia che Domenedio seppe dipignere. E che io dica di questo il vero, ponete mente à Baronci e agli altri uomini: dove voi tutti gli altri vedrete co' visi ben composti e debitamente proporzionati, potrete vedere i Baronci qual col viso molto lungo e stretto, e quale averlo oltre ad ogni convenevolezza largo, e tal v'è col naso molto lungo, e tale l'ha corto, e alcuno col mento in fuori e in su rivolto, e con mascelloni che paiono d'asino; ed evvi tale che ha l'uno occhio più grosso che l'altro, e ancora chi l'un più giù che l'altro, sì come sogliono esser i visi che fanno da prima i fanciulli che apparano a disegnare.

36 Per che, come già dissi, assai bene appare che Domenedio gli fece quando apparava a dipignere; sì che essi sono più antichi che gli altri, e così più gentili. Della qual cosa, e Piero che era il giudice, e Neri che aveva messa la cena, e ciascun altro ricordandosi, e avendo il piacevole argomento dello Scalza udito, tutti cominciarono a ridere e affermare che lo Scalza aveva la ragione, e che egli aveva vinta la cena, e che per certo i Baronci erano i più gentili uomini e i più antichi che fossero, non che in Firenze, ma nel mondo o in maremma. E perciò meritamente Panfilo, volendo la turpitudine del viso di messer Forese mostrare, disse che stato sarebbe sozzo ad un de' Baronci. COMMENTO INDICE DELLE NOVELLE

37 Novella Settima Autore: Filostrato
Madonna Filippa dal marito con un suo amante trovata, chiamata in giudicio, con una pronta e piacevol risposta sé libera e fa lo statuto modificare. Già si tacea la Fiammetta, e ciascun rideva ancora del nuovo argomento dallo Scalza usato a nobilitare sopra ogn'altro i Baronci, quando la reina ingiunse a Filostrato che novellasse; ed egli a dir cominciò. Valorose donne, bella cosa è in ogni parte saper ben parlare, ma io la reputo bellissima quivi saperlo fare dove la necessità il richiede. Il che sì ben seppe fare una gentil donna, della quale intendo di ragionarvi, che non solamente festa e riso porse agli uditori, ma sé de' lacci di vituperosa morte disviluppò, come voi udirete. Nella terra di Prato fu già uno statuto, nel vero non men biasimevole che aspro, il quale, senza niuna distinzion fare, comandava che così fosse arsa quella donna che dal marito fosse con alcuno suo amante trovata in adulterio, come quella che per denari con qualunque altro uomo stata trovata fosse. E durante questo statuto avvenne che una gentil donna e bella e oltre ad ogn'altra innamorata, il cui nome fu madonna Filippa, fu trovata nella sua propria camera una notte da Rinaldo de' Pugliesi suo marito nelle braccia di Lazzarino de' Guazzagliotri, nobile giovane e bello di quella terra, il quale ella quanto sé medesima amava, ed era da lui amata. La qual cosa Rinaldo vedendo, turbato forte, appena del correr loro addosso e di uccidergli si ritenne; e se non fosse che di sé medesimo dubitava, seguitando l'impeto della sua ira, l'avrebbe fatto. Rattemperatosi adunque da questo, non si potè temperar da voler quello dello statuto pratese, che a lui non era licito di fare, cioè la morte della sua donna.

38 E per ciò avendo al fallo della donna provare assai convenevole testimonianza, come il dì fu venuto, senza altro consiglio prendere, accusata la donna, la fece richiedere. La donna, che di gran cuore era, sì come generalmente esser soglion quelle che innamorate son da dovero, ancora che sconsigliata da molti suoi amici e parenti ne fosse, del tutto dispose di comparire e di voler più tosto, la verità confessando, con forte animo morire, che, vilmente fuggendo, per contumacia in essilio vivere e negarsi degna di così fatto amante come colui era nelle cui braccia era stata la notte passata. E assai bene accompagnata di donne e d'uomini, da tutti confortata al negare, davanti al podestà venuta, domandò con fermo viso e con salda voce quello che egli a lei domandasse. Il podestà, riguardando costei e veggendola bellissima e di maniere laudevoli molto, e, secondo che le sue parole testimoniavano, di grande animo, cominciò di lei ad aver compassione, dubitando non ella confessasse cosa per la quale a lui convenisse, volendo il suo onor servare, farla morire. Ma pur, non potendo cessare di domandarla di quello che apposto l'era, le disse: - Madonna, come voi vedete, qui è Rinaldo vostro marito, e duolsi di voi, la quale egli dice che ha con altro uomo trovata in adulterio; e per ciò domanda che io, secondo che uno statuto che ci è vuole, faccendovi morire di ciò vi punisca; ma ciò far non posso, se voi nol confessate, e per ciò guardate bene quello che voi rispondete, e ditemi se vero è quello di che vostro marito v'accusa. La donna, senza sbigottire punto, con voce assai piacevole rispose: - Messere, egli è vero che Rinaldo è mio marito, e che egli questa notte passata mi trovò nelle braccia di Lazzarino, nelle quali io sono, per buono e per perfetto amore che io gli porto, molte volte stata; né questo negherei mai; ma come io son certa che voi sapete, le leggi deono esser comuni e fatte con consentimento di coloro a cui toccano. Le quali cose di questa non avvengono, ché essa solamente le donne tapinelle costrigne, le quali molto meglio che gli uomini potrebbero a molti sodisfare; e oltre a questo, non che alcuna donna, quando fatta fu, ci prestasse consentimento, ma niuna ce ne fu mai chiamata; per le quali cose meritamente malvagia si può chiamare.

39 E se voi volete, in pregiudicio del mio corpo e della vostra anima, esser di quella esecutore, a voi sta; ma, avanti che ad alcuna cosa giudicar procediate, vi prego che una piccola grazia mi facciate, cioè che voi il mio marito domandiate se io ogni volta e quante volte a lui piaceva, senza dir mai di no, io di me stessa gli concedeva intera copia o no. A che Rinaldo, senza aspettare che il podestà il domandasse, prestamente rispose che senza alcun dubbio la donna ad ogni sua richiesta gli aveva di sé ogni suo piacer conceduto Adunque, - seguì prestamente la donna - domando io voi, messer podestà, se egli ha sempre di me preso quello che gli è bisognato e piaciuto, io che doveva fare o debbo di quel che gli avanza? Debbolo io gittare ai cani? Non è egli molto meglio servirne un gentile uomo che più che sé m'ama, che lasciarlo perdere o guastare? Eran quivi a così fatta essaminazione, e di tanta e sì famosa donna, quasi tutti i pratesi concorsi, li quali, udendo così piacevol risposta, subitamente, dopo molte risa, quasi ad una voce tutti gridarono la donna aver ragione e dir bene; e prima che di quivi si partissono, a ciò confortandogli il podestà, modificarono il crudele statuto e lasciarono che egli s'intendesse solamente per quelle donne le quali per denari a' lor mariti facesser fallo. Per la qual cosa Rinaldo, rimaso di così matta impresa confuso, si partì dal giudicio; e la donna lieta e libera, quasi dal fuoco risuscitata, alla sua casa se ne tornò. COMMENTO INDICE DELLE NOVELLE

40 Novella Ottava Autrice: Emilia
Fresco conforta la nepote che non si specchi, se gli spiacevoli, come diceva, l'erano a veder noiosi. La novella da Filostrato raccontata prima con un poco di vergogna punse li cuori delle donne ascoltanti, e con onesto rossore né lor visi apparito ne dieder segno; e poi, l'una l'altra guardando, appena del ridere potendosi astenere, sogghignando quella ascoltarono. Ma poi che esso alla fine ne fu venuto, la reina, ad Emilia voltatasi, che ella seguitasse le 'mpose. La quale, non altrimenti che se da dormir si levasse, soffiando incominciò. Vaghe giovani, per ciò che un lungo pensiero molto di qui m'ha tenuta gran pezza lontana, per ubbidire alla nostra reina, forse con molto minor novella, che fatto non avrei se qui l'animo avessi avuto, mi passerò, lo sciocco error d'una giovane raccontandovi, con un piacevol motto corretto da un suo zio, se ella da tanto stata fosse che inteso l'avesse. Uno adunque, che si chiamò Fresco da Celatico, aveva una sua nepote chiamata per vezzi Cesca, la quale, ancora che bella persona avesse e viso (non però di quegli angelici che già molte volte vedemo), sé da tanto e sì nobile reputava, che per costume aveva preso di biasimare e uomini e donne e ciascuna cosa che ella vedeva, senza avere alcun riguardo a sé medesima, la quale era tanto più spiacevole, sazievole e stizzosa che alcuna altra, che a sua guisa niuna cosa si poteva fare; e tanto, oltre a tutto questo, era altiera, che se stata fosse de' reali di Francia sarebbe stato soperchio. E quando ella andava per via sì forte le veniva del cencio, che altro che torcere il muso non faceva, quasi puzzo le venisse di chiunque vedesse o scontrasse.

