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4. Economia, società e cambiamento urbano

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Presentazione sul tema: "4. Economia, società e cambiamento urbano"— Transcript della presentazione:

1 4. Economia, società e cambiamento urbano

2 4.1. L'economia e la città L’economia rappresenta uno dei campi fondativi degli studi sulla città, soprattutto in ragione dei vantaggi determinati dai fenomeni di concentrazione (di funzioni, di strutture, di forme) e di centralità territoriale propri del fatto urbano. Le vocazioni centrali delle attività economiche corrispondono alle condizioni di vantaggio (sia in termini di minori costi, sia di maggiori profitti) che si determinano nella localizzazione in spazi centrali e a forte densità (Camagni, 1992). Tutti i settori economici mostrano una relazione privilegiata con gli spazi urbani: il primario (le attività agricole per le quali la città è soprattutto mercato); il secondario (le attività industriali la cui localizzazione urbana è causa di vantaggio in sé); il terziario (il settore dei servizi, per eccellenza urbano).

3 Città e funzioni economiche
E, d’altra parte, fin dai primi studi di geografia urbana, le città sono state definite (anche) in ragione delle loro funzioni economiche: industriali, minerarie, rurali, portuali, commerciali, turistiche ecc. L’attività principale svolta nell’ambito urbano, quella in grado di produrre maggiore ricchezza e reddito, sintetizzava in un solo termine il carattere della città, il suo ambiente, le regole sociali, le forme urbanistiche, le pratiche culturali, le dinamiche politiche di governo. Un approccio descrittivo, più che determinista, che assegnava i significati di una parte (proprio perché preponderante) del corpo cittadino al tutto urbano (Pierotti, 1993).

4 Sviluppo industriale e crescita urbana
Le interrelazioni tra lo sviluppo economico industriale e quello urbano sono state così intense e originali, in una fase della storia economica, che i due fenomeni possono considerarsi paralleli e reciproci: «il fatto che si possa applicare lo stesso sostantivo [sviluppo N.d.R.] ai due fenomeni lascia intravedere l’intensità dei legami che li uniscono». Del resto, come ritiene Harvey «l’urbano ha nel modo di produzione capitalistico un significato specifico» (1998, p. 78) come «infrastruttura materiale per la produzione, la circolazione, lo scambio e il consumo» (p. 92). La città funge da struttura di accessibilità, di disponibilità, di capacità di accumulo, di produzione di valore e plus-valore; di riproduzione e diffusione della conoscenza per l’economia della produzione e, parallelamente, è luogo privilegiato per il consumo (da una parte) e per la riproduzione della forza lavoro (dall’altro).

5 Per gli economisti, marxisti soprattutto ma non solo, la città
risponde prima di tutto, alle esigenze della lotta che gli uomini conducono contro la povertà, esigenze d’essenza economica alla base, che si traducono nello spazio geografico attraverso l’organizzazione degli scambi e delle prossimità, l’affrancamento delle distanze e la concentrazione in luoghi che permettono la creazione di economie di scala o di agglomerazione, poiché l’essenza dell’urbano risiede nella sua capacità privilegiata di produzione e distribuzione continua di conoscenze e di informazioni, bene economico per il quale la città svolge il ruolo di commutatore centrale (Racine, 1996, p. 202).

6 L’ambiente urbano compone un mosaico nel quale si muovono parti di due grandi insiemi interdipendenti: da una parte, i fattori di localizzazione delle attività economiche e, dall’altra, le comunità, le classi, i gruppi, gli attori sociali che operano direttamente o indirettamente in tali attività. Nelle geografie economico-funzionali e economico-sociali della città si formano, così, zone urbane differenziate in ragione, ad esempio: dell’uso del suolo urbano (aree produttive, commerciali, residenziali ecc.); della concentrazione di attività (Central Business Districts, Zone Industriali, distretti della distribuzione o del loisir, aree di innovazione e design ecc.); dei valori dei suoli e degli edifici (alta o bassa rendita fondiaria e immobiliare); della densità di sfruttamento volumetrico dei suoli (zone di espansione orizzontale o verticale); del livello dei redditi degli abitanti (aree popolari, residenziali, gated communities, bidonville ecc.); della provenienza etnica o dell’appartenenza a comunità sociali e culturali (quartieri d’immigrati, rioni gay, Little Italy, quartieri dell’ortodossia religiosa ecc.); delle pratiche aggregative “dal basso” (luoghi di innovazione e cambiamento sociale, centri sociali ecc.); delle classi d’età e di fertilità della popolazione (aree in crescita, quartieri di anziani o di famiglie giovani ecc.).

7 Tradizionalmente, ad esempio, la città europea presenta nel suo centro i valori immobiliari più elevati, di densità, di rendita, di concentrazione di attività di prestigio e delle popolazioni più anziane. Nelle città statunitensi, come generalmente in America Latina, Africa e Oceania, tale geografia si differenzia per una maggiore diffusione periferica delle attività di pregio, di quartieri residenziali di alto reddito, di zone commerciali e di uffici marginali e della concentrazione di volumi e alte densità nelle downtown.

8 Negli ultimi decenni del XX secolo la terziarizzazione dell’economia, il decentramento funzionale, la delocalizzazione delle produzioni, l’internazionalizzazione e la globalizzazione dei mercati, la crescita della finanza come settore strategico, le innovazioni tecnologiche e della comunicazione, come altri fenomeni d’ordine globale, hanno prodotto importanti ricadute sia negli spazi interni alle città, sia nelle dinamiche d’interazione tra le città (cfr. par. 4.4.). Ciò ha modificato la tradizionale distribuzione spaziale di rendite e valori tra centro e periferie, in particolare in Europa (cfr. cap. 3).

