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Per Manuel Castells la rete, raffigurando la trama della vita delle persone, riflette anche le loro pratiche sociali.   Le reti sociali telematiche (meglio.

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1 Per Manuel Castells la rete, raffigurando la trama della vita delle persone, riflette anche le loro pratiche sociali. Le reti sociali telematiche (meglio conosciute con il termine inglese “social network”) sono espressione della tendenza di ogni individuo a stabilire contatti con le persone che lo circondano, e a mantenerli attraverso la comunicazione. Tuttavia, spostandosi dalla realtà fisica a quella del cyberspazio, le pratiche di comunicazione e il modo di porsi nei confronti dell’interazione con altri soggetti, non può non subire delle alterazioni legate al nuovo medium che entra in gioco.

2 Per comprendere come l’identità della persona sia una realtà relazionale, non isolata che muta seguendo lo spirito del tempo, è necessario partire da quello che Boccia Artieri ha definito approccio mediologico, cioè il pensare i media come un luogo per la costruzione di percorsi di senso, sia individuale sia collettivi, come elementi che condizionano la realtà sociale.

3 In un tempo in cui la digitalizzazione e la smaterializzazione stanno conducendo la persona verso l’imperativo categorico di una vetrinizzazione diffusa, l’identità non può che apparire debole e frammentata. In tal senso la rete si pone come lo strumento che permette di “giocare” con l’identità senza avere il vincolo di rimanere legati a una di esse

4 Nel bacino di questa nuova dimensione antropologica fatta di crisi d’identità e nuovo regime emozionale, vengono a cadere le barriere tra pubblico e privato, o meglio sfera pubblica e sfera privata diventano due dimensioni che rischiano di confondersi. Tale complessa questione non è un problema nato con i social media ma è stato l’avvento dei media in generale a provocare un radicale cambiamento della dimensione privata.

5 Serge Tisseron afferma che le relazioni significative oggi vivono in una dimensione di extimità ovvero l’esigenza di esibire aspetti intimi di sé, in pubblico. Questo “desiderio di extimità” non è in contraddizione al bisogno d’intimità ma ne rappresenta un aspetto complementare dal momento che la persona ha sempre bisogno dell’altro da sé per realizzarsi pienamente.

6 il neologismo publicy sta ad indicare questa commistione tra sfera pubblica e sfera privata che, generando una nuova cultura dell’intimità, pone nuove sfide formative. Questa forma d’intimità che le persone oggi sperimentano pubblicamente su Facebook può essere considerata una forma d’intimità pubblica o l’intimità ha a che fare solo con interazioni private per potersi realizzare?

7 Oggi in atto una ristrutturazione della distinzione fra pubblico e privato cui corrisponde una nuova cultura dell’intimità. Intimità e senso del pudore sono ancora tra di noi o dobbiamo considerarli sentimenti obsoleti? Trattandosi di dimensioni importanti per l’equilibrio psichico dell’individuo e la costruzione dell’Io è impensabile che siano scomparse del tutto. Sono meno visibili e codificate di un tempo, ma da qualche parte continuano ad annidarsi. (…) In un mondo poliedrico e mobile, «liquido» secondo alcuni, queste dimensioni della psiche non hanno più una rappresentazione universale, possono però emergere in forme diverse a seconda dei contesti e degli individui. «L’intimità è là dove io voglio che sia e quando io voglio trovarla

8 Si pensa che le emozioni siano l’ultima riserva di ciò che la persona ritiene “proprio”, una sfera di sé incontaminata. Eppure esiste un nesso fra ciò che sentiamo e il mondo che ci circonda. Norbert Elias afferma che le emozioni e le loro espressioni siano strettamente intrecciate ai contesti sociali in cui si formano e si manifestano. Società diverse producono culture emozionali diverse e ogni strato sociale ha le sue regole emozionali.

9 Le emozioni non sono bandite dal mondo della produzione ma vengono da esso regolate e rese funzionali. Eva Illouz parla di emozioni fredde indicando con questo termine la riduzione delle emozioni a merci, la riduzione della vita intima e privata a campo d’azione di strategie politiche ed economiche. Quali sono le conseguenze sociali e culturali che possono derivare da una sfera pubblica sempre più privatizzata?

10 La Illouz sostiene che lo sviluppo di una cultura che incoraggia gli individui a occuparsi intensamente delle proprie emozioni non induce a ritirarsi nel privato, ad una separazione tra pubblico e privato ma contribuisce alla caduta di barriere tra le due dimensioni. Il trionfo dell’intimismo, reso sempre più evidente nella pubblica piazza della rete, ha privatizzato la sfera pubblica. Oggi le emozioni dilagano nel discorso pubblico, nei media, spezzando ogni barriera tra pubblico e privato.