41 Al quale ella tutta cascante di vezzi rispose:
Ora, lasciando stare molti altri suoi modi spiacevoli e rincrescevoli, avvenne un giorno che, essendosi ella in casa tornata là dove Fresco era, e tutta piena di smancerie postaglisi presso a sedere, altro non faceva che soffiare; laonde Fresco domandando le disse: - Cesca, che vuol dir questo che, essendo oggi festa, tu te ne sé così tosto tornata in casa? Al quale ella tutta cascante di vezzi rispose: - Egli è il vero che io me ne sono venuta tosto, per ciò che io non credo che mai in questa terra fossero e uomini e femine tanto spiacevoli e rincrescevoli quanto sono oggi, e non ne passa per via uno che non mi spiaccia come la mala ventura; e io non credo che sia al mondo femina a cui più sia noioso il vedere gli spiacevoli che è a me, e per non vedergli così tosto me ne son venuta. Alla qual Fresco, a cui li modi fecciosi della nepote dispiacevan fieramente, disse: - Figliuola, se così ti dispiaccion gli spiacevoli, come tu dì, se tu vuoi viver lieta, non ti specchiare giammai. Ma ella, più che una canna vana e a cui di senno pareva pareggiar Salamone, non altramenti che un montone avrebbe fatto, intese il vero motto di Fresco; anzi disse che ella si voleva specchiar come l'altre. E così nella sua grossezza si rimase e ancor vi si sta. INDICE DELLE NOVELLE

42 Novella Nona Autrice:Elissa
Guido Cavalcanti dice con un motto onestamente villania a certi cavalier fiorentini li quali soprappresso l'aveano. Sentendo la reina che Emilia della sua novella s'era diliberata e che ad altri non restava a dir che a lei, se non a colui che per privilegio aveva il dir da sezzo, così a dir cominciò. Quantunque, leggiadre donne, oggi mi sieno da voi state tolte da due in su delle novelle delle quali io m'avea pensato di doverne una dire, nondimeno me n'è pure una rimasa da raccontare, nella conclusione della quale si contiene un sì fatto motto, che forse non ci se n'è alcuno di tanto sentimento contato. Dovete adunque sapere che né tempi passati furono nella nostra città assai belle e laudevoli usanze, delle quali oggi niuna ve n'è rimasa, mercé dell'avarizia che in quella con le ricchezze è cresciuta, la quale tutte l'ha discacciate. Tra le quali n'era una cotale, che in diversi luoghi per Firenze si ragunavano insieme i gentili uomini delle contrade e facevano lor brigate di certo numero, guardando di mettervi tali che comportar potessono acconciamente le spese, e oggi l'uno, doman l'altro, e così per ordine tutti mettevan tavola, ciascuno il suo dì, a tutta la brigata; e in quella spesse volte onoravano e gentili uomini forestieri, quando ve ne capitavano, e ancora de' cittadini; e similmente si vestivano insieme almeno una volta l'anno, e insieme i dì più notabili cavalcavano per la città, e talora armeggiavano, e massimamente per le feste principali o quando alcuna lieta novella di vittoria o d'altro fosse venuta nella città. Tra le quali brigate n'era una di messer Betto Brunelleschi, nella quale messer Betto è compagni s'eran molto ingegnati di tirare Guido di messer Cavalcante de' Cavalcanti, e non senza cagione;

43 per ciò che, oltre a quello che egli fu un de' migliori loici che avesse il mondo e ottimo filosofo naturale (delle quali cose poco la brigata curava, sì fu egli leggiadrissimo e costumato e parlante uomo molto, e ogni cosa che far volle e a gentile uom pertenente, seppe meglio che altro uom fare; e con questo era ricchissimo, e a chiedere a lingua sapeva onorare cui nell'animo gli capeva che il valesse. Ma a messer Betto non era mai potuto venir fatto d'averlo, e credeva egli co' suoi compagni che ciò avvenisse per ciò che Guido alcuna volta speculando molto astratto dagli uomini diveniva. E per ciò che egli alquanto tenea della oppinione degli epicuri, si diceva tra la gente volgare che queste sue speculazioni eran solo in cercare se trovar si potesse che Iddio non fosse. Ora avvenne un giorno che, essendo Guido partito d'Orto San Michele e venutosene per lo corso degli Adimari infino a San Giovanni, il quale spesse volte era suo cammino, essendo quelle arche grandi di marmo, che oggi sono in Santa Reparata, e molte altre dintorno a San Giovanni, ed egli essendo tra le colonne del porfido che vi sono e quelle arche e la porta di San Giovanni, che serrata era, messer Betto con sua brigata a caval venendo su per la piazza di Santa Reparata, veggendo Guido là tra quelle sepolture, dissero: - Andiamo a dargli briga; - e spronati i cavalli a guisa d'uno assalto sollazzevole gli furono, quasi prima che egli se ne avvedesse, sopra, e cominciarongli a dire: Guido tu rifiuti d'esser di nostra brigata; ma ecco, quando tu arai trovato che Iddio non sia, che avrai fatto?A' quali Guido, da lor veggendosi chiuso, prestamente disse: - Signori, voi mi potete dire a casa vostra ciò che vi piace; - e posta la mano sopra una di quelle arche, che grandi erano, sì come colui che leggerissimo era, prese un salto e fussi gittato dall'altra parte, e sviluppatosi da loro se n'andò.Costoro rimaser tutti guatando l'un l'altro, e cominciarono a dire che egli era uno smemorato e che quello che egli aveva risposto non veniva a dir nulla, con ciò fosse cosa che quivi dove erano non avevano essi a far più che tutti gli altri cittadini, né Guido meno che alcun di loro.

44 Alli quali messer Betto rivolto disse: - Gli smemorati siete voi, se voi non l'avete inteso. Egli ci ha detta onestamente in poche parole la maggior villania del mondo; per ciò che, se voi riguardate bene, queste arche sono le case de' morti, per ciò che in esse si pongono e dimorano i morti; le quali egli dice che sono nostra casa, a dimostrarci che noi e gli altri uomini idioti e non litterati siamo, a comparazion di lui e degli altri uomini scienziati, peggio che uomini morti, e per ciò, qui essendo, noi siamo a casa nostra Allora ciascuno intese quello che Guido aveva voluto dire e vergognossi né mai più gli diedero briga, e tennero per innanzi messer Betto sottile e intendente cavaliere. INDICE DELLE NOVELLE

45 Novella Decima Autore: Dioneo Frate Cipolla promette a certi contadini di mostrar loro la penna dell'agnolo Gabriello; in luogo della quale trovando carboni, quegli dice esser di quegli che arrostirono san Lorenzo. Essendo ciascuno della brigata della sua novella riuscito, conobbe Dioneo che a lui toccava il dover dire; per la qual cosa, senza troppo solenne comandamento aspettare, imposto silenzio a quegli che il sentito motto di Guido lodavano, incominciò: -Vezzose donne, quantunque io abbia per privilegio di poter di quel che più mi piace parlare, oggi io non intendo di volere da quella materia separarmi della qual voi tutte avete assai acconciamente parlato; ma, seguitando le vostre pedate, intendo di mostrarvi quanto cautamente con subito riparo uno de' frati di santo Antonio fuggisse uno scorno che da due giovani apparecchiato gli era. Né vi dovrà esser grave perché io, per ben dir la novella compiuta, alquanto in parlar mi distenda, se al sol guarderete il qual è ancora a mezzo il cielo. Certaldo, come voi forse avete potuto udire, è un castel di Val d'Elsa posto nel nostro contado, il quale, quantunque piccol sia, già di nobili uomini e d'agiati fu abitato; nel quale, per ciò che buona pastura vi trovava, usò un lungo tempo d'andare ogni anno una volta a ricoglier le limosine fatte loro dagli sciocchi un de' frati di santo Antonio, il cui nome era frate Cipolla, forse non meno per lo nome che per altra divozione vedutovi volontieri, con ciò sia cosa che quel terreno produca cipolle famose per tutta Toscana.

46 Era questo frate Cipolla di persona piccolo, di pelo rosso e lieto nel viso e il miglior brigante del mondo: e oltre a questo, niuna scienzia avendo, sì ottimo parlatore e pronto era, che chi conosciuto non l'avesse, non solamente un gran rettorico l'avrebbe stimato, ma avrebbe detto esser Tulio medesimo o forse Quintiliano: e quasi di tutti quegli della contrada era compare o amico o benivogliente. Il quale, secondo la sua usanza, del mese d'agosto tra l'altre v'andò una volta, e una domenica mattina, essendo tutti i buoni uomini e le femine delle ville da torno venuti alla messa nella calonica, quando tempo gli parve, fattosi innanzi disse: - Signori e donne, come voi sapete, vostra usanza è di mandare ogni anno à poveri del baron messer santo Antonio del vostro grano e delle vostre biade, chi poco e chi assai, secondo il podere e la divozion sua, acciò ché il beato santo Antonio vi sia guardia de' buoi e degli asini e de' porci e delle pecore vostre; e oltre a ciò solete pagare, e spezialmente quegli che alla nostra compagnia scritti sono, quel poco debito che ogni anno si paga una volta. Alle quali cose ricogliere io sono dal mio maggiore, cioè da messer l'abate, stato mandato, e per ciò, con la benedizion di Dio, dopo nona, quando udirete sonare le campanelle, verrete qui di fuori della chiesa là dove io al modo usato vi farò la predicazione, e bacerete la croce; e oltre a ciò, per ciò che divotissimi tutti vi conosco del barone messer santo Antonio, di spezial grazia vi mostrerò una santissima e bella reliquia, la quale io medesimo già recai dalle sante terre d'oltremare: e questa è una delle penne dell'agnol Gabriello, la quale nella camera della Vergine Maria rimase quando egli la venne ad annunziare in Nazaret. questo detto, si tacque e ritornossi alla messa. Erano, quando frate Cipolla queste cose diceva, tra gli altri molti nella chiesa due giovani astuti molto, chiamato l'uno Giovanni del Bragoniera e l'altro Biagio Pizzini li quali, poi che alquanto tra sé ebbero riso della reliquia di frate Cipolla, ancora che molto fossero suoi amici e di sua brigata, seco proposero di fargli di questa penna alcuna beffa.