9 Cambiano le regole e le pratiche dell’economia (globale, locale, del post-sviluppo ecc.) come cambia l’approccio all’economia urbana che acquisisce nuovi quadri concettuali di analisi e di contesto. «Le economie urbane assumono forme di adattamento geografico differenti» (Burgel, 1993, p. 111) per assorbire sempre più gli stimoli e le spinte di «una economia-mondo sempre più mondiale» (Braudel, 1981, p. 76). Il mondo delle città diviene più prossimo (perché più facile da raggiungere); maggiormente diffuso (perché capillarmente innervato di relazioni e reti materiali, immateriali e veloci); più legato al contesto locale (perché le differenze sono più importanti delle similitudini) e, paradossalmente, più simile (perché ogni ambito urbano esprime condizioni reperibili in molti altri). Le aree urbane diventano contenitori multi-variabili nei quali si mescolano economie della comunicazione, dell’informazione, della socialità, della cultura o, perfino, del religioso del mondo globale, della realtà regionale, dell’esplosione del contesto locale. E assume maggiore ragione la questione posta da Roncayolo: «Cosa hanno di così specificatamente urbano certe attività, tanto che la loro presenza basterebbe a qualificare una città?» (1988, p. 25)

10 Economia dell’immateriale
L’economia dell’immateriale si innesta in nuove qualità urbane. La Dubai descritta da Mike Davis «sogno capitalista dopato con gli steroidi» pare esemplificativa di tale nuova rivoluzione urbana giunta all’ultimo stadio del capitalismo e luogo materiale dell’improbabile incontro tra ciò che è, solo apparentemente, senza rapporto. A Dubai si mescolano: il sogno e la realtà, la Torre Eiffel e i Giardini di Babilonia, i campi di lavoro e il lusso superlativo, il feudalesimo e la surmodernità. […] L’ultima borsa Vuitton e il burka, la cyberspeculazione e il canto del muezzin, il digiuno del Ramadan e i centri commerciali (che annunciano gli orari adatti a quel periodo dell’anno). A Dubai sembra che niente nel Corano, certamente meno che nella Bibbia (e nel Nuovo Testamento) o nella Torah, sia di natura tale da frenare l’esplosione dell’offerta di gadget, la moda dell’automobile di ultima generazione, le stravaganze della digitalizzazione per qualsiasi evento mediatico, il dispiegamento in cornucopie stracolme di cibi dei cinque continenti e i fuochi d’artificio interminabili del prêt-à-porter mondiale (Davis, 2007, p. 83).

11 La città contemporanea vive a velocità e geometrie differenti.
In essa si esprimono situazioni, mezzi, spazi, interessi, usi, «affettività e emozioni nei regimi di immagini costruite dall’uomo e dalla società, condizione che implica l’impossibilità di dicotomizzare ragione [economica N.d.R.] e immaginazione» (Ferreira Freitas, 1996, p. 10). All’interno e all’esterno della città si intrecciano flussi di economie del tecnologico e delle idee, dell’uso cosmopolita dello spazio, di relazioni a trame lunghe, di città contestualmente globali e locali.

12 4.2. Economia e società urbane: quadro interpretativo
Concentrazione spaziale E’ un fatto noto e accettato che gli uomini abbiano trovato «più vantaggioso ed efficiente gestire i propri rapporti personali, sociali, economici e di potere in modo spazialmente concentrato» (Camagni). Ma non è altrettanto noto che il contesto territoriale, in cui una determinata impresa si localizza e opera, è un elemento discriminante per la capacità di produrre innovazione e competitività. Non si tratta di capire perché lo sviluppo economico sia più o meno presente in una determinata area, bensì in che misura la dimensione spaziale sia in grado di condizionare il concreto sviluppo di quell’area.

13 Rispetto a questa seconda affermazione appare emblematico il dato relativo non tanto alla nascita di nuove imprese, quanto «alla sopravvivenza e alla capacità di concorrere, di internazionalizzarsi, di innovare continuamente» (Camagni, 2004, p. 1). In questa direzione, le aree metropolitane sembrano svolgere un ruolo chiave sia nelle fasi di sviluppo economico sia in quelle di crisi riportando anche, con maggiore evidenza, i segni materiali della ciclicità economica. Con riferimento all’Italia, nel secondo dopoguerra alcune regioni, Piemonte, Lombardia, Liguria, e in particolare i loro sistemi urbani vertici del cosiddetto “Triangolo industriale”, abbiano avuto un ruolo di traino nei processi di crescita e di sviluppo di imprenditorialità di piccole e grandi dimensioni, fondandosi proprio sulle economie di agglomerazione e sulla domanda di innovazione.

14 Nei 70: “Triangolo industriale” è in crisi, così come molte altre aree metropolitane italiane ed europee che rallentano, laddove non arrestano, il loro sviluppo. Durante gli anni Ottanta, le città ritornano prepotentemente alla ribalta, con lo sviluppo del terziario avanzato e del quaternario (direzionalità, commercializzazione, attività di consulenza in marketing, tecnologia e finanza ecc.), ma anche con crescenti disuguaglianze sociali e conseguenti frammentazioni territoriali.

15 Vantaggi e svantaggi economici e sociali
Il disequilibrio nella distribuzione geografica delle risorse e delle attività rappresenta tradizionalmente un tema di fondo Il territorio è fonte di vantaggi e svantaggi di natura economica, ma anche e conseguentemente di natura sociale. «I grandi principi di organizzazione territoriale ci consentono di rispondere ad alcune domande fondamentali sulla natura, la struttura, le leggi di movimento della città»: il principio di agglomerazione (perché esiste la città?); il principio di accessibilità o della competizione spaziale (dove nella città?, in quale città?); il principio d'interazione spaziale o della domanda di mobilità e di contatti (come nella città?), il principio di gerarchia (che cosa nella città? quali rapporti fra città di diversa dimensione?).