11 Esibire le proprie emozioni, false o autentiche che siano, sembra essere diventato l’unico modo per manifestare il proprio esserci a se stessi e agli altri. Mi emozioni dunque esisto pubblicamente. Siamo travolti da confessioni, biografie che mettono in primo piano emozioni e passioni. Al discorso pubblico e in pubblico, possibile solo se rispettoso della propria e altrui discrezione e distanza fra sé e l’altro, si è sostituito il discorso emozionale, dove ogni distanza tra io e tu viene annullata nel mare di un presunto coinvolgimento.

12 Maurizio Mancuso in Le frecce dell’eroe
Maurizio Mancuso in Le frecce dell’eroe. Le figure mitiche della giovinezza da Dioniso alla pubblicità dei jeans si propone di risvegliare e dischiudere il segreto custodito in fondo al cuore dei giovani, distanziandosi sia dalla prospettiva psicologica che vede la giovinezza come una età di transito e perciò difficile, complessa, incerta, e sia dalla prospettiva sociologica che, invece, concentra la maggior parte dell’attenzione sui fenomeni della devianza.

13 La giovinezza non deve essere considerata solo un “transito”; il futuro è ben delineato nel presente giovanile. Se tale presente appare oggi come difficile, afflitto dal nichilismo, è solo perché gli adulti ormai rassegnati, hanno offeso il segreto della giovinezza, ovvero quell’apparato simbolico nel quale sono già descritte le immagini del futuro che solo la pigrizia mentale degli adulti impedisce di leggere.

14 Vittorino Andreoli nel suo libro L’uomo di vetro
Vittorino Andreoli nel suo libro L’uomo di vetro. La forza della fragilità ha parlato della fragilità nei termini di dimensione pedagogica ed esistenziale. La parola “fragilità” ha la stessa radice etimologica di “frangere”, ossia di “rompere”; seguendo il senso etimologico della parola, essendo “resistente” il contrario di “fragile”, verrebbe da riflettere sul fatto che si sente dire da più parti che l’educazione deve fortificare il bambino, trasformarlo in un individuo adulto dotato di coraggio, che affronta le battaglie della vita per vincerle

15 La forza e il valore pedagogico della fragilità non può e non deve risiedere nel significato di quest’ultima come un difetto a cui porre rimedio o come mancanza di risorse; la fragilità, al contrario, si ammanta di profondi significati educativi. L’adolescenza, infatti, è l’età in cui la dimensione della fragilità si veste di abiti diversi: è un’età caratterizzata dalla crisi del corpo, un corpo che cambia, in crisi in quanto le trasformazione vengono vissute dall’adolescente con “caratteristiche mostruose, che sembrano appartenere ad altro da sé. (…) Ora il corpo si fa presenza, e presenza burrascosa”

16 L’adolescenza è anche l’età della sfida nell’ambito della quale non è importante il cosa rappresenti quella sfida, ma solo il fatto di fronteggiare la sfida in sé, colpire l’attenzione degli altri. La sfida è sicuramente una dimensione forte dell’adolescenza da sostenere così come una dimensione da contenere per fare sì che quest’ultima non fuoriesca dal recinto dell’impegno sociale e trasformarsi nelle numerose “prove di morte” nelle quali l’adolescente riversa solo carenze affettive e dolori

17 vivere la sfida può anche diventare il momento di imparare a gestire gli scacchi dell’esistere e soprattutto di maturare la consapevolezza che il rischio di perdersi e incamminarsi per “sentieri interrotti” fa parte del nostro viaggio esistenziale verso l’acquisire forma, una forma che sia unica e irripetibile.

18 Galimberti e il nichilismo giovanile.
“I giovani anche se non sempre ne sono consci, stanno male. E non per le solite crisi esistenziali che costellano la giovinezza, ma perché un ospite inquietante, il nichilismo, si aggira tra loro, penetra nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri, cancella prospettive e orizzonti, fiacca la loro anima, intristisce la passioni rendendole esangui”.

19 Questo “ospite inquietante”, il nichilismo, che pervade ormai la vita dei giovani, sempre secondo Galimberti, non ha una origine psicologica ma culturale perché l’età della tecnica ha abolito lo scenario umanistico. Cosa accade quando il meccanismo che alimenta la tecnica investe tutti gli ambiti di vita? Accade che i concetti di persona, libertà, salvezza, senso, verità, logorati dal nichilismo e dominati dalla tecnica, finiscono sullo sfondo.

20 La tecnica ha preso il posto della natura che circonda la persona diventando, oggi, ambiente vitale. Tutto ciò che finora ha guidato l’individuo nel corso della storia - sensazioni, percezioni, sentimenti, emozioni - è inadatto al nuovo scenario cognitivo.  