47 E avendo saputo che frate Cipolla la mattina desinava nel castello con un suo amico, come a tavola il sentirono così se ne scesero alla strada e all'albergo dove il frate era smontato se n'andarono con questo proponimento: che Biagio dovesse tenere a parole il fante di frate Cipolla e Giovanni dovesse tralle cose del frate cercare di questa penna, chente che ella si fosse, e torgliele, per vedere come egli di questo fatto poi dovesse al popol dire. Aveva frate Cipolla un suo fante, il quale alcuni chiamavano Guccio Balena e altri Guccio Imbratta, e chi gli diceva Guccio Porco: il quale era tanto cattivo, che egli non è vero che mai Lippo Topo ne facesse alcun cotanto. Di cui spesse volte frate Cipolla era usato di motteggiare con la sua brigata e di dire: - Il fante mio ha in sé nove cose tali che, se qualunque è l'una di quelle fosse in Salamone o in Aristotile o in Seneca, avrebbe forza di guastare ogni lor vertù, ogni lor senno, ogni lor santità. Pensate adunque che uom dee essere egli, nel quale né vertù né senno né santità alcuna è, avendone nove. Ed, essendo alcuna volta domandato quali fossero queste nove cose, ed egli, avendole in rima messe, rispondeva: - Dirolvi: egli è tardo, sugliardo e bugiardo; negligente, disubidente e maldicente; trascutato, smemorato e scostumato; senza che egli ha alcune altre taccherelle con queste, che si taccion per lo migliore. E quel che sommamente è da rider de' fatti suoi è che egli in ogni luogo vuol pigliar moglie e tor casa a pigione; e avendo la barba grande e nera e unta, gli par sì forte esser bello e piacevole, che egli s'avisa che quante femine il veggano tutte di lui s'innamorino, ed essendo lasciato, a tutte andrebbe dietro perdendo la coreggia. E' il vero che egli m'è d'un grande aiuto, per ciò che mai niun non mi vuol sì segreto parlare, che egli non voglia la sua parte udire; e se avviene che io d'alcuna cosa sia domandato, ha sì gran paura che io non sappia rispondere, che prestamente risponde egli e sì e no, come giudica si convenga. A costui, lasciandolo all'albergo, aveva frate Cipolla comandato che ben guardasse che alcuna persona non toccasse le cose sue, e spezialmente le sue bisacce, per ciò che in quelle erano le cose sacre.

48 Ma Guccio Imbratta, il quale era più vago di stare in cucina che sopra i verdi rami l'usignolo, e massimamente se fante vi sentiva niuna, avendone in quella dell'oste una veduta, grassa e grossa e piccola e mal fatta, con un paio di poppe che parean due ceston da letame e con un viso che parea de' Baronci, tutta sudata, unta e affumicata, non altramenti che si gitti l'avoltoio alla carogna, lasciata la camera di frate Cipolla aperta e tutte le sue cose in abbandono, là si calò. E ancora che d'agosto fosse, postosi presso al fuoco a sedere, cominciò con costei, che Nuta aveva nome, a entrare in parole e dirle che egli era gentile uomo per procuratore e che egli aveva de' fiorini più di millantanove, senza quegli che egli aveva a dare altrui, che erano anzi più che meno, e che egli sapeva tante cose fare e dire, che domine pure unquanche. E senza riguardare a un suo cappuccio sopra il quale era tanto untume, che avrebbe condito il calderon d'Altopascio, e a un suo farsetto rotto e ripezzato e intorno al collo e sotto le ditella smaltato di sucidume, con più macchie e di più colori che mai drappi fossero tartereschi o indiani, e alle sue scarpette tutte rotte e alle calze sdrucite, le disse, quasi stato fosse il siri di Castiglione, che rivestir la voleva e rimetterla in arnese, e trarla di quella cattività di star con altrui e senza gran possession d'avere ridurla in isperanza di miglior fortuna e altre cose assai; le quali quantunque molto affettuosamente le dicesse, tutte in vento convertite, come le più delle sue imprese facevano, tornarono in niente. Trovarono adunque i due giovani Guccio Porco intorno alla Nuta occupato; della qual cosa contenti, per ciò che mezza la lor fatica era cessata, non contradicendolo alcuno nella camera di frate Cipolla, la quale aperta trovarono, entrati, la prima cosa che venne lor presa per cercare fu la bisaccia nella quale era la penna; la quale aperta, trovarono in un gran viluppo di zendado fasciata una piccola cassettina; la quale aperta, trovarono in essa una penna di quelle della coda d'un pappagallo, la quale avvisarono dovere esser quella che egli promessa avea di mostrare a' certaldesi. E certo egli il poteva a quei tempi leggiermente far credere, per ciò che ancora non erano le morbidezze d'Egitto, se non in piccola quantità, trapassate in Toscana, come poi in grandissima copia con disfacimento di tutta Italia son trapassate:

49 e dove che elle poco conosciute fossero, in quella contrada quasi in niente erano da gli abitanti sapute; anzi, durandovi ancora la rozza onestà degli antichi, non che veduti avessero pappagalli ma di gran lunga la maggior parte mai uditi non gli avean ricordare. Contenti adunque i giovani d'aver la penna trovata, quella tolsero e, per non lasciare la cassetta vota, vedendo carboni in un canto della camera, di quegli la cassetta empierono; e richiusala e ogni cosa racconcia come trovata avevano, senza essere stati veduti, lieti se ne vennero con la penna e cominciarono a aspettare quello che frate Cipolla, in luogo della penna trovando carboni, dovesse dire. Gli uomini e le femine semplici che nella chiesa erano, udendo che veder dovevano la penna dell'agnol Gabriello dopo nona, detta la messa, si tornarono a casa; e dettolo l'un vicino all'altro e l'una comare all'altra, come desinato ebbero ogni uomo, tanti uomini e tante femine concorsono nel castello, che appena vi capeano, con desiderio aspettando di veder questa penna. Frate Cipolla, avendo ben desinato e poi alquanto dormito, un poco dopo nona levatosi e sentendo la moltitudine grande esser venuta di contadini per dovere la penna vedere, mandò a Guccio Imbratta che lassù con le campanelle venisse e recasse le sua bisacce. Il quale, poi che con fatica dalla cucina e dalla Nuta si fu divelto, con le cose addimandate con fatica lassù n'andò: dove ansando giunto, per ciò che il ber dell'acqua gli avea molto fatto crescere il corpo, per comandamento di frate Cipolla andatone in su la porta della chiesa, forte incominciò le campanelle a sonare. Dove, poi che tutto il popolo fu ragunato, frate Cipolla, senza essersi avveduto che niuna sua cosa fosse stata mossa, cominciò la sua predica, e in acconcio de' fatti suoi disse molte parole; e dovendo venire al mostrar della penna dell'agnolo Gabriello, fatta prima con grande solennità la confessione, fece accender due torchi, e soavemente sviluppando il zendado, avendosi prima tratto il cappuccio, fuori la cassetta ne trasse. E dette primieramente alcune parolette a laude e a commendazione dell'agnolo Gabriello e della sua reliquia, la cassetta aperse. La quale come piena di carboni vide, non sospicò che ciò che Guccio Balena gli avesse fatto, per ciò che nol conosceva da tanto, né il maladisse del male aver guardato che altri ciò non facesse, ma bestemmiò tacitamente sé, che a lui la guardia delle sue cose aveva commessa, conoscendol, come faceva,

50 negligente, disubidente, trascurato e smemorato
negligente, disubidente, trascurato e smemorato. Ma non per tanto, senza mutar colore, alzato il viso e le mani al cielo, disse sì che da tutti fu udito: - O Iddio, lodata sia sempre la tua potenzia! Poi richiusa la cassetta e al popolo rivolto disse: - Signori e donne, voi dovete sapere che, essendo io ancora molto giovane, io fui mandato dal mio superiore in quelle parti dove apparisce il sole, e fummi commesso con espresso comandamento che io cercassi tanto che io trovassi i privilegi del Porcellana, li quali, ancora che a bollar niente costassero, molto più utili sono a altrui che a noi. Per la qual cosa messom'io cammino, di Vinegia partendomi e andandomene per lo Borgo de' Greci e di quindi per lo reame del Garbo cavalcando e per Baldacca, pervenni in Parione, donde, non senza sete, dopo alquanto per venni in Sardigna. Ma perché vi vo io tutti i paesi cerchi da me divisando? Io capitai, passato il braccio di San Giorgio, in Truffia e in Buffia, paesi molto abitati e con gran popoli; e di quindi pervenni in terra di Menzogna, dove molti de' nostri frati e d'altre religioni trovai assai, li quali tutti il disagio andavan per l'amor di Dio schifando, poco dell'altrui fatiche curandosi, dove la loro utilità vedessero seguitare, nulla altra moneta spendendo che senza conio per quei paesi: e quindi passai in terra d'Abruzzi, dove gli uomini e le femine vanno in zoccoli su pe'monti, rivestendo i porci delle lor busecchie medesime; e poco più là trovai gente che portano il pan nelle mazze e 'l vin nelle sacca: da' quali alle montagne de' bachi pervenni, dove tutte le acque corrono alla 'ngiù. E in brieve tanto andai adentro, che io pervenni mei infino in India Pastinaca, là dove io vi giuro, per l'abito che io porto addosso che io vidi volare i pennati, cosa incredibile a chi non gli avesse veduti; ma di ciò non mi lasci mentire Maso del Saggio, il quale gran mercante io trovai là, che schiacciava noci e vendeva gusci a ritaglio. Ma non potendo quello che io andava cercando trovare, perciò che da indi in là si va per acqua, indietro tornandomene, arrivai in quelle sante terre dove l'anno di state vi vale il pan freddo quattro denari, e il caldo v'è per niente. E quivi trovai il venerabile padre messer Nonmiblasmete Sevoipiace, degnissimo patriarca di Jerusalem. Il quale, per reverenzia dell'abito che io ho sempre portato del baron messer santo Antonio, volle che io vedessi tutte le sante reliquie le quali egli appresso di sé aveva;

51 e furon tante che, se io ve le volessi tutte contare, io non ne verrei a capo in parecchie miglia, ma pure, per non lasciarvi sconsolate, ve ne dirò alquante. Egli primieramente mi mostrò il dito dello Spirito Santo così intero e saldo come fu mai, e il ciuffetto del serafino che apparve a san Francesco, e una dell'unghie de' Gherubini, e una delle coste del Verbum caro fatti alle finestre, e de' vestimenti della Santa Fé catolica, e alquanti de' raggi della stella che apparve à tre Magi in oriente, e un ampolla del sudore di san Michele quando combatté col diavole, e la mascella della Morte di san Lazzaro e altre. E per ciò che io liberamente gli feci copia delle piagge di Monte Morello in volgare e d'alquanti capitoli del Caprezio, li quali egli lungamente era andati cercando, mi fece egli partefice delle sue sante reliquie, e donommi uno de' denti della santa Croce, e in una ampolletta alquanto del suono delle campane del tempio di Salomone e la penna dell'agnol Gabriello, della quale già detto v'ho, e l'un de' zoccoli di san Gherardo da Villamagna (il quale io, non ha molto, a Firenze donai a Gherardo di Bonsi, il quale in lui ha grandissima divozione) e diedemi de' carboni, co' quali fu il beatissimo martire san Lorenzo arrostito; le quali cose io tutte di qua con meco divotamente le recai, e holle tutte. E' il vero che il mio maggiore non ha mai sofferto che io l'abbia mostrate infino a tanto che certificato non s'è se desse sono o no; ma ora che per certi miracoli fatti da esse e per lettere ricevute dal Patriarca fatto n'è certo m'ha conceduta licenzia che io le mostri; ma io, temendo di fidarle altrui, sempre le porto meco. Vera cosa è che io porto la penna dell'agnol Gabriello, acciò che non si guasti, in una cassetta e i carboni co' quali fu arrostito san Lorenzo in un'altra; le quali son sì simiglianti l'una all'altra, che spesse volte mi vien presa l'una per l'altra, e al presente m'è avvenuto; per ciò che, credendomi io qui avere arrecata la cassetta dove era la penna, io ho arrecata quella dove sono i carboni. Il quale io non reputo che stato sia errore, anzi mi pare esser certo che volontà sia stata di Dio e che Egli stesso la cassetta de' carboni ponesse nelle mie mani, ricordandom'io pur testé che la festa di san Lorenzo sia di qui a due dì.