16 Si tratta di domande e principi che nascono nell’alveo delle teorie classiche di organizzazione dei sistemi economici sia in termini problematici quanto metodologici. Le teorie: marshalliana, di efficienza statica e di ottimale allocazione delle risorse; schumpeteriana, di efficienza dinamica e di vantaggio competitivo raggiunto attraverso processi innovativi; marxiana, del potere e del controllo economico delle risorse. Questi tre approcci offrono importanti esplicazioni della distribuzione delle attività e sugli indirizzi dell’evoluzione economica ma, in particolare, quello marshalliano ha rappresentato un filone interpretativo di grande impatto negli studi urbani come, anche, nelle applicazioni delle politiche di sviluppo territoriale. Proprio nell’alveo dei concetti e degli elementi dell’efficienza localizzativa di impianto marshalliano (e di alcune sue articolazioni) è possibile individuare una delle caratterizzazioni più forti della città, costituita da quei vantaggi, in termini di risparmi, che derivano dalla concentrazione in un luogo o dalla loro prossimità.

17 Il concetto di agglomerazione ha un ruolo fondativo nella geografia economica e in alcuni settori dell’economia (segnatamente l’economia regionale e l’economia urbana) in quanto si colloca alla base dell’interpretazione della distribuzione territoriale delle attività economiche (Conti, 1996, p. 31). La teoria ci dice che, storicamente, in uno spazio urbano concentrato si determinano economie di scala che consentono di sviluppare vantaggi di varia natura e di realizzare processi produttivi più efficienti che si aggregano attorno a poli di agglomerazione.

18 Economie di agglomerazione
I vantaggi di una struttura urbana si definiscono come economie di agglomerazione (di tipo statico) e sono state tradizionalmente classificate in modo tripartito: economie interne all’impresa: economie di scala, concentrazione spaziale della produzione e delle aree di mercato; economie esterne all’impresa, ma interne all’industria o al settore produttivo: economie di localizzazione; economie esterne sia all’impresa sia all’industria: economie di urbanizzazione.

19 Già Marshall nel 1890 nei Principles of Economics sosteneva esplicitamente che
possiamo dividere le economie che provengono da un aumento della scala di produzione di ogni specie di beni, in due classi: in primo luogo quelle che dipendono dallo sviluppo generale dell’industria, e in secondo luogo, quelle che dipendono dalle risorse delle singole imprese impegnate in quella produzione, dalla loro organizzazione e dall’efficienza del loro management. Chiameremo le prime economie esterne e le seconde economie interne (1920, p. 221).

20 Le economie interne all’impresa sono dunque piuttosto semplici, e nel complesso ben note: il costo unitario del prodotto diminuisce all’aumentare della produzione. Mentre nelle imprese le economie interne di scala favoriscono la crescita dimensionale dei volumi prodotti nello stesso luogo, quelle esterne favoriscono invece la concentrazione nello stesso territorio di imprese e attività diverse.

21 Le economie esterne (di localizzazione) sono invece rappresentate da quei vantaggi connessi alla concentrazione di attività simili o che partecipano allo stesso processo produttivo, che si realizzano quanto più c’è vicinanza geografica, prossimità di imprese, e favoriscono l’aumento delle relazioni e degli scambi reciproci (rapporti face-to-face), come avviene ad esempio in molte zone italiane specializzate in un certo settore, dove le imprese condividono il territorio come distretto qualificato.

22 L’individuazione delle cause che determinano le economie di localizzazione è da attribuire a Marshall e al suo riferimento all’atmosfera industriale di un distretto: i misteri dell'industria non sono più tali; è come se stessero nell'aria, e i fanciulli ne apprendono molti senza accorgersene. Il lavoro ben fatto viene apprezzato, i meriti delle invenzioni e dei perfezionamenti delle macchine, nei processi e nell'organizzazione generale dell'impresa sono prontamente discussi; se un uomo formula un'idea nuova, questa viene accolta da altri e coordinata con i loro suggerimenti, dando così origine ad altre idee nuove (1920, p. 225).

23 Marshall ha indicato tre possibili spiegazioni alla base delle economie di localizzazione:
(1) la presenza di vantaggi dovuti all’esistenza di un bacino di manodopera specializzata (labor market pooling); (2) la presenza nell’area di fornitori di input specializzati (input sharing) e (3) lo scambio di conoscenza e di informazioni tra gli imprenditori facilitato dalla prossimità fisica delle imprese localizzate nel distretto (knowledge spillover).

24 In questo senso le economie di localizzazione riguardano principalmente:
la possibilità del costituirsi di processi di specializzazione fra imprese all’interno del ciclo produttivo settoriale complessivo, aumentando l’efficienza, determinando la diminuzione dei costi e la crescita dei profitti (economie pecuniarie); la riduzione dei costi di transazione all’interno dell’area e fra le diverse unità produttive grazie alla prossimità e la conseguente intensità dei rapporti (economie transazionali) (Storper, 1997); la formazione di un bacino di manodopera specializzata che ne aumenta la produttività (economie di apprendimento); la formazione e la condivisione di una serie di servizi tra cui quelli che ne migliorano l’immagine (economie di valorizzazione); la creazione di una cultura industriale diffusa con un incremento della capacità innovativa dell’intero sistema (economie dinamiche).