21 Miguel Benasayag, filosofo e psicoanalista argentino, e Gérard Schmit, psichiatra infantile, hanno osservato l’andamento dei servizi di consulenza psicologica e psichiatrica sparsi per la Francia e hanno soffermato la loro attenzione sul fatto che a frequentarli sono persone che non hanno una vera e propria patologia psicologica ma riflettono, invece, la diffusa tristezza che ormai è diventata un marchio della società attuale.  

22 Come educare, allora, in una società che teme quello stesso futuro e ne vede aggravate le manifestazioni più forti nei termini di disagio psico-sociale, adolescenza prolungata e violenza? L’enorme difficoltà di poter affrontare concretamente riflessioni su questa sorta di necessità di una vera e propria alfabetizzazione emotiva dei giovani, è percepibile in quella forma di solitudine che Galimberti ha definito come assenza di gravità i cui tratti caratteristici sono riconoscibili nell’incomunicabilità come “presa di posizione”, nella sovrabbondanza e nell’opulenza come “addormentatori sociali”;  

23 Ma cosa accade nell’universo affettivo dei giovani di oggi
Ma cosa accade nell’universo affettivo dei giovani di oggi? Trova ancora spazio, nelle loro pratiche di vita, una educazione emotiva tale da permettere ai giovani di entrare in contatto con le proprie pulsioni e di rielaborarle e trasformarle in emozioni adulte? Accade che tale educazione emotiva, ovvero una educazione tesa a suscitare sentimenti, entusiasmi ma anche paure, dolore, viene a mancare e tali dimensioni fondamentali dell’esistere, l’adolescente se le organizza come meglio può e soprattutto con i mezzi cognitivi che non ha

24 La mancanza di una prospettiva futura rende carenti genitori e insegnanti dell’autorità di indicare la via da percorrere con la diretta conseguenza che tra adolescenti e adulti si viene ad instaurare un rapporto contrattualistico, con l’effetto che gli educatori si trovano nella condizione di dovere continuamente giustificare le loro scelte nei riguardi dei giovani, che accettano o meno ciò che viene loro proposto in un rapporto considerato tra pari  

25 Il rapporto tra adolescenti e adulti non può e non deve essere un rapporto simmetrico altrimenti si corre il rischio formativo di non contenere più il giovane, lasciandolo solo di fronte alle proprie pulsioni e ansie. Il disagio tende ad aggravarsi quando l’atteggiamento di chi ha il doveroso compito di educare, dinanzi ai primi segnali di malessere, comincia a muoversi tra comportamenti duri e censori e atteggiamenti seduttivi di tipo consumistico e commerciale.

26 Tutto questo riporta il discorso sulle responsabilità forti delle due principali agenzie educative, scuola e famiglia, che dovrebbero essere costantemente pronte ad offrire stimoli cognitivi e formativi in genere, per contribuire sia ad arricchire la personalità del giovane e sia a stimolare proficuamente la dimensione delle relazioni sociali. La mancata risposta dell’universo giovanile agli stimoli provenienti dalla società può, dunque, essere imputabile alla mancanza di adulti significativi che i giovani dovrebbero incontrare durante la loro vita.

27 L’universo giovanile ha bisogno di adulti che abbiano qualcosa da dire, di adulti in grado di raccontare e di raccontarsi, di adulti che “non hanno mai smesso di camminare”; la dinamica del rapporto tra giovani e adulti, in tale senso, chiama in causa la formazione degli adulti stessi, che si trovano coinvolti in una doppia sfida: sia nei confronti delle responsabilità educative che devono assumersi, e soprattutto nei confronti di loro stessi, “verso il modello di realizzazione che essi sono chiamati a costruire nel tempo presente”  

28 Nell’universo giovanile, oggi, la follia sembra vestire i panni della freddezza e della razionalità, pronta ad esplodere negli ambiti più inaspettati e, soprattutto, appare essere una forma di follia legata all’imprevedibilità, nel senso che molti casi di crimini efferati compiuti da adolescenti, come ad esempio “i ragazzi del cavalcavia”, Erika e Omar, hanno a che fare con questa sorta di irreperibilità della causa, del movente.

29 In tale senso si può parlare di una mancata crescita emotiva che ha reso il sentimento atrofico, inespressivo, non reattivo, per cui gli eventi della vita passano accanto ai giovani senza una vera partecipazione emotiva, senza un’adeguata risposta di sentimento a quanto intorno accade

30 Chi è l’Altro. Uno degli interrogativi che da sempre anima il dibattito filosofico e pedagogico riguarda la relazione tra l’io e l’altro: chi è l’io? Chi è l’altro? Come entrano in relazione? Riflettendo sull’io e sull’altro il primo pensiero è che questi sono estranei in modo reciproco che esiste, cioè, tra loro una profonda e inevitabile distanza; senza questa distanza l’io non sarebbe io e l’altro non sarebbe altro, non sarebbero, cioè, in grado di distinguersi.