52 E per ciò, volendo Iddio che io, col mostrarvi i carboni co' quali esso fu arrostito, raccenda nelle vostre anime la divozione che in lui aver dovete, non la penna che io voleva, ma i benedetti carboni spenti dall'omor di quel santissimo corpo mi fe'pigliare. E per ciò, figliuoli benedetti, trarretevi i cappucci e qua divotamente v'appresserete a vedergli. Ma prima voglio che voi sappiate che chiunque da questi carboni in segno di croce è tocco, tutto quello anno può viver sicuro che fuoco nol cocerà che non si senta. E poi che così detto ebbe, cantando una laude di san Lorenzo, aperse la cassetta e mostrò i carboni; li quali poi che alquanto la stolta moltitudine ebbe con ammirazione reverentemente guardati, con grandissima calca tutti s'appressarono a frate Cipolla e, migliori offerte dando che usati non erano, che con essi gli dovesse toccare il pregava ciascuno. Per la qual cosa frate Cipolla, recatisi questi carboni in mano, sopra li lor camisciotti bianchi e sopra i farsetti e sopra li veli delle donne cominciò a fare le maggior croci che vi capevano, affermando che tanto quanto essi scemavano a far quelle croci, poi ricrescevano nella cassetta, sì come egli molte volte aveva provato E in cotal guisa, non senza sua grandissima utilità avendo tutti crociati i certaldesi, per presto accorgimento fece coloro rimanere scherniti, che lui, togliendogli la penna, avevan creduto schernire. Li quali stati alla sua predica e avendo udito il nuovo riparo preso da lui e quanto da lungi fatto si fosse e con che parole, avevan tanto riso che eran creduti smascellare. E poi che partito si fu il vulgo, a lui andatisene, con la maggior festa del mondo ciò che fatto avevan gli discoprirono, e appresso gli renderono la sua penna; la quale l'anno seguente gli valse non meno che quel giorno gli fosser valuti i carboni. COMMENTO INDICE DELLE NOVELLE

53 BIBLIOGRAFIA Giulio Ferroni; Andrea Cortellessa; Italo Pantani; Silvia Tatti, Storia e testi della letteratura italiana, Einaudi Scuola, Milano, 2002 Giovanni Boccaccio, Decameron, Ugo Mursia Editore, Milano, 1966 John William Waterhouse, A Tale from Decameron, 1916, Lady Lever Art Gallery, Liverpool AUTORI Camilla Felter Antonio Napoli Beatrice Orizio Giulia Poli

54 LA FORTUNA Da sempre ritenuta compagna inseparabile della nostra esperienza, favorevole o avversa, talvolta venerata e temuta come dea o identificata con la provvidenza divina, talvolta intesa come casualità o al contrario necessità e destino, la fortuna affianca da sempre l’evolversi della mentalità dell’uomo come entità più o meno determinante nella nostra vita., fin dall’antichità. 54

55 Durante l’impero romano il culto della Fortuna ebbe il suo periodo di massima diffusione; alla dea, infatti, erano dedicati ben diciotto templi: le ragioni di tanto successo proprio nel corso dell’impero sono probabilmente da ricercare nella diffusione di un forte scetticismo nei confronti della religione tradizionale, derivato anche dalla diffusione della dottrina epicurea. Il termine “fortuna” non deve essere confuso con “Fato”, che rappresenta la personificazione del destino immodificabile, tutto ciò che appartiene ad un piano predeterminato; la Fortuna, al contrario, rappresenta l’imprevedibilità e tutto ciò che avviene casualmente. Durante il medioevo la fortuna assume connotazione provvidenziale e si configura quasi come volontà divina stessa. Troviamo conferma di ciò considerando, ad esempio, Dante, autore emblematico della mentalità medievale. In Dante la fortuna agisce come forza divina in grado di contrastare l’ingiustizia che regna nel mondo umano, nettamente contrapposta a visioni casualistiche. “Fortuna” non è quindi intesa come caso, né come sorte predefinita, ma come ragione divina che sottrae gli uomini alla casualità. Essa è quindi entità ineluttabile a cui l’essere umano deve abbandonarsi con fede per compiere la giustizia divina. Francesco Petrarca si fa portatore di istanze classicheggianti, volte al recupero della concezione di fortuna quale imprevedibilità nel corso degli eventi che non influenza l’ azione distruttiva e rigeneratrice cui le cose terrene sono sottoposte. Con Boccaccio si assiste ad un progressivo allontanamento dalla concezione, tutta medievale, dantesca, in una direzione più propriamente Umanistica: nella seconda giornata del Decameron “si ragiona di chi, da diverse cose infestato, sia oltre alla sua speranza riuscito a buon fine”. Tramite i suoi personaggi Giovanni elabora una sorta di sintesi delle concezioni diffuse nel suo periodo, a partire dalle più antiche, retaggio di una mentalità ancora feudale, fino a quella a lui contemporanea, rinascimentale. Dalle sue novelle emerge quindi la contrapposizione tra elementi squisitamente medievali legati ad ambientazioni esotiche e fiabesche, e quelli di matrice più prettamente borghese che si focalizzano sulle nuove figure emergenti, in special modo quella del mercante.

56 LA FORTUNA NEL DECAMERON
Emblematico della visione boccaccesca della fortuna è per comune consenso il capolavoro della seconda giornata, la “fantasmagorica novella narrata da Fiammetta, personaggio cui è legato il ricordo della vita del Boccaccio a Napoli. Ne è protagonista Andreuccio, mercante perugino che si reca a Napoli per acquistare cavalli: raggiunto dalla cortigiana Fiordaliso, questa gli fa credere di essere sua sorella e gli offre ospitalità allo scopo di poterlo derubare. Dal Film ‘Decameron’ di Pier Paolo Pasolini (1971) Ha inizio così per lo sventurato un autentico rito di iniziazione attraverso una Napoli che Boccaccio descrive in modo accurato, memore dei luoghi in cui ha vissuto durante la giovinezza: Andreuccio viene a trovarsi così in una città maliosa e piena di traffici, vivida e corrotta, che gli permette di acquisire la prontezza di riflessi e l’ astuzia necessarie per garantirsi la salvezza e recuperare le ricchezze perdute. La sequenza introduttiva, tutta dialogica e caratterizzata da periodi ampi e articolati, tali da permettere al lettore di inquadrare i personaggi e comprenderne la psicologia, dopo l’ incontro del protagonista con Fiordaliso, si conclude con la caduta di Andreuccio in strada attraverso il fondo di una latrina, evento che peraltro si rivela per lui salvifico, avendo l’ avida e astuta Fiordaliso pianificato anche la morte dello sventurato, a sua insaputa, per saziare la propria brama di ricchezza.

57 La seconda sequenza vede il protagonista sozzo e sperduto, privo di punti di riferimento fino all’ incontro con due furfanti intenzionati a profanare la tomba dell’ arcivescovo di Napoli, degne guide per Andreuccio del quartiere di residenza di Fiordaliso, significativamente appellato Malpertugio. All’ arrivo di alcuni gendarmi, i ladri non esitano ad abbandonare lo sventurato calatosi con il loro aiuto in un pozzo per rimuovere la sozzura di cui si era ricoperto nella caduta nel chiassetto. Gli “sbirri” si rivelano tutt’altro che impavidi, dominati come sono dalla malavita del luogo e incapaci di imporre la propria autorità: la risalita di Andreuccio procura loro uno spavento tale da sancire la loro completa incapacità di reazione e da provocarne l’ immediata fuga. La terza sequenza infine prevede la discesa del protagonista minacciato di morte dai furfanti, nella tomba dell ‘arcivescovo, luogo tetro e buio che sembra suggellare sacralmente la definitiva vittoria del destino su Andreuccio, costretto dal caso a soccombere alle continue sventure che lo hanno visto protagonista; eppure proprio tale sgomento garantisce la resurrezione definitiva del protagonista, che può grazie al prezioso anello dell’arcivescovo recuperare le ricchezze che la fortuna gli ha sottratto. La scansione di un prologo e tre sequenze definisce quindi una struttura circolare, quasi ad “anello”, in cui il finale arriva a coincidere con l’ inizio, ovvero il ritorno di Andreuccio a Perugia, seppur con un acquisto inaspettato, e salda, come ha sottolineato Muscetta, “la struttura anulare del racconto sulla gemma in cui sembra fiammeggiare l’ amuleto della fortuna amica”. È significativo sottolineare il modo in cui avviene questo processo: la fortuna infatti porta Andreuccio, già minacciato di morte da Fiordaliso e dai furfanti, non solo a trovarsi a stretto contatto con la morte stessa, ma quasi a scambiare la sua posizione con quella dell’ arcivescovo, cadavere per l’ appunto; suggello di questo scambio diviene proprio il furto dell’ anello, fonte di salvezza per lo sventurato. L’ anello di cui costui si impossessa rappresenta tuttavia una ricchezza immobile, pietrificata, peraltro destinata a far compagnia ad un esponente del clero” non sottoposta all’ alea e al rischio che comporta lo scambio mercantile: una ricchezza improduttiva, quasi che il confronto dell’ ingenuo Andreuccio con la realtà di Napoli e con i gruppi sociali diversi che lo affollano abbia convinto il protagonista ad abbandonare l’ attività di mercante. Al centro della seconda giornata, la novella presenta lo schema dell’ avventura notturna con esito fortunato del personaggio ingenuo, riconnettendosi a vari precedenti nella tradizione narrativa, specie in racconti di tradizione popolare quali il Fablieau francese. L’avventura di Andreuccio permette al lettore di avvertire quella gioia comica dell’ attraversamento di pericoli e traversie, suscitate dal caso e superate per azione del caso stesso.