25 E’ interessante osservare che la maggior parte degli approcci più recenti alla questione della localizzazione geografica delle imprese ha fatto riferimento, in modo predominante, se non addirittura unico, proprio all’atmosfera industriale (Breschi, 2000). Dal punto di vista concettuale, l’ipotesi più accreditata e diffusa è che le esternalità di conoscenza presentino un forte carattere localizzato garantito dalla prossimità spaziale, che facilita lo scambio e l’acquisizione di know-how complesso. Le forme di conoscenza più semplici possono essere veicolabili anche in modo impersonale; quelle complesse sono trasmissibili più efficacemente soprattutto in modo tacito, attraverso contatti faccia a faccia ed esperienze dirette.

26 Infine, le economie di urbanizzazione sono legate al tipo di insediamento che si qualifica come “urbano”, ovvero dotato di infrastrutture, di “capitale fisso sociale”, fornite dall’ente pubblico o comunque di tipo collettivo. Queste economie nascono a seguito: della concentrazione nella città dell’intervento pubblico sia sul versante dei consumi che degli investimenti connessi all’infrastrutturazione del territorio (i sistemi di trasporto per merci e persone, i sistemi di comunicazione e informazione ecc.); della natura di mercato della città, con risparmi nei costi di trasporto e di transazione e con nicchie di specializzazione efficienti; del fatto che la città è incubatrice di fattori produttivi e mercato delle risorse: la formazione universitaria e la ricerca; il lavoro altamente qualificato, ampio e flessibile; le capacità decisionali e gestionali; i servizi alle imprese e i servizi di trasporto a lunga distanza; i servizi commerciali e finanziari; le economie di comunicazione e informazione attraverso infrastrutture avanzate ecc.

27 Esempio: semplice di tale tipo di infrastrutture può essere un sistema efficiente di trasporti collettivi (metropolitana) mentre, in termini più complessi, possiamo pensare al ruolo del capitale fisso sociale (la rete viaria), alla connettività dell’area con l’esterno (l’aeroporto), all’infrastrutturazione diffusa del territorio ecc. Nel quadro delle economie di urbanizzazione, si inseriscono anche attività altamente specializzate, o di nicchia (produzioni, commerci, servizi), che sarebbero impensabili in un ambiente meno denso e ricco in termini di domanda e potenziale mercato. Economie di consumo La città, dunque, oltre che generatrice di economie di agglomerazione per le imprese, diventa fonte di economie di consumo per le famiglie, grazie alla presenza di: servizi pubblici sviluppati ed efficienti: istruzione, sanità, trasporti, strutture sociali ecc.; servizi privati avanzati e diversificati: cultura, ricreazione ecc.; vantaggi e opportunità derivanti dalla varietà: libertà di scelta di lavoro, residenza, acquisti, gestione del tempo libero ecc.

28 Con l’aumento delle economie di agglomerazione, le economie esterne possono crescere ulteriormente portando all’autoalimentazione del meccanismo agglomerativo Tali meccanismi si sono verificati nelle principali città industriali italiane (Torino e Milano) e recentemente nelle cosiddette “città globali”, dove l’agglomerazione riguarda i servizi più qualificati e le attività direzionali dell’economia mondiale. In termini teorici, il ragionamento sulle economie di agglomerazione porterebbe a considerare l’espansione urbana come inarrestabile: tutte le città dovrebbero, prima o poi, diventare enormi megalopoli. Tale ipotesi, oltre che palesemente irrealizzabile, è paradossale anche dal punto di vista economico: oltre una certa soglia, s’instaurano rendimenti decrescenti della dimensione urbana.

29 Diseconomie di agglomerazione
Quando una localizzazione si presenta svantaggiosa per le imprese o per gli abitanti, le economie si trasformano in diseconomie di agglomerazione e i servizi urbani presentano costi medi via via maggiori col crescere della dimensione della città. Si tratta della crescita dei costi localizzativi determinata, ad esempio, dalla sovra specializzazione, dalla congestione della rete di trasporti, dall’aumento dell’inquinamento e della criminalità ecc. Ma le diseconomie riguardano anche le rendite urbane, cioè l’aumento dei prezzi di mercato di immobile e suoli.

30 Tra gli studiosi esiste, dunque, un generale consenso attorno al fatto che i vantaggi agglomerativi diminuiscano o addirittura vengano meno nel momento in cui si superi una certa dimensione urbana. Ciò detto, le molte analisi svolte per individuare le dimensioni critiche della città si sono rivelate limitate nei risultati raggiunti rappresentando, per lo più, formalizzazioni concettuali. Dimensione ottimale di città Oggi si propende, più che all’individuazione di una dimensione ottimale di città, al riconoscimento di un intervallo di dimensioni efficienti. Questo modello tuttavia deve fare i conti con il rango occupato dalla città nella gerarchia urbana (singola città, sistema regionale, rete di città). la dimensione massima varia con il variare delle funzioni ricoperte dal sistema urbano rispetto al resto del territorio determinando «l’individualità dei singoli luoghi e il loro grado di importanza, ossia le gerarchie dei luoghi» (Nice, 1987, pp ).

31 Nonostante le economie esterne - di localizzazione e di urbanizzazione - non siano merci direttamente vendibili, tuttavia il mercato in qualche modo stabilisce un prezzo a chi le utilizza. Il suolo presenta un valore di mercato diverso a seconda della sua posizione (valore di posizione) e non direttamente dipendente dalle sue caratteristiche e condizioni naturali (morfologia, fertilità, esposizione climatica ecc.): «in tal modo le economie esterne vengono indirettamente vendute e comprate attraverso il mercato del suolo» (Dematteis, 2010a, p. 10).