31 Ma nonostante questa distanza, necessaria tuttavia affinché l’io e l’altro entrino in contatto, affinché in un certo senso si riconoscano, l’io e l’altro sembrano essere legati da una relazione originaria, una relazione che in qualche modo li precede. In altri termini, l’io e l’altro sembrano entrare in relazione perché esiste qualcosa che li precede e che fa sì che la distanza che esiste tra i due si abbrevi; questo qualcosa potrebbe essere il linguaggio?

32 A prescindere se sia l’Io a fondare l’Altro o viceversa, il punto in questione è che all’origine c’è la relazione, ovvero una dualità, un noi.

33 La “diversità” rende l’Altro a prima vista interessante e coinvolgente ma può anche, a causa di questa forte carica di differenza, “spaventare” ed essere vissuto come pericolo. Forse è l’insicurezza verso la propria identità che fa sentire debole la persona, per cui la persona finisce con il vivere l’illusione che rifiutando il diverso, aggredendolo, possa darsi una sorta di identità forte.

34 la paura dell’alterità, di un universo di valori, credenze e modi di vita diverso da chi, invece, si percepisce in uno stato di presunta normalità, è direttamente proporzionale all’incapacità che ha l’individuo di controllare la propria vita, dato che vive una identità instabile e complessa.

35 “Il desiderio dell’altro e di altri è sempre attivo, perché inscritto nella socialità dell’umano, ma esso appare meraviglioso e intollerabile insieme, perché se è vero che può aprirci altri orizzonti, è altrettanto vero che può anche rischiosamente minacciare le nostre identità”. A. Semeraro, Pedagogia e comunicazione. Paradigmi e intersezioni.

36 P. Fèdida in Umano/Disumano si interroga sul concetto di disumanità che emerge nei casi in cui l’Io non ha più la possibilità di riconoscere l’Altro: “è il sentimento di un decadimento, quando il volto, le parole, la voce, le stesse possibilità di riconoscere le reazioni dell’Altro, cominciano a disfarsi”. Caso emblematico di disumanità è la Shoa. Il regime nazista non voleva solo uccidere gli ebrei ma cancellare, far scomparire tutte le tracce.

37 Per Fèdida il punto essenziale è costruire, non ricostruire perché se la relazione si interrompe, se l’Io non ha più la necessità di riconoscere l’Altro, se arriva al punto di non riconoscere più neanche se stesso, se perde il volto, la parola, la voce,se l’lo fa l’esperienza dolorosa della disumanità, allora è chiaro che questa esperienza non deve essere ricostruita.

38 Bisogna restituire l’umanità alla persona
Bisogna restituire l’umanità alla persona. Tramite la relazione e il linguaggio. l’Altro offre costantemente all’Io la possibilità di colmare la distanza che li separa. L’altro è sempre in grado di guarire l’Io.

39 Dopo l’orrore della disumanità, l’Io ridiventa umano se riconosce l’Altro come simile, se comprende che anche l’Altro prova gioia, tristezza, infelicità, dolore. La disumanità consiste nell’andare oltre l’umano, andare verso ciò che è radicalmente dissimile, impossibile riconoscere. “Distruggere, demolire un uomo significa che le apparenze che consentivano il riconoscimento sono disfatte. Nella nostra esperienza, le apparenze sono il volto, , lo scambio tra volti, lo scambio di un gesto.

40 La demolizione di un uomo è rendere impossibile il far esistere l’umanità al suo livello essenziale, che è quello dell’apparenza. L’apparenza restituisce il simile”. Ma cosa avviene di così angosciante nell’incontro con l’Altro?L’ Altro è radicalmente estraneo, è imprevedibile; letteralmente potrebbe fare qualsiasi cosa, fino ad arrivare ad uccidere l’Io.

41 La paura di fronte all’Altro diventa angoscia di fronte al non conosciuto. Entra il gioco l’empatia che per Fèdida ha a che fare più con l’ascolto che con la comprensione. Ascoltare l’Altro vuol dire parlare con l’Altro: è tramite la dimensione del linguaggio che l’Io tocca l’Altro e viceversa. “La parola tocca, dispone di una capacità di contatto. La parola è contatto”.