58 La fortuna cui è soggetto Andreuccio, intesa come caso, inizialmente stravolge l’esistenza del protagonista gettandolo in situazioni particolarmente difficili, poi verte inaspettatamente a suo favore, una volta “svezzato” e pronto ad affrontare in modo più maturo e consapevole il mondo che lo circonda, facendo uso dell’ingegno e della scaltrezza per far sì che la fortuna lo assecondi. La novella diviene quindi un autentico percorso di formazione del protagonista, che, “descensus ad inferos”, deve trovare in sé le risorse per recuperare la condizione di partenza. Nella visione della fortuna qui proposta, all’uomo scaltro e abile è permesso di sfruttarla a proprio vantaggio ed essa è in qualche modo volubile. C’è quindi un rapporto dialettico, terrestre e combattivo tra fortuna e uomo, ed un’interazione tra essi, del tutto appartenente alla mentalità rinascimentale. In Machiavelli quest’aspetto è particolarmente evidente; egli infatti, ne “Il principe” distingue due grandi forze che si misurano, in contrapposizione, l’una con l’altra. “Come un fiume impetuoso, la fortuna (ovvero la sorte, il destino) travolge tutto ciò che incontra sul suo cammino, a meno che un argine, la virtù appunto, non la contenga, sfruttandone l’impeto o almeno limitandone i danni.” Il concetto di virtù quindi prende le distanze da quello cristiana e si configura in modo assai simile alla scaltrezza e all’ingegno di Andreuccio: è dunque “azione energica, che sa imporsi e cedere al momento opportuno, senza mai abbandonarsi al fatalismo.” (da Riccardo Marchese, “Piani e percorsi della storia” Minerva italica 2005). 58

59 Se la fortuna è qui proposta come forza che l’uomo può in qualche modo controllare, e si tratta quindi di una visione umanistica, per cui l’uomo stesso ne risulta maturato, nuovo e formato, nella quarta novella della seconda giornata, che vede protagonista le traversie di Landolfo Rufolo, si ritorna ad una concezione della fortuna più petrarchesca. L’uomo ne è in completa balia e non è in grado in alcun modo di agire su di essa per i propri scopi; la sua esistenza è più o meno temporaneamente sconvolta, ma l’uomo è inetto, incapace di reagire e di essere artefice del proprio avvenire; la fortuna quindi non muta la condizione umana del protagonista, che nel finale di novella mostra una condotta di vita molto simile a quella di partenza. Il mercante Landolfo Rufolo, “sì come usanza suole essere de’ mercatanti”, acquista una nave con cui si dirige a Cipro. Giunto a destinazione, trova altre numerosi mercanti che commerciano le sue stesse mercanzie, motivo per cui riesce a vendere solo una parte delle sue ricchezze: costretto a liberarsi della merce invenduta, timoroso di impoverirsi vende l’ imbarcazione da poco acquistata per una più piccola e sottile, con cui decide di dedicarsi alla pirateria; e grazie a questo nuovo “mestiere” non solo riguadagna ciò che ha perduto, ma riesce a raddoppiarlo. Per timore di perdere le ricchezze recuperate decide di rimpatriare; durante il viaggio di ritorno, tuttavia, si alza un vento sfavorevole che lo costringe a rifugiarsi in un luogo riparato, in attesa di migliori condizioni di navigazione. Nello stessa baia in cui Landolfo ha trovato riparo giungono due navi genovesi, i cui uomini, riconosciuto Landolfo per la sua fama e per la sua nota ricchezza, lo circondano e intrappolano; caricatolo quindi a bordo di una delle due navi, lo derubano di ogni suo avere.

60 Il giorno dopo si dirigono verso Occidente, finché in serata un vento di tempesta le divide: essendosi le mercanzie disperse in acqua i superstiti, tra cui Landolfo, tentano di aggrapparsi ad oggetti galleggianti. Il mattino successivo, quando Landolfo ha perso ormai ogni speranza di sopravvivere, vede avvicinarsi sul pelo dell’ acqua una cassa, alla quale si regge. Sospinto dalle onde, raggiunge tra gli stenti l’ isola di Gufo, ove su una spiaggia una ragazza, vedutolo e presa a compassione, dopo aver affidato alla figlia la cassa gli presta soccorso e lo accoglie. Landolfo, aperta la cassa vi trova pietre preziose, che decide di nascondere in alcuni stracci. Allontanatosi, dopo aver attraversato alcune città giunge a Ravello, sulla costa amalfitana, ove può ripagare le persone che gli hanno offerto aiuto nelle sue peregrinazioni; stabilitosi nella città, può condurre una vita agiata con le ricchezze conservate. Nella novella di Landolfo Rufolo l’azione della fortuna è rappresentata simbolicamente dal vento, che trasporta il protagonista senza che egli possa reagire in alcun modo. Si noti l’analogia con la sesta novella della giornata narrata da Emilia, che vede Madama Beritola protagonista di un naufragio con i figli: anche in questa circostanza la fortuna si identifica con il vento che di volta in volta può essere tempestoso e avverso o benigno. Troviamo quindi un elemento naturale usato per dare una forma concreta al caso. In molte altre novelle avviene la stessa “personificazione”: la fortuna viene riconosciuta in forze naturali o personaggi, spesso appartenenti alla sfera religiosa, come accade nella seconda novella, narrata da Filostrato, che vede protagonista il mercante Rinaldo d’Asti e che viene introdotta da un chiaro riferimento alla preghiera; in questo caso dunque gli avvenimenti sembrano apparentemente rientrare in una dimensione sacrale, tutt’altro che laica: “A coloro li quali, per li dubbiosi paesi d’amore sono camminanti, ne’ quali chi non ha detto il paternostro di San Giuliano, spesse volte, ancora che abbia buon letto alberga male”

61 In un viaggio da Ferrara verso Verona, il mercante Rinaldo d’Asti incontra tre “masnadieri” che si fingono anch’essi mercanti e che si uniscono a lui lungo il tragitto. Conversando, iniziano a discutere sulle preghiere “che gli uomini rivolgono a Dio” e Rinaldo afferma di pregare solitamente per l’anima del padre e della madre di San Giuliano, pensando che questi lo protegga. Uno dei furfanti di rimando confessa di non aver mai pregato per nessuno e da inizio a una scommessa con Rinaldo per cui avrebbe ottenuto la vittoria chi fosse riuscito ad alloggiare nell’albergo migliore. Superato castel Guglielmo decidono di derubare Rinaldo; lo sventurato, infreddolito e in cerca di soccorso, giunge a Castel Guglielmo peraltro chiuso, così si rifugia sotto una sporgenza rivolgendo lamenti a San Giuliano che, accogliendo le preghiere del fedele, gli prepara una buona accoglienza: nei pressi del rifugio di Rinaldo infatti, abita una ricca vedova, probabile amante del marchese Azzo, signore del luogo, che aveva fatto preparare una buona accoglienza per sé ma aveva poi avvisato la donna di essere impossibilitato a raggiungerlo. La donna dalla sua dimora ode il pianto di Rinaldo e incuriosita, manda una serva a controllare la presenza di eventuali estranei. Dopo essere stato scoperto, viene accolto dalla donna che, colpita dalla sua bellezza lo riceve riservandogli tutte le attenzioni che avrebbero dovuto essere destinate al marchese: lo fa sedere vicino al fuoco, lo interroga sull’accidente che lo ha portato lì, ed infine gli serve un’abbondante cena. “Il concupiscibile appetito, avendo desto, nella mente ricevuto l’avea”, spingendolo a utilizzare “ quel bene che innanzi la fortuna ne avea mandato”. All’alba viene vestito con abiti modesti ed egli si reca al castello dove può recuperare i suoi averi essendo stati catturati i masnadieri.

62 La fortuna si configura in questo modo come provvidenza divina che agisce tramite S,Giuliano, ma il santo non è che “la facciata” che il protagonista assegna al caso: Rinaldo d’Asti dà alla fortuna il nome di S.Giuliano, ma effettivamente essa non è legata a provvidenza o al volere divino, bensì alla casualità. Il contesto potrebbe apparire religioso, in quanto Rinaldo d’Asti si rivolge al santo protettore dei viandanti (il protagonista viene completamente derubato durante il suo viaggio, trova rifugio in una grotta, si rivolge a san Giuliano richiedendo misericordia e soccorso: è un avvenimento di sapore quasi evangelico e potrebbe addirittura essere l’inizio di una parabola), ma con ironia dissacratrice il Boccaccio fa sì che San Giuliano offra una ricompensa al protagonista totalmente in contrasto con il contesto in cui si svolge l’azione. La donna che gli porge aiuto, entrando in scena come dono della misericordia, configurandosi nella mente del lettore quasi come la donna-angelo che i poeti stilnovisti hanno cantato (significativo è il fatto che la dimora della donna si trovi in una posizione superiore rispetto al luogo dove Rinaldo si è rifugiato, quasi a simboleggiare una sua elevazione spirituale), lo conforta con sollazzi amorosi e lo accoglie nel suo letto. Essa è peraltro amante del marchese Azzo da Ferrara, in assenza del quale la donna approfitta del “dono” che il signore le ha fatto, accogliendo il mercante in un modo totalmente impensabile se si prendono in considerazione i precedenti avvenimenti.