32 Rendita urbana La rendita rappresenta quindi ciò che ricava il proprietario di un suolo, indipendentemente dal suo uso. Per esempio, nelle agglomerazioni il valore di posizione, come reddito del proprietario del suolo, viene chiamato rendita urbana. Quest’ultima nasce con l’avvento della Rivoluzione industriale, quando i terreni e gli edifici all’interno delle città cominciano ad essere richiesti in maniera sempre più massiccia a causa della crescente urbanizzazione di manodopera proveniente dalle campagne, prima, e da altre regioni e paesi successivamente. Tale rendita diventa fattore di diversificazione, e elemento di speculazione, soprattutto dopo la fine del secondo conflitto mondiale, quando nelle città il cambiamento delle destinazioni d’uso del suolo si traduce in un diverso valore dei terreni. Essendo la domanda di suoli tendenzialmente sempre in crescita (anche per la loro scarsità) i prezzi tendono a crescere. La rendita è tuttavia connessa alla dinamica delle preferenze localizzative delle imprese e delle famiglie.

33 E’ importante comprendere che la rendita urbana è ineliminabile:
essa infatti corrisponde alla controparte in termini di valore dei vantaggi localizzativi offerti da ciascuna porzione di suolo urbano. In conseguenza, essa è indipendente dal regime di proprietà dei suoli, anche se cambiano le modalità della sua appropriazione (utilità individuali o rendita burocratica di chi è addetto alla allocazione delle risorse territoriali: in entrambi i casi, essa è facilmente monetizzabile, a fronte, appunto, dei vantaggi localizzativi) (Camagni, 1992). Un’anomalia è rappresentata dal fatto che nella rendita urbana il proprietario può trarre maggiori ricavi grazie, ad esempio, ai vantaggi di posizione determinati da opere di infrastrutturazione urbana (di solito legati all’accessibilità). Dunque, la rendita fondiaria è creata a partire dagli investimenti pubblici, dalla pianificazione e da quello che gli economisti classici chiamavano lo “sviluppo generale della società”.

34 In genere, si procede alla tassazione della rendita fondiaria in presenza di trasformazioni, cioè allorché si manifesta (e il privato si appropria di) una differenza fra rendita potenziale e rendita attuale: per processi di riqualificazione del centro storico; per effetto della predisposizione di nuovi beni pubblici (musei, stazioni ecc.); per la rifunzionalizzazione di aree industriali dismesse e la rigenerazione di quartieri degradati; per l’urbanizzazione di aree periurbane. Proprio in questo senso, si chiede al privato di partecipare ai nuovi costi pubblici che derivano dalle trasformazioni (oneri di urbanizzazione) o agli investimenti pubblici che valorizzerebbero il patrimonio privato o, ancora, ai costi di manutenzione della città.

35 Valori del suolo urbano
Ipotizzando che lo spazio urbano sia omogeneo e isotropo, dunque l’unica variabile sia la distanza, il valore del suolo assumerebbe un andamento crescente dalla periferia verso il centro. In realtà, lo spazio urbano non si presenta mai come isotropo e le scelte localizzative rispondono di più elementi. L’andamento dei valori del suolo è determinato, dalla distanza, in ragione dell’accessibilità dal fatto che in generale i centri (storici) o i Central business districts rappresentano aree più appetibili per le attività di servizio e commerciali che necessitano di maggiore visibilità. L’offerta di spazi centrali, inoltre, è limitata e il prezzo elevato; allontanandosi dal centro il rapporto tra domanda e offerta tende ad essere meno squilibrato e i prezzi più contenuti. In questo modo si viene a creare una «geografia dei valori del suolo e degli immobili (in termini economici una geografia della rendita urbana) modellata sull’accessibilità» (Dematteis, 2010b, p. 235)

36 Il valore di posizione cambia dunque a seconda dell’accessibilità:
i grandi assi di comunicazione viaria configurano aree particolarmente vantaggiose per determinate specializzazioni funzionali (commercio, uffici, residenze ecc.). Il valore del suolo, infine, cambia anche in ragione delle condizioni e dell’attrattività di determinate aree o quartieri (a seconda del tipo di domanda, del cambiamento delle condizioni culturali e sociali, di cicli economici ecc.). Alcune aree potranno essere più appetibili per le condizioni ambientali, quali presenza di aree verdi (parchi, colline, corsi fluviali, coste marine ecc.), altre per un patrimonio storico-architettonico particolarmente rilevante, ma al contrario altre ancora potranno presentare condizioni negative, di degrado fisico (vecchi quartieri), sociale (aree del disagio e della marginalità) o ambientale (aree particolarmente inquinate vicine a vecchi stabilimenti industriali).

37 4.3. Interpretare i mutamenti: economia, territorio e società
Industrializzazione e urbanizzazione L’industria è stata per oltre due secoli il motore dello sviluppo urbano. L’influenza reciproca tra industria e città si palesa soprattutto nel passaggio dalla fase in cui la produttività dipendeva principalmente da condizioni localizzate territorialmente (per esempio, determinate dalla disponibilità di risorse idrico-energetiche), a quella in cui le condizioni dello sviluppo economico coincidono sempre più con elementi interni e esterni all’impresa, particolarmente vantaggiosi nei centri urbani (i.e. economie di scala, di localizzazione e di urbanizzazione). Tale passaggio avviene in epoche successive e anche molto distanti tra loro con un “contagio” che, dalle realtà originarie (Inghilterra, Stati Uniti), si espande nel continente europeo ma anche altrove (Giappone) tra le due guerre e fino agli anni Settanta.