42 Romano Guardini. Uno dei valori ai quali deve tendere sempre lo spirito è l’amore decentrante che fa si che la persona avverta il valore dell’Altro, la sua essenza profonda. Quando questo non accade, quando cioè l’uomo non si apre all’universo delle possibilità dell’Altro, lo spirito si ammala poiché si ritrova concentrato solo su se stesso; “l’esistenza si muta in carcere. Tutto si rinserra. Le cose opprimono. Ogni realtà diviene estranea e nemica nell’intimo. Sparisce il senso ultimo, evidente. L’essere non fiorisce più”.

43 Guardini risolve la relazione Io-Tu specificando che il Tu non può appartenere al mondo delle cose, dal momento che il Tu, finché rimane mero oggetto e non centro autonomo di un proprio orizzonte di senso, non potrà mai assurgere al ruolo di Tu per l’Io. L’Altro, allora, si eleva alla condizione di Tu quando, allontanata la prospettiva fattuale ed esperienziale che lo vuole inglobato nell’Io, nell’Altro finalmente vede la luce ovvero l’Io che gli sta dinanzi.

44 “Il primo passo verso il Tu è quel movimento che ‘ritira le mani’ e lascia libero lo spazio in cui può farsi valere il carattere della persona di servire da fine a se stessa. L’amore personale ha iniziato decisamente non con un movimento che si dirige all’altro, ma che se ne ritrae”. Finché l’Io si relaziona all’Altro come oggetto, come un Esso, non ha la necessità di dis-velarsi completamente, può rompere il legame quando vuole. Ma quando l’Io vive l’Altro come Tu, l’Io allora si trova coinvolto in un impegno diverso, “rischia in un rapporto che può consolidarsi in un destino.

45 La manifestazione del volto: l’Io guarda l’Altro senza volerlo più inglobare nei suoi sistemi di riconoscimento, l’Io finalmente si apre e si mostra nella sua essenzialità di volto disarmato. Ma perché si compia questo movimento fondamentale, è necessario che vi sia come orizzonte di senso la circolarità: solo quando l’Altro consente all’Io di diventare il suo Tu così come è nella sua essenza, la relazione diventa una relazione di senso compiuto.

46 “Nel guardare l’altro, il volto si apre e nasce quel rapporto in cui gli occhi si guardano negli occhi. Solo ora è presente l’atteggiamento pieno di chi è persona… Ora soltanto si annodano anche i destini nel senso personale”. La persona ha si bisogno dell’Altro per giungere alla pienezza di sé, ma non per assurgere al ruolo di persona; la persona, in altri termini, non emerge dall’incontro ma, pur trovando in esso attuazione, la sua essenza vive a prescindere dalla dimensione relazionale.

47 La peculiarità propriamente spirituale della persona, allora, si realizza come parola e come linguaggio. Il linguaggio rappresenta una sorta di orizzonte di senso che esiste a prescindere dalla volontà della persona e dal quale la persona viene formata, in quanto l’uomo vive nel linguaggio e dal linguaggio trae la vita. Il Tu, in tale direzione, può risvegliare nell’Io quella dimensione linguistica che l’Io già possiede in potenza.

48 “Cosa succede alle persone cosiddette normali quando incontrano di colpo un matto che urla o le investe di un delirio incomprensibile? Quando vedono qualcuno crollato a terra, o inchiodato da uno spasmo sui gradini di una chiesa? Dopo l’incontro restano immobili, con un’espressione di disagio, di paura o di stordimento. Ma il loro volto è cambiato, è come se fossero state fotografate da una luce accecante, scuotono la testa, parlano da sole, per un attimo anche la loro normalità sembra incrinata. Cos’hanno visto nel lampo di quella luce, quale paesaggio, quale specchio, quale verità insostenibile che dimenticheranno subito dopo, ma la cui immagine resterà per sempre, in qualche recesso buio del loro cuore, nella biblioteca in fiamme della loro vita?”. S. Benni, Achille piè veloce, Feltrinelli, Milano 2003, p. 11.

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50 E. Levinas. L ’Altro è infinitamente Altro, si trova su un piano asimmetrico rispetto all’Io (se fossero sullo stesso piano si fonderebbero) e pertanto non è riconducibile neanche alle categorie dell’essere. L’Altro non è. L’Altro non si lascia catturare ma precede il costituirsi stesso della soggettività: l’Altro fonda l’Io.

51 L’Alterità è costitutiva della soggettività: non ha importanza che l’Io incontri l’Altro, che acconsenta o rifiuti l’Altro in quanto l’Altro lo riguarda e viene prima dell’io. Inquietudine dell’Altro vuol dire che l’Io è da subito inquietato dall’Altro che lo precede e lo costituisce. La radicalità del pensiero di Levinas sta appunto nell’impossibilità di ricondurre l’Altro al piano ontologico dell’io, perché sarebbe come uccidere la sua alterità.