63 Al tema della religione è legata anche la prima novella della giornata, narrata da Neifile.
“Chi ha tentato di beffare le altre persone, si è con le beffe e talvolta col danno di sé ritrovato da solo”. Alla morte di Arrigo, un uomo di umili origini dedito a sollevare pesi a prezzo, che non sembra aver compiuto azioni di rilievo in vita le campane della sua città natale suonano all’ unisono senza l’ intervento umano, spingendo i compaesani a dichiararne lo status di santo. Alla sua tomba sono condotti numerosi malati, nella speranza di essere guariti: in questa occasione si avvicinano tre viandanti in cerca d’ avventure, Stecchi, Martellino e Marchese, i quali desiderano avvicinarsi al corpo di Arrigo facendosi largo tra la folla. Martellino allora, rivelando la propria astuzia, per burlarsi della creduloneria della folla, decide di fingersi storpio storcendo la bocca, gli occhi e il viso tanto che “fiera cosa pareva a vedere”; Martellino, posto sulla tomba di Sant’Arrigo, finge di guarire davanti allo stupore generale. La sorte vuole che un amico tra i presenti lo riconosca e riveli la verità suscitando l’ira dei cittadini. Per distrarli Marchese finge di essere stato derubato, attirando l’attenzione dei gendarmi che, giunti sul posto, catturano Martellino e lo portano a “palagio” al cospetto del governante. Alcune persone, convocate a testimoniare dell’episodio, durante il processo cui Martellino è sottoposto, lo accusano pubblicamente di essere state tutte da lui derubate. A questo punto il giudice, avendo in odio i fiorentini, decide di mandare a morte Martellino, quando giunge a palazzo l’oste della locanda in cui alloggiano i tre viandanti e, divertito dalla vicenda, convoca a corte Sandro Agolanti, amico del governatore, a cui racconta che l’ imputato è riuscito con la sue doti giullaresche a fingersi miracolato e a gabbare il popolino. Il governatore, ammirato e divertito dalla fantasia comica dell’accusato decide di liberarlo, permettendo ai viandanti di lasciare la città impuniti.

64 Anche in questo caso, Boccaccio agisce in maniera totalmente dissacrante, in quanto Martellino, fingendosi storpio, una volta portato sulla tomba del santo Arrigo, simula la guarigione, unico evento, peraltro, apparentemente miracoloso all’interno della novella. In tal modo l’autore si prende gioco allo stesso tempo sia della credenza cristiana sia della superstizione popolare. Si potrebbe pensare che le sventure che vedono Martellino protagonista dopo la sua iniziativa, di carattere scherzoso e burlone, siano punizione di una provvidenza divina per un atto irrispettoso nei confronti di una sacra reliquia. Tuttavia Martellino troverà la salvezza dalla pena di morte proprio grazie al fatto che il suo atto dissacratore sia fonte di divertimento per il giudice, che per di più lo aveva in odio, essendo Martellino di origine fiorentina. Emerge qui un tratto caratteristico delle novelle della seconda giornata: la fortuna, che si presenta come caso, stravolge temporaneamente l’esistenza del protagonista, portandolo a una condizione di completo sconvolgimento, da un opposto all’altro, fino a ristabilire l’ordine iniziale. La fortuna sembra dilettarsi a portare il personaggio da condizioni di grande difficoltà ad altre di estremo agio, per poi riportare tutto alla condizione originaria. La fortuna si volge a favore dell’astuto, che è in grado di rischiare, pur essendo consapevole della possibile gravità delle conseguenze. E’ significativo sottolineare come i protagonisti si accontentino della propria condizione e si pongano in situazioni pericolose non per nobili cause, ma per uno scopo assolutamente fine a sé stesso. Martellino, per esempio, non ha nulla da perdere nel burlarsi della folla e non desidera compiere azioni che lo portino a un mutamento radicale della sua condizione: l’ eroe della novella giunge quindi a configurarsi come una sorta di anti-eroe. Altri esempi in cui la fortuna sembra “parteggiare” per una certa tipologia di personaggio sono forniti dall’ ottava e dalla decima novella.

65 Nell’ ottava novella, narrata da Elissa, il conte d'Anguersa, nobile cavaliere, di bell'aspetto, coraggioso, ammirato   da tutte le donne, viene, in seguito alla partenza del re di Francia e del principe, nominato temporaneamente sovrintendente del regno. Sfortunatamente, la moglie del principe si innamora del conte: durante un colloquio privato con " la donna del figliuol del re" , egli , avendola respinta per onore, viene accusato falsamente da questa di averle fatto forza; a causa di ciò, il conte decide di fuggire con i due figli , e si imbarca per l'Inghilterra.Qui il conte vive come un mendicante, ma riesce a trovare una sistemazione per i figli, a cui nel frattempo ha cambiato nome (Luigi/ Perotto, Violante/ Giannetta), in due famiglie di maniscalchi del re. Giannetta viene notata per la sua bellezza dalla moglie di uno di questi, e Perotto per la sua abilità da un'altro di questi. Giannetta si sposerà poi con il figlio del maliscalco Giachetto, da cui era stata adottata:.Perotto, a causa di un'epidemia, che causa la morte dell’ intera famiglia del maniscalco di cui era ospite, ne eredita le ricchezze e diviene a sua volta maniscalco, dopo essersi anch'egli sposato. In seguito, la regina di Francia si ammala gravemente e decide di svelare la verità al marito. Il re, avendo saputo ciò, scagionato il conte, dirama nell’ intero paese una grida, per cui chiunque gli avesse riportato il conte d'Anguersa o uno dei due figli avrebbe ricevuto una ricompensa. Avendo sentito tali cose, il conte, che si trovava nel campo militare insieme a Giachetto, chiede un colloquio con quest'ultimo e Perotto, anch'egli sul campo. Dopo essersi fatto riconoscere ed essersi ricongiunto al figlio e alla figlia, è condotto da Giachetto al re, in modo che il giovane possa ritirare la ricompensa. Il re può così scusarsi con il conte per l’ onta che questi ha subito e restituirgli le ricchezze che gli ha sottratto.

66 I protagonisti sono dunque soggetti a un radicale cambio di identità, per cui dalla condizione di nobili in un contesto raffinato, di carattere feudale medievale, sono catapultati in una condizione borghese, più propriamente rinascimentale, in cui è necessario l’ impiego della loro capacità per districarsi dalle situazioni difficoltose in cui si vengono a trovare. La loro virtù predominante è la tenacia e capacità di sopportazione del caso, contro cui il protagonista è inetto a combattere: e proprio grazie a questa fiduciosa rassegnazione il caso decide di premiarli. Nella novella l’ attenzione del caso è rivolta a favore delle nuove generazioni, aspetto, questo, individuabile anche nella decima. In essa il protagonista Ricciardo di Chinzica, a Pisa, vecchio giudice, ingegnoso ma di aspetto sgradevole, sposa la giovane e bella Bartolomea. Essendo lui vecchio e ormai decrepito, la donna non trova la soddisfazione che la sua giovane età richiederebbe. Così un giorno, durante una gita a pescare a Montenero, Bartolomea viene rapita dal corsaro Paganino, che abita a Monaco, il quale la consola come Ricciardo non sarebbe in grado di fare, “con i fatti”, essendo, a differenza del marito, “un gran lavoratore”. Il giudice, disperato, una volta scoperto il luogo dove la moglie è trattenuta, si reca a Monaco, incontra il corsaro e poi Bartolomea, la quale inizialmente finge di non riconoscerlo, ed egli crede che ciò sia dovuto alle sofferenze d’amore che gli hanno mutato il volto, trasfigurandolo. Infine tuttavia Bartolomea dice chiaramente di voler restare con Paganino, in quanto, essendo giovane, ha bisogno di certe attenzioni che l’anziano marito non può offrirle. Ricciardo torna a Pisa, sconsolato, e dopo poco tempo muore, solo, permettendo così alla moglie di risposarsi con Paganino.

67 E’ evidente come la fortuna “si allei” con i due giovani amanti, ai quali peraltro non viene posta alcuna condanna morale, lasciando il povero vecchio solo con le proprie disgrazie. È quasi paradossale il fatto che gli anziani, cui prima era attribuito il massimo rispetto in quanto essi erano riconosciuti quali fondamentali fonti del sapere, siano vittime dell’ azione dissacrante di Boccaccio tutta a favore delle nuove generazioni. Verso la figura del vecchio è serbata una certa ironia e le istanze di cui costui si fa portatore sono trattate con sarcasmo dai giovani, che sembrano tesi alla ricerca di punti di riferimento nei coetanei: la differenza d’ età tra Bartolomea ed il primo marito spinge così la giovane a trovare un nuovo amante. Un’ analoga situazione è riscontrabile nella terza novella, nella quale addirittura la figlia del re d’ Inghilterra osa ribellarsi alla decisione del padre.