38 Modello fordista Dai primi decenni del Novecento, il modello industriale di tipo fordista radicalizza questa equazione diretta tra crescita industriale e sviluppo urbano e che diverrà col tempo un paradigma nelle politiche economiche, nella regolazione sociale, nella pianificazione territoriale e urbanistica. Ciò vale tanto per le città che vivono a pieno l’industrializzazione come per quelle che, pur non avendo industrie o avendone meno, risentono «indirettamente dell’aria economica del tempo» (Bagnasco, 1994, p. 68).

39 L’intensa urbanizzazione e l’industrializzazione massiccia, e la conseguente ripresa generale delle economie nazionali, innescano soprattutto nel dopoguerra fasi di boom economico e di relativa diffusione del benessere. Tali fasi sono contestuali a una riconfigurazione generale della struttura urbana: «spesso, e in tutti i paesi, avviare e sostenere lo sviluppo industriale ha significato tempi duri per la città» (ibid.). Per il vero, in ogni singola realtà nazionale, il modello industrialista ha avuto proprie e distinte tipologie di applicazione, in virtù della storia, delle congiunture politiche e sociali, della maturazione economico-finanziaria, degli schemi e dei patrimoni culturali.

40 Bagnasco definisce il fordismo come
un sistema orientato alla produzione di massa di beni standardizzati, basato sulla grande concentrazione industriale, su investimenti per addetto non particolarmente elevati, e su una rigida divisione del lavoro, che comporta capacità di progettazione e organizzazione, ma anche alto tasso di mansioni dequalificate (1990, p. 14). Più tecnicamente, con il termine fordismo si usa indicare una peculiare forma di produzione basata principalmente sulla catena di montaggio (assembly-line) al fine di incrementare la produttività. Tale tipo di produzione è stato realizzato a partire dal 1913 dall'industriale statunitense Henry Ford (ispirato dalle teorie del connazionale Frederick Taylor) che «introdusse la giornata di lavoro di 8 ore a 5 dollari per gli operai della catena di montaggio […] a Dearborn nel Michigan» (Harvey, 1993, p. 157). Questa trasformazione produce effetti molteplici: la standardizzazione dei prodotti; la scomposizione del ciclo produttivo in fasi, la specializzazione di parti dell’impresa in operazioni e segmenti anche indipendenti tra loro; la suddivisione dei compiti e delle mansioni dei lavoratori; il collegamento gerarchico e verticalmente integrato fra le fasi del ciclo produttivo.

41 Cambiamenti nella geografia delle città
Tale trasformazione comporta lo stravolgimento degli equilibri nella geografia delle città quanto in quella della città. Sul piano inter-urbano, la formazione di nuove gerarchie territoriali, in cui emergono i centri propulsori dello sviluppo delle economie nazionali, esplicita il passaggio da forme spaziali più omogenee ad altre decisamente polarizzate intorno ai principali nodi delle economie avanzate. Sul piano dell’elaborazione del pensiero economico, tali novità conducono al superamento della ricerca dell’equilibrio di mercato e della concorrenza perfetta per dare vita a rapporti di forza fra territori, determinati dalla distribuzione diseguale dei fattori di sviluppo. Condizione che facilita l’idea di una “singolarità” di ogni area urbana (e delle aree su essa gravitanti) rispetto alle altre.

42 Poli di sviluppo Infatti, nelle scienze spaziali, la teoria perroussiana dei poli industriali (Perroux, 1955; 1960) interpreta i vantaggi determinati dalla costituzione di reti urbane fortemente gerarchizzate, polarizzate attorno a grandi città industriali. Secondo Perroux, lo sviluppo economico non avviene in ogni luogo nella stessa misura, ma ha origine in pochi punti del territorio, i cosiddetti poli di crescita, dai quali si propaga in modo diverso, coinvolgendo aree differenti dello spazio. Tali poli corrispondono agli agglomerati industriali che possono (o dovrebbero) trainare un’intera economia, grazie all’effetto moltiplicatore che le industrie motrici hanno nei confronti delle altre attività.

43 Esperienza italiana Questa teoria influenzò le politiche e le scelte strategiche dell’Italia degli anni Cinquanta/Sessanta e spinse verso la capacità attrattiva dei poli urbani dell’industrializzazione nazionale: concentrando gli investimenti dapprima nelle aree urbane del Nord, già industrializzate, e poi cercando di promuovere processi imitativi anche nelle città del resto della penisola (Coppola, 1992). In ragione dei tassi di crescita e di espansione dei vertici urbani del “Triangolo industriale”, lungo gli anni Sessanta e Settanta altre città (i.e. Napoli, Palermo) hanno vissuto fasi di industrializzazione “forzata” - tardive quanto immature - che non hanno prodotto effettive stabilizzazioni dello sviluppo territoriale.

44 Cambiamenti nella geografia della città
Con più agevole evidenza empirica, le modificazioni indotte dal fordismo si palesano sul piano intra-urbano in maniera ancor più dirompente, producendo nelle città «uno stravolgimento spontaneo che pare derivare da un cataclisma naturale incontrollabile» (Choay, 2006, p. 169). Le città divengono contenitori spaziali sempre più complessi formalmente e strutturalmente, trovandosi a gestire tutta una serie di rimodulazioni d’ordine territoriale: riposizionamento delle strategie economiche (ad esempio investimenti tendenti a favorire la localizzazione industriale in ambito urbano) e l’asservimento del territorio (spazio uniforme e astratto) a supporto della crescita dell’economia urbana industriale; rivolgimento delle condizioni socio-politiche (ad esempio attraverso la composizione di una classe proletaria urbana sempre più forte e di un sottoproletariato ancor più gravato di problemi e rivendicazioni); la formazione di comunità “meticciate”, di inusitate dimensioni socio-culturali, di migranti nazionali (dal Mezzogiorno al Nord Italia) e internazionali (Maghrebini in Francia o Turchi e Italiani in Germania); l’espansione della città a macchia d’olio con fenomeni di conurbazione (continua e progressiva addizione di insediamenti produttivi e residenziali intorno all’edificato o lungo le direttrici viabili) legata alla forte crescita demografica urbana indotta dai fenomeni migratori; la ri-territorializzione di uno spazio gravitante sulle città via via più vasto, che indebolisce la diversificazione territoriale (i.e. cascine, i piccoli comuni rurali che si trasformano in periferie urbane) in un processo di “metropolizzazione” e strutturazione di un “tutto omogeneo”; la complessificazione delle problematiche urbane (la casa, i trasporti, i servizi sociali in genere per aree urbane che crescono a ritmi accelerati); l’emersione di nuovi comportamenti sociali omologati legati al consumo di massa che trasforma i cittadini in una folla solitaria (Riesman, 1956), un universo indistinto di consumatori «avvertiti dalla pubblicità, qualche volta protetti dalle loro associazioni in quanto consumatori» mentre le città, a loro volta, «crescono sempre più come empori» (Bagnasco, 1994, p. 69).