52 L’incontro con l’Altro non risiede nella “sintesi” di due alterità, ma nell’irriducibilità dell’alterità, nel “non sintetizzabile”. L’altro gioca un ruolo di realtà irriducibile L’esperienza esistenziale dell’alterità, si realizza concretamente nell’incontro con l’Altro, fuori dal cerchio magico dell’interiorità. Questa idea del non sintetizzabile per Lèvinas, si attua nella dimensione pratica del faccia a faccia; l’alterità è, dunque, il volto che si autoimpone di per sé.

53 Il volto si delinea come luogo di separazione tra Io e Altro
Il volto si delinea come luogo di separazione tra Io e Altro. E’ possibile parlare di relazione solo c’è separazione, altrimenti ci sarebbe solo un legame fusionale, fonte di violenza e distruzione. In uno scritto intitolato Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo Levinas afferma che una delle caratteristiche del pensiero hitleriano sia il fatto che l’altro venga ridotto a condizione biologica, venga cancellata la sua alterità e diventi ciò di cui l’Io può disporre.

54 Lévinas riflette su come la società occidentale abbia posto ai margini la dimensione della molteplicità in nome della totalità unitaria, sminuendo l’Alterità e riducendola “a un soggetto rivolto verso se stesso (…) a un soggetto che si definisce così per la cura di sé e che nella felicità attua il suo per sé”; a tutto questo Lèvinas oppone “il desiderio dell’Altro, che non sono né il mio nemico (…), né il mio “complemento”. (…) Il desiderio degli Altri nasce in un essere che non manca di nulla o, più esattamente, nasce al di là di tutto ciò che potrebbe mancargli o appagarlo”.

55 l’apertura per Lévinas è “non più l'essenza dell’essere che si apre per mostrarsi, non è la coscienza che si apre alla presenza aperta e affidata a lei. L’apertura è il denudamento della pelle esposta alla ferita e all’oltraggio. L’apertura è la vulnerabilità di una pelle offerta, nell’oltraggio e nella ferita, al di là di tutto ciò che si possa mostrare, al di là di tutto ciò che dell’essenza dell’essere possa esporsi alla comprensione e alla celebrazione

56 Nella sensibilità si pone allo scoperto, si espone un nudo più nudo di quello della pelle che, forma e bellezza, ispira le arti plastiche: nudo di una pelle offerta al contatto alla carezza che sempre - persino equivocabilmente nella voluttà - è sofferenza per la sofferenza dell’altro”.

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58 Gianni Vattimo riconduce la fine della modernità ad alcuni momenti fondamentali e tra questi l’avvento della società della comunicazione. Il postmoderno è un modo di guardare alla realtà che si apre alle differenze, a tutto ciò che non è più riconducibile ad un unico elemento legittimante. In questo senso, <<radio, televisione, giornali sono diventati elementi di una generale esplosione e moltiplicazione di Weltanschauungen, di visioni del mondo>>. Questa vertiginosa moltiplicazione della comunicazione, che porta alla ribalta dell’opinione pubblica sub-culture di ogni genere, è l’effetto più evidente prodotto dai media.  

59 Questa sorta di “prodotto” dei media, questa “liberazione delle molte culture”, questa pluralizzazione di punti di vista e di riferimento, male si adattano ad un’idea “unitaria” di storia. La realtà che oggi viviamo è il risultato dell’incrociarsi delle molteplici interpretazioni, immagini, punti di vista, che i media contribuiscono a creare e, perciò, priva di una “coordinazione” centrale. Nell’odierna società della comunicazione, si fa spazio un ideale emancipativo basato sui concetti dell’“oscillazione” e della “pluralità”.

60 Questa liberazione delle differenze, degli elementi locali, è ciò che potremmo chiamare, complessivamente, il dialetto. Vattimo sostiene che il senso emancipativo di questa liberazione dei “dialetti” consiste in un reciproco effetto di spaesamento e identificazione

61 “spaesamento, che è anche, e nello stesso tempo, liberazione delle differenze, degli elementi locali, di ciò che potremmo chiamare, complessivamente, il dialetto. Caduta l’idea di una razionalità centrale della storia, il mondo della comunicazione generalizzata esplode come una molteplicità di razionalità “locali” - minoranze etniche, sessuali, religiose, culturali o estetiche - che prendono la parola, finalmente non più tacitate e represse dall’idea che ci sia una sola forma di umanità vera da realizzare, a scapito di tutte le peculiarità, di tutte le individualità limitate, effimere, contingenti>>