68 Il racconto, narrato da Pampinea, ha inizio quando i tre figli di Agolante degli Agolanti, ricco mercante fiorentino, alla morte del padre ne ereditano le grandiose ricchezze. Stabilitisi nella città di Firenze, i giovani iniziano a vivere negli agi e nel lusso, sperperando con il gioco e la crapula i beni ricevuti, finché si trovano inaspettatamente ad essere in una condizione di indigenza: deliberano allora di trasferirsi in Inghilterra, ove il prestito ad usura sembra essere più redditizio che in Italia, e vi si dedicano fino all’ abbondante recupero delle ricchezze perdute Prima del rimpatrio, incaricano un loro nipote, Alessandro, di rimanere in territorio inglese per continuare l’ attività e inviar loro le riscossioni periodicamente. I fratelli, tornati a Firenze, riprendono quindi una condotta di vita mondana grazie al denaro mandato di Alessandro, finché questo, allo scoppio di un conflitto tra eredi per il trono inglese, si trova impossibilitato a continuare, in quanto i suoi clienti sono convocati per le azioni belliche. Poiché il conflitto si protrae a lungo senza un esito definitivo, Alessandro decide di raggiungere gli zii, che nel frattempo hanno perduto nuovamente ogni ricchezza, per condividere con loro la sofferenza e trovare una soluzione alla drammatica situazione. Nel corso del viaggio di ritorno, alle porte di Bruges incontra un gruppo di viaggiatori cui decide di aggregarsi, diretti a Roma dal Papa; tra questi stringe amicizia con un facoltoso abate, incuriosito dall’ esperienza di Alessandro. Al calar del sole il gruppo trova rifugio in una locanda, ove solo Alessandro non trova un posto per riposare: l’ abate allora, quando gli altri viaggiatori si sono ritirati per la notte, gli offre ospitalità nel proprio letto. Sotto le lenzuola, l’ abate inizia a rivolger equivoche attenzioni ad Alessandro, suscitandone la perplessità, per poi rivelargli di essere una donna diretta in segreto dal Pontefice per far richiesta di celebrare il matrimonio tra lei e un suo anziano zio; ella tuttavia, innamoratasi fin dal primo incontro di Alessandro, vuole essere sua sposa. Dopo aver trascorso insieme la notte i due riprendono il viaggio con la comitiva; giunti a Roma, dopo essere stati ricevuti dal Papa la donna rivela di essere la figlia del re d’ Inghilterra e dichiara l’ intenzione di sposare Alessandro, nonostante ella sia già stata promessa ad un altro pretendente scelto dal padre per ragioni dinastiche e riesce ad ottenere nello stupore generale il consenso del Pontefice. Alessandro acquisisce così grandi ricchezze, con le quali può aiutare i fratelli, e nel corso del tempo raggiunge titoli nobiliari sempre più alti fino a divenire re d’ Inghilterra.

69 I personaggi per vincere la sorte avversa, impegnano l’ingegno ai limiti delle loro possibilità, e sono spesso costretti a cambiare temporaneamente la loro identità, fino al turning point, il momento del riconoscimento: l’ anagnorisis cara alla commedia plautina. Tale tema è introdotto da Boccaccio anche nella nona novella, narrata dalla Regina della giornata, Filomena, in cui madama Zinevra per sfuggire alla morte è costretta a travestirsi da uomo. La fortuna può non solo spingere un uomo a mutare i propri connotati, ma anche privarlo completamente della sua identità, come avviene nella settima novella, ove la fanciulla Alatiel, è vittima di una serie di sventure che il caso le ha riservato. Panfilo narra le peripezie cui è soggetta Alatiel, fglia di un sultano babilonese, e le avventure amorose di cui ella è protagonista. La fanciulla, di lodevole bellezza, è ceduta in moglie al re del Garbo, amico del padre e suo alleato in guerra. Imbarcatasi con il novello sposo da Alessandria durante un fortunale naufraga sull’ isola di Maiolica, ove vaga sperduta finchè non le è offerto soccorso da un “gentile uomo” di passaggio, Pericone, che alla vista della ragazza se ne innamora perdutamente; e dopo un lauto banchetto nel suo palazzo, riesce a sollazzarsi in sua compagnia. Pure il fratello di Pericone, Visalgo, ha avuto modo di apprezzare la bellezza di Alatiel e non esita a commettere fratricidio pur di conquistarla e fuggire con lei. Le grazie della fanciulla attirano anche i due fratelli alla guida della nave su cui Visalgo si imbarca,diretto in Romania: dopo aver gettato costui in acqua i due si sfidano ad un duello che si rivela fatale per entrambi. Giunti a destinazione, le voci riguardo la bellezza di una sconosciuta appena sbarcata giungono alle orecchie di un nobile, il prenze di Morea, che incuriosito desidera farne conoscenza: e innamoratosi perdutamente, ne fa la propria compagna.

70 Il duca di Atene, amico del prenze, è da lui invitato nella sua reggia ove può conoscere Alatiel; acceso da desiderio per lei non esita a uccidere l’ amico e a fuggire. Alla scoperta del cadavere, il popolo del prenze, avido di vendetta, riconosciuto il duca colpevole, muove guerra contro la sua città: in soccorso del duca è inviato il suo cognato Costanzo, che scopre così il turbamento della sorella duchessa, indispettita per la presenza dell’ intrusa Alatiel; Costanzo delibera di sottrarre la fanciulla nottetempo, all’ apparenza per salvare l’ onore della sorella. Osbech, re dei turchi, in continua lotta con Costanzo, figlio dell’ imperatore di Costantinopoli, alla notizia dello sbarco del rampollo a Chios muove guerra contro di lui con esito positivo; tra i prigionieri vi è Alatiel, che è subito affidata dal re, impegnato in un altro scontro in patria, ad un suo anziano famigliare, Antioco con il quale ella fugge a Rodi ed intreccia una relazione nonostante la differenza di età. Antioco, giunto a destinazione, si ammala mortalmente e la ragazza, grazie ad un mercante raggiunge Cipro: qui incontra un servitore del padre, con cui può rimpatriare. Dopo un lungo susseguirsi di avventure amorose e passionali, il finale prevede un completo ribaltamento della situazione: Alatiel narra infatti al padre di essere stata ospitata in un convento femminile durante la sua assenza, ottenendo così i massimi onori e tornando in sposa al re del Garbo.

71 Solo apparentemente la fortuna accompagna Alatiel nelle sue traversie dolorose: in realtà la sorte le nega la possibilità di comunicare cogli uomini che di volta in volta incontra, parlanti una lingua a lei sconosciuta ed attratti solo dalla sua indicibile avvenenza. La fanciulla sopravvive a tanta inverosimili vicissitudini attraverso la strumentalizzazione del proprio corpo, dono di scambio per la sua salvezza. Coloro che si innamorano di lei sono sciagurati amanti cui la vicinanza della fanciulla porta affanni, sofferenze o la morte. Lei stessa deciderà di unirsi ad un vecchio, Antioco, che conosce la sua lingua, comunica con lei e le dà l’ illusione di proteggerla con il suo affetto prima di soccombere come tutti i suoi predecessori. Con il fortunoso ritorno dal padre, Alatiel sembra essere inconsapevole di tutto quello che le è capitato e, cancellando il passato con racconti menzogneri colei che “con otto uomini forse diecimila volte giaciuta era”, andrà incontro ad un finale grottesco con un matrimonio riparatore da vergine pulcella.

72 Il nostro percorso ci ha permesso di comprendere le molteplici sfaccettature e sfumature del concetto di “Fortuna” nel corso dei secoli: Boccaccio ha saputo sapientemente raccogliere i significati e le diverse accezioni attribuiti ad essa fino ai suoi tempi. Analizzando così la seconda giornata del Decameron, una sorta di piccolo compendio della fortuna, emergono delle differenze che ci allontanano dai secoli passati. La presenza della sorte, ancora sentita nel novecento come forza a cui l’uomo, debole nella sua inettitudine, non può sottrarsi, sembra ormai ai nostri occhi un’antica credenza cui gli uomini del passato erano devoti. L’uomo medievale si sentiva completamente sopraffatto dalla essa; solo con il rinascimento inizia a sorgere nella mentalità umana una sempre maggiore consapevolezza di sé e del proprio ruolo nel mondo terreno. L’uomo si riconosce dapprima timidamente, quindi con convinzione artefice del proprio avvenire e protagonista della vita, una concezione sorprendentemente vicina a quella contemporanea, che tuttavia vede una sorta di annullamento della percezione della fortuna, in quanto l’uomo si riconosce a tal punto artefice del suo destino, da non avvertire nemmeno la necessità di riflettervi.

73 Ad Opera Di Bibliografia Carlo Bonetta Lorenzo Bonomi Giulia Franzini
Roxana Mirea Liceo Ginnasio Statale “Arnaldo” – Brescia Anno scolastico Prof. Resenterra Bibliografia Giulio Ferroni, Andrea Cortellessa, Italo Pantani, Silvia Tatti. “Storia e testi della letteratura italiana. Volume 1B”. Einaudi scuola, 2002 Giovanni Boccaccio “Decameron”. Bur, 2001 - AA. VV. “Dizionari letterario Bompiani delle opere. Volume II, lettere C – D” Valentino Bompiani Editore, 1960 Luigi Surdich “Boccaccio” Editori Laterza, 2001

74 La beffa: Beffa, burla o con vocaboli fiorentini giarda e natta, nell’accezione di “errore” in cui si fa cadere qualcuno per ridere alle sue spalle o “prenderne spasso”; sono termini molto comuni nella tradizione della novella,dove la beffa individua una tipologia precisa a partire dal Decameron di Boccaccio,che dedica due giornate,la settima e l’ottava, a questo tema. Alla base del meccanismo della beffa nel Decameron è la differenza tra beffatore e beffato, soprattutto sul piano dell’intelligenza: questo handicap pone il beffato in posizione beffato di vittima predestinata e attira su di lui le manovre derisorie dei beffatori, senza suscitare nel lettore reazioni di solidarietà o compassione. La novella della beffa ritrae sempre ambienti e situazioni quotidiane e borghesi, lontane del mondo aristocratico, o comunque da un livello intellettuale più elevato come avviene per il motto.