45 4.3.2. La one company town italiana e la società fordista urbana
Torino città fordista Torino è un esempio tipico di città industriale del fordismo riproducendo molte delle condizioni sopra elencate e determinatesi in virtù della presenza della Fiat, la maggiore impresa italiana che fa della città la one company town per eccellenza. Per tanti versi città italiana atipica, Torino è più simile forse alle grandi conurbazioni industriali del Centro e del Nord Europa. L’espansione dell’industria automobilistica segna nettamente i caratteri della città: la specializzazione monoculturale delle attività produttive ed il ruolo centrale della grande impresa nella vita non solo economica della città.

46 La fondazione della Fiat (Fabbrica Industriale Automobili Torino) nel 1899 segna, non solo simbolicamente, l’inizio della storia industriale di Torino e sancisce il riposizionamento della città una volta capitale politica (fino al 1865) nel ruolo di capitale dell’industria italiana. Nel periodo tra la Prima Guerra Mondiale e gli anni Sessanta, sono costruiti gli insediamenti produttivi dei due grandi stabilimenti Fiat. Il Lingotto (realizzato tra il 1915 e il 1926) segna l’adozione da parte della Fiat del modo di produzione fordista rappresentandone l’esempio più significativo. Il Lingotto imita lo stabilimento della Ford costruito a Highland Park nel E’ una fabbrica a struttura verticale di cinque piani. Però, mentre nello stabilimento Ford il flusso della produzione “scivolava” dall’alto verso il basso, in quello di Torino il flusso andava in salita: si partiva dal piano terra e poi i pezzi e le parti venivano portati nei piani superiori. Al quinto piano avveniva il montaggio finale. L’automobile veniva poi collaudata sulla pista sul tetto e successivamente scendeva a terra lungo le rampe elicoidali. Il Lingotto ben presto non fu più in grado di far fronte all’espansione della produzione. Nel 1936 iniziarono gli studi per la costruzione di nuovi impianti e nel 1939 venne inaugurato il nuovo stabilimento di Mirafiori Nord, “ad un solo piano” (cui seguirà l’ulteriore ampliamento di Mirafiori Sud nel dopoguerra). Il “mito” di Mirafiori, della fabbrica più grande e moderna d'Italia non nasce, come per il Lingotto, da un’architettura esemplare, ma dal gigantismo dei suoi numeri. Si tratta infatti di un’area di circa un milione di metri quadri, destinata alla produzione di autoveicoli e motori di aviazione e alla fusione dei metalli, in grado di accogliere operai (una concentrazione allora unica in Italia, tale da suscitare le perplessità di Mussolini), fabbricati estesi su una lunghezza di cinquecento metri e una larghezza di settecento, sei chilometri di gallerie sotterranee, rifugi antiaerei per persone; intorno, undici chilometri di binari ferroviari e una pista di prova di oltre due chilometri (Berta, 1998).

47 Incremento demografico e trasformazione della forma urbana
Tra gli anni Cinquanta e Settanta la città richiama una manodopera non qualificata dal Sud Italia: nel 1961 si registra il più alto tasso di immigrazione, con nuovi arrivi. Nel 1951 la popolazione urbana conta circa 700 mila abitanti e nel 1971 supera il milione e 200 mila, facendo registrare un incremento del 70%. In venti anni la popolazione urbana raddoppia, con una progressione di circa abitanti in più all’anno. Nel corso degli anni Sessanta, la conurbazione torinese arriva ad ospitare circa la metà dell’intera popolazione piemontese. Come dice lo storico Castronovo all’inizio degli anni Sessanta più della metà della popolazione viveva direttamente del lavoro del gruppo Fiat, e consistenti frange di addetti alle attività terziarie, al commercio e ai servizi operavano ai margini dell’area economica alimentata dalla principale impresa motrice e dalle sue affiliate (1987, p. 364).

48 Le intense trasformazioni economiche e sociali che caratterizzano la crescita di Torino “città industriale” determinarono anche una profonda trasformazione nella forma urbana (Fig. 4.1.). La città cresce e l’espansione abbandona il modello “a scacchiera”, che trova le sue origini nell’impianto ortogonale romano che aveva guidato l’espansione della città fino ad allora. Si afferma un nuovo modello: la crescita avviene adesso per direttrici radiali e cerchi concentrici. L’abitato si sviluppa lungo le principali vie di fuoriuscita dalla città, oltre l’anello della cinta daziaria, dando origine ad alcune borgate extramoenia, come Borgo San Paolo o Barriera di Milano, che costituiscono i primi borghi operai (Governa, Rosignolo e Saccomani, 2008).