62 <<Se parlo il mio dialetto, finalmente, in un mondo di dialetti, sarò anche consapevole che esso non è la sola “lingua”, ma è appunto un dialetto tra gli altri. Se professo il mio sistema di valori -religiosi, estetici, politici, etnici - in questo mondo di culture plurali, avrò anche un’acuta coscienza della storicità, contingenza, limitatezza, di tutti questi sistemi, a cominciare dal mio>

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64 Vattimo riconduce la fine della modernità alla crisi della storia come corso unitario.
Nella prospettiva unitaria dello sviluppo delle vicende umane, il progresso è stato sempre concepito come il progresso dell’uomo moderno europeo, un progresso spesso nato dallo sterminio sia umano sia culturale di gruppi umani minoritari o ritenuti tali.

65 Nel corso delle numerose ribellioni dei popoli colonizzati dagli europei, si è fatta lentamente avanti un’idea più problematica di storia, non più unitaria e centralizzata, ma una storia se vogliamo “minore”, meno supportata da ideologie condivise e che scopre che il modello di uomo europeo è solo un modello tra gli altri.

66 <<La crisi dell’idea di storia porta con sé quella dell’idea di progresso: se non c’è un corso unitario delle vicende umane, non si potrà neanche sostenere che esse procedano verso un fine, che realizzino un piano razionale di miglioramento, educazione, emancipazione. (…) Come la storia si pensa unitariamente solo da un punto di vista determinato che si pone al centro (sia esso la venuta di Cristo o il Sacro Romano Impero) così il progresso si concepisce solo assumendo come criterio un certo ideale dell’uomo; che però nella modernità, è stato sempre quello dell’uomo moderno europeo.

67 (…) I popoli “primitivi”, cosiddetti tali, colonizzati dagli europei in nume del buon diritto della civiltà “superiore” e più evoluta, si sono ribellati e hanno reso problematica di fatto una storia unitaria, centralizzata. L’ideale europeo di umanità è stato svelato come un ideale fra altri, non necessariamente peggiore, ma che non può, senza violenza, pretendere di valere come l’essenza vera dell’uomo, di ogni uomo>>[1]. [1] G. Vattimo, La società trasparente (1989), Garzanti, Milano 2000, pp

68 L’avvenimento che secondo alcuni ha segnato significativamente l’annullamento dell’altro da sé, è stato la scoperta a la colonizzazione delle Americhe. Con quell’evento drammatico di sterminio, si è venuto esasperando il carattere etnocentrico delle popolazioni europee, evento culminato poi con il genocidio delle popolazioni precolombiane.

69 Da quell’evento in poi, sempre secondo gli stessi autori, gli individui hanno colto il significato profondo della loro vita, che è co-implicazione con l’altro ma che da questo senso di alterità gli individui occidentali non hanno saputo trarne il significato più autentico in quanto, come sostiene Galimberti, “incontrando l’altro, l’individuo non si riconobbe”

70 Dominique Wolton che in una intervista pubblicata su Nuova Umanità n
Dominique Wolton che in una intervista pubblicata su Nuova Umanità n.165/166- maggio- agosto 2006) ha dichiarato: “Con la globalizzazione ci si accorge che si possono inviare suoni, immagini, radio e televisione su Internet, e che il mondo è un piccolo villaggio globale; ma in esso gli uomini non si comprendono ancora. E ciò conferma quanto dicevo sopra: per inviare delle informazioni nel mondo intero bisogna che ci sia "prima”la comunicazione.

71 La richiesta che ci giunge dalla globalizzazione, quindi, è quella di rispettare l’Altro - in scala più vasta, ovviamente -, il che vuol dire riprendere i valori della democrazia, scoprire la mancanza di comunicazione - perché ci si accorge che la relazione tra culture, lingue, popolazioni e cose non funziona -, e costruire la coabitazione. In fondo, l'orizzonte della globalizzazione è la costruzione di una coabitazione culturale a livello planetario.

72 Riconoscere la diversità culturale ed evitare che essa si riduca a una difesa miope delle identità comunitarie, una volta posto il principio della diversità, richiede di capire come organizzare tale diversità. È la coabitazione culturale, che rinvia alla semplice coabitazione umana, che a sua volta ritorna alla comunicazione: cioè, come coabitare, come comunicare e come rispettarsi quando non si hanno gli stessi valori?