75 Le varie tipologie di beffa:
La beffa è una storia fasulla che viene architettata per raggiungere una finalità pratica o per puro divertimento ed esercizio dell’ingegno. Nel primo caso la beffa è un modo abile per sottrarsi a situazioni difficili o scabrose, nel secondo essa viene pensata e messa in atto solo per gusto dello scherzo. Nel Decameron si sviluppano poi trame curiose ed intricate. Gli intrecci amorosi sono spesso portati al limite del paradossale . Le beffe e le controbeffe di mariti, mogli e amanti rappresentano l’aspetto più divertente di quella tecnica del “saper vivere” celebrata da Boccaccio in tutta la sua opera. Analizzando le varie novelle si può suddividere la beffa nelle seguenti tipologie: -la beffa gratuita la beffa finalizzata La beffa moraleggiante

76 La beffa gratuita. La beffa gratuita ha una sua magica e necessaria scaturigine naturale: tutte le volte che uno sciocco incappa nella ragnatela di una persona intelligente e beffarda. Possiamo anche dire, prendendo a prestito un’ immagine della fisica, che lo sciocco è come una particella dotata di carica negativa che, qualora transiti nel campo di forza determinato da una carica positiva, interagisce necessariamente con quella, trascinata dalle forze del campo elettrico. Un esempio significativo di beffa gratuita è quella subita da Calandrino per opera dei suoi due colleghi Bruno e Buffalmacco (Decameron VIII, 3),uomini arguti che si divertivano a prendersi gioco della stupidità di Calandrino, perciò gli fanno credere che esista una pietra, l’elitropia, che ha la proprietà di rendere invisibile chi la porti con sé e che questa pietra possa trovarsi nel greto di un fiume non lontano da Firenze. Calandrino già si immagina il guadagno che potrebbe fare dall’essere invisibile ed è proprio lui che propone ai due compagni di andare a cercare la pietra lungo il fiume. Mentre Calandrino si carica di pietre d’ogni genere, Bruno e Buffalmacco simulano di averlo perso di vista; l’ingenuo che li vede a pochi passi da sé capisce che tra le pietre che ha raccolto c’è l’elitropia, sentendosi già ricco senza dire niente ai compagni torna verso Firenze. I due si dicono sconcertati per il tradimento dell’ amico e ,con vari pretesti, cominciano a scagliargli delle pietre, come se le lanciassero a vuoto. Calandrino, che si ostina a voler essere invisibile, subisce i colpi e fa ritorno in

77 La beffa finalizzata. La beffa finalizzata può essere denominata anche di castigo e/o di vendetta secondo che il male della beffa pareggi o superi l’offesa. E’ questo il caso della novella settima dell’ottava giornata del Decameron: uno studente ama una vedova giovane e molto bella che, pur disponendo di un druido al quale solitamente concede le proprie grazie, si compiace tuttavia di osservare “chi con diletto la riguardava”. E’ però decisa a non tradire l’amante, tanto più che questi comincia a provare gelosia siccome lei stessa gli ha parlato dello spasimante. Per dimostrare all’amante quanto sia fedele invita lo studente a casa sua la sera successiva a quella di Natale. La cameriera lo fa entrare in un cortile e gli dice di aspettare, sotto la neve. Passa il tempo, poi la cameriera si fa nuovamente viva chiedendogli di pazientare: il fratello della vedova si è presentato inopinatamente per cena ma, se ne andrà. Poi, dopo mezzanotte, scende la vedova stessa, parla con lo studente sull’uscio ma non può farlo entrare perché il rumore dei battenti insospettirebbe il fratello e se ne torna al caldo. Quindi si compiace di guardarlo da una finestrella in compagnia dell’amante con il quale amoreggia e si fa beffe del pretendente intrappolato e intirizzito. Quest’ultimo capisce infine l’inganno e trasforma il suo amore in odio. Liberato finalmente al mattino dalla cameriera, lo studente mostra di credere alle scuse riferitegli da parte delle vedova e finge di esserne ancora innamorato ma, presto arriva l’occasione per vendicarsi. Avviene dopo qualche tempo che la vedova sia abbandonata dal suo amante

78 I protagonisti della beffa: beffati e beffatori.
Il tema della beffa è caratterizzato da due principali tipi di personaggi: beffati e beffatori. Boccaccio a entrambe le tipologie di personaggi conferisce delle caratteristiche che li distinguono: solitamente i beffati sono uomini privi di astuzia, dediti al lavoro e ad occupazioni di poco conto e,il più delle volte, diventano vittime ideali per qualsiasi scherzo. Le reazioni di questi personaggi spesso sfociano nella disperazione perché non riescono a trovare una soluzione per uscire dai loro guai oppure nella rabbia perché comprendono di essere stati beffati. I beffatori, tra cui spesso troviamo anche figure femminili, sono invece personaggi estremamente astuti, avidi e annoiati dalla normalità quotidiana. Organizzano le beffe a volte per guadagnarci qualcosa oppure, in particolare nel caso delle donne, lo fanno per ricavare piacere fisico ai danni del beffato che ovviamente non comprende l’inganno. I beffatori non agiscono per cattiveria ma, tante volte i loro inganni si trasformano in scherzi crudeli ai danni, anche gravi, delle vittime. Il dislivello intellettuale tra beffatori e beffato concentra i notevolissimi effetti comici nell’illusionistico uso della parola da parte dei beffatori, con strategie alle quali non sono estranee né l’aggressività né percosse poiché si ricerca come obiettivo il piacere gratuito per la riuscita delle beffa. Con la beffa Boccaccio celebra in modo scanzonato l’ingegno dei suoi personaggi, che può esprimersi nel costruire situazioni totalmente inventate, capaci si sovvertire la verità dei fatti e di intrappolare in un’illusione il povero beffato.

79 Il caso di Calandrino. Calandrino è il personaggio comico prediletto da Boccaccio. E’ realmente esistito: era un pittore-artigiano, proveniente dalla campagna, appartenente a quelle “nuove genti”. In poche parole è un uomo goffo, stupido e ignorante: la vittima ideale e predestinata di ogni scherzo, anche il più crudele. La disperazione di Calandrino è comica e grottesca, con forti allusioni alla fisicità e alla sessualità. Il tutto avviene per puro divertimento, ma anche per riuscire a rubare qualche soldo al malcapitato. Come gli altri personaggi è ricco di desideri e aspirazioni ma gli manca l’intelligenza per soddisfarli. E’ la presunzione di possedere l’astuzia a trasformare il protagonista ogni volta in oggetto di beffa. Egli non modifica la propria situazione rimanendo, nel corso delle sue avventure, sempre nella stessa condizione di ignoranza da cui è partito.

80 La beffa…ai giorni nostri!
Nella cinematografia di questi ultimi anni è possibile trovare una rivisitazione in chiave comica dell'opera di Boccaccio chiamata Decameron Pie. Il film fa parte di una collana di pellicole caratterizzate dalla parodia, tendenzialmente a sfondo sessuale, di commedie famose. Ispiratosi liberamente al Decameron di Boccaccio, David Leland mescola sacro e profano, XIV secolo e Nuovo Millennio, per mettere in scena una commedia (sexy) in costume vagamente sboccata e alquanto anacronistica. Decameron Pie affronta infatti con audacia il modello della farsa giovanilistica, come delinea il conciso sottotitolo – Non si assaggia...si morde! – che da' un assaggio della leggerezza e della volgarità del film, ma sottintendendo irriverenza e comicità. Ecco una breve trama del film per comprendere le differenze ma soprattutto le coincidenze tra film e libro: a Firenze, mentre la peste nera continua a mietere vittime, il perfido Gerbino de la Ratta cerca di trarre vantaggio dalla morte dei genitori di Pampinea Anastagi per portarla all'altare e farla sua sebbene sia già stata promessa in sposa al conte Dzerzhinsky. Decisa a tener fede alla parola data al padre, la giovane spedisce un gruppo di amici alla villa di campagna dove verranno celebrate le nozze e a insaputa di tutti si rifugia in un convento per preservare la verginità in attesa dello sposo in arrivo dalla Russia. Pampinea però non sa che nello stesso convento è nascosto anche Lorenzo de Lamberti, fuggito dalla spada di de la Ratta e celato dietro il silenzio, la sordità e le vesti di giardiniere tuttofare e latin lover che farà breccia nei cuori delle “caste” monache. Alla fine, quello che rimane del capolavoro di Boccaccio è solo la premessa: "Bocca baciata non perde ventura, anzi rinnuova come fa la luna". Altro film, che più nello specifico riprende il tema della beffa, è “La cena delle beffe”, come dice il titolo. Diretto da Alessandro Blasetti, è stato il film che ha dato la popolarità ad Amedeo Nazzari, che qui recita la famosa battuta «...chi non beve con me, peste lo

81 Commento generale: la beffa
Boccaccio presenta come tematica dell’ VII e VIII giornata la beffa. Questa tematica si presenta in modo molto leggero, avendo appunto l’obiettivo di divertire il lettore,talvolta anche tramite scherzi e lazzi osceni. Tuttavia dietro ad esso vi è un profondo lavoro di ricerca da parte dell’autore, lavoro questo che di superficiale e leggero non ha nulla: infatti il prodotto finale beffa che noi possiamo gustare nell’opera non è altro che la fusione di argomentazioni ed elementi già presenti nella letteratura italiana e a cui Boccaccio attinge a piene mani, nonché l’unione e la rielaborazione di episodi vissuti, osservati, sentiti o raccontati dall’autore nella sua vita. Una fonte per esempio, a cui Boccaccio fa riferimento è senza dubbio il repertorio poetico italiano relativo al “Dolce Stilnovo” ed ai poeti che furono precursori di esso; è cosi che nella novella VI dell’ottava giornata Boccaccio scrive riguardo all’elitropia pietra magica che si rifà alle pietre presenti nei sonetti di Jacopo da Lentini, di Guido Guinizzelli e di Guido Cavalcanti. Un ruolo di primaria importanza nel lavoro di composizione del Decameron lo rivolge anche la “Divina Commedia” di Dante. Evidenti infatti sono alcune analogie, riscontrabili innanzitutto nel lavoro di Boccaccio di risemantizzazione che attua nel Decameron, attingendo e riprendendo numerosi termini ,frasi,espressioni presenti nella “Divina Commedia” . L’opera dantesca si presta inoltre ad essere esaminata anche sotto altri aspetti: Boccaccio infatti rielabora quella che è la “legge del contrappasso” di Dante, proponendola nelle spoglie della cosiddetta vendetta ovvero la risposta ad una beffa subita, attraverso la messa in atto di un’altra beffa ai danni di colui che inizialmente era il beffatore ; vediamo quindi qui un meccanismo di rovesciamento dei ruoli, da beffatore a beffato e viceversa,esattamente come avviene per i dannati dell’ Inferno dantesco, trasformati in vittime dalle loro stesse azioni. Inoltre è notabile la ripresa di personaggi originali della Divina Commedia, presi e buttati

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