73 Se non si trattano politicamente e democraticamente i problemi della comunicazione e della cultura a livello globale, la mia ipotesi è semplice: andiamo dritti verso lo scontro delle civiltà. La mia battaglia è perciò semplice: prima di arrivare allo scontro, cerchiamo di organizzare la coabitazione. Cioè comunichiamo”

74 I giovani oggi vivono, online e offline, assaliti da un’infinità di informazioni e da un sistema mediale che, veicolando pseudo-valori, li depriva nel sapere e nel giudicare, rendendoli quasi incapaci di formarsi un’opinione propria. Manca loro il filtro cognitivo e, dunque, la capacità di scegliere e di valutare

75 un’indicazione pedagogica che potrebbe smuovere le istituzioni educative indirizzandole verso un presente in continua trasformazione, potrebbe essere quella di debanalizzare il dialogo, cioè riportare il dialogo su argomenti quali la sfera affettiva, la cittadinanza, la democrazia, l’impegno sociale, la cura Per concretizzare tali discorsi è necessario fare i conti con la dimensione applicativa dell’educazione, il mondo della scuola.

76 Fadda suggerisce tre modi di esprimere e manifestare cura: la cura di sé, la cura degli altri e la cura delle cose del mondo. Il nostro acquisire forma è reso possibile sia dalla cura che la persona rivolge a se stessa, all’ascolto dei propri bisogni e necessità e sia dalle cure che l’altro rivolge a noi, al modo di accoglierci, di ascoltarci, di partecipare empaticamente alle cose del mondo.

77 la nostra possibilità di formazione si manifesta anche nella cura di tutto ciò che nel mondo ci preoccupa e ci occupa, «tutte le cose che incontriamo e utilizziamo per soddisfare i nostri bisogni, cose che non sono solo presenti ma sono dotate di senso e rinviano a un universo di significati (ciò che fa si che sia il nostro mondo), tutte le nostre attività, da quelle legate al rapporto con la natura e con gli altri esseri viventi, alla conoscenza e alla cultura, al lavoro, alle attività ludiche e ricreative, alla produzione e fruizione dell’arte, ecc.»

78 La cura di sé è «autoanalisi e riflessione su di sé esercitata dal soggetto stesso, ma che lo fa reclamando tra io e sé una serie di pratiche che oggettivano questa presa- in-cura e la riattivano. (La cura sui produce autoformazione cercando di rendere il soggetto più consapevole e controllato. E’ dialogo-con-se-stessi: costante, aperto, sempre rinnovato e capace di farsi habitus del soggetto stesso.

79 La cura di sé si caratterizza come educazione interiore autogestita
La cura di sé si caratterizza come educazione interiore autogestita. Siamo, così, davanti al modello più complesso, sfumato e sfuggente (al tempo stesso) della cura: più instabile, più incerto, ma anche il più alto poiché viene a gestire proprio l’interiorità dell’io»

80 La cura di sé, nell’universo giovanile, può così attivare quelle pratiche di gestione delle emozioni volta al recupero di quell’equilibrio tra io e mondo necessario a superare i momenti di crisi. Cura sui e momenti di crisi non devono essere interpretate come due dimensioni antitetiche;

81 la cura di sé, al contrario, può porsi come quella prospettiva regolativa in grado di gettare una luce nuova sul concetto di crisi, non più vissuto come un momento de-costruttivo ma, anzi, come un momento di ri-appellazione alla coscienza e di riposizionamento in termini esistenziali. Ogni crisi vissuta in maniera consapevole, rimanda sempre ad una sorta di «nascita psicologica» in grado di potenziare i sentimenti e le emozioni, dando loro una forma che possa inserire sentimenti ed emozioni in una rete di valori

82 La scuola, scrive Laneve, è chiamata a contribuire alla crescita culturale dei giovani nella società almeno in tre modi: trasmettendo loro le conoscenze generali e astratte (istruzione), scoprendo attitudini e vocazioni per lo sviluppo delle attività pratiche da spendere nel mondo del lavoro (formazione), ma anche attestando un corpus di valori e criteri di condotta che normano la collettività e la riuscita umana di ciascuno (educazione)

83 In una problematica temperie culturale come quella attuale, per valorizzare l’educazione e la comunicazione è necessario partire da una riflessione attenta sulla società connessa proprio perché la comunicazione e l’educazione rappresentano, oggi, ciò che permette alle collettività di rappresentarsi, di relazionarsi e di agire sul mondo

84 Scrive Hannah Arendt: l’educazione è il momento che decide se noi amiamo abbastanza il mondo da assumercene la responsabilità e salvarlo così dalla rovina che è inevitabile senza il rinnovamento, senza l’arrivo dei giovani. Nell’educazione si decide anche se noi amiamo tanto i nostri figli da non estrometterli dal nostro mondo lasciandoli in balia di se stessi, se li amiamo tanto da non strappargli di mano la loro occasione d’intraprendere qualcosa di nuovo, qualcosa d’imprevedibile per noi; e prepararli invece al compito di rinnovare un mondo che sarà comune a tutti


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