49 L’espansione urbana si realizza in maniera disordinata: gli spazi liberi sono progressivamente occupati, la realizzazione di impianti produttivi e di abitazioni avviene saturando progressivamente tutto lo spazio comunale e riversandosi poi sui comuni della prima e della seconda cintura, fino ad interessare in anni più recenti (ma per dinamiche in parte opposte) anche centri più lontani. La configurazione spaziale della conurbazione si presenta densa e compatta, esito della continua addizione di nuovi insediamenti sia intorno agli abitati preesistenti, sia soprattutto lungo le direttrici viarie. La forma assunta da tale crescita è quella di una agglomerazione a “macchia d’olio”, nella cui espansione si susseguono quartieri di edilizia economica e popolare, impianti industriali, barriere infrastrutturali, residenze private, servizi. Si forma così un’estesa periferia urbana che, partendo dal capoluogo, si estende ai comuni contermini, pur in presenza di subcentri dotati di relativa autonomia rispetto al polo torinese.

50 Tute blu e colletti bianchi
Durante gli anni della crescita fordista, la città risente in maniera netta di una distinzione tra la popolazione immigrata operaia e la popolazione locale impiegatizia. L’incremento demografico che si determina in questo periodo è comunque segnato da notevoli squilibri, con l’instaurarsi di una netta divisione tra la fascia, ristretta, della borghesia industriale e la grande massa degli operai. Se questa è, chiaramente, una schematizzazione, tuttavia «la stratificazione sociale della città è caratterizzata da una netta dicotomia borghesia-proletariato, con poche cose nel mezzo» (Bagnasco, 1986, p.41).

51 La città-fabbrica La società urbana del fordismo realizzato appare quasi come un’estensione del modello di fabbrica assumendo le qualità di una visione totale del mondo (Liguori e Voza, 2009). In un parallelismo, solo esemplificativo, le condizioni del lavoro in fabbrica componevano nuovi scenari urbani : il processo di standardizzazione banalizzava la specializzazione del lavoro e, nelle città, emergevano nuovi “quartieri dormitorio” per operai e sottoproletari massificati in ambienti omogenei quanto depersonalizzanti (tutti uguali, dappertutto); la catena di montaggio divideva strutturalmente gli operai (tute blu) dagli impiegati (colletti bianchi) separati, nello spazio urbano, nelle forme e nella sostanza, tra rioni proletari e quartieri piccolo o medio borghesi; le regole dell’economia di scala rafforzavano le ragioni del “grande è bello” e, a loro volta, le città crescevano geometricamente in una corsa al primato demografico assolta come una inevitabile taumaturgia del benessere legata alla taglia (gigantismo urbano).

52 Gli spazi urbani degli anni della crescita industriale rappresentano la forma realizzata di un modo di dire molto noto fin dal medioevo tedesco: «l’aria della città rende liberi» (Stadtluft macht frei) e la sua trasformazione contemporanea «l’aria della città facilita l’ascesa sociale» sostenuta da Paul Bairoch (1986, p. 440). L’urbano favorisce, più che la campagna, la mobilità sociale, sia orizzontale (migrare in città implica ipso facto un cambiamento di attività economica e, inoltre, la città offre infinite possibilità d’inserimento in altri ambiti lavorativi), sia verticale (se all’interno in un’impresa è possibile aspirare al passaggio da operaio a impiegato - sia pure in termini teorici più che realistici - a maggior ragione tale ipotesi sarà valida nelle dinamiche sociali).

53 Contraddizioni sociali
La società urbana del Novecento industriale esprime contraddizioni e bisogni (individuali e collettivi) tutti nuovi, materiali e immateriali: istruzione, trasporti, mobilità, casa, aggregazione, sicurezza, lavoro, sanità, futuro, ascesa, felicità ecc. Lefebvre ne elenca le origini antropologiche in una serie binaria: il bisogno di sicurezza e di apertura, il bisogno di certezza e il bisogno di avventura, quello dell’organizzazione del lavoro e quello di gioco, il bisogno di previsione e di imprevisto, d’unità e di differenza, di isolamento e di incontro, di scambio e di investimento, d’indipendenza (o di solitudine) e di comunicazione, d’immediatezza e di prospettive a lungo termine (1968, pp ).

54 Nella città strutturata dalle dinamiche del lavoro di fabbrica, si compongono alcuni ri-condizionamenti di natura sociale: i rapporti avvengono fra ruoli, non più fra persone; si tessono relazioni impersonali, gli “altri” sono mezzi; si formano mondi sociali giustapposti, uniti solo da routines condivise; si tollera e si accetta l’insicurezza e l’incertezza. Nel Novecento, in alcuni paesi prima in altri più tardi, tali condizioni assumono forme radicalizzate. Emergono spazi sociali differenziali che esasperano condizioni oppositive d’impersonalità e partecipazione, solitudine e comunitarismi, autonomia individuale e aggregazione sociale: chi arriva in città (e vi resta) vive uno sradicamento sociale che produce vicinanza e lontananza, indifferenza e impegno, distacco e coesione (Mongili, 2007). Gli elementi distintivi della produzione fordista corrispondono alla formazione di un corpo sociale piramidale per il quale sono chiare le distinzioni di compiti, di diritti e doveri, opportunità e comportamenti. E’ l’epopea dell’operaio Chaplin del film “Tempi moderni” (1936) che, alienato dalla ripetitività del lavoro (stringere contemporaneamente due bulloni), non riesce a dismettere il suo gesto-ruolo anche fuori dalla fabbrica, nella sua vita, nei suoi sogni e denuncia «l’asservimento degli uomini ai dogmi della produttività» (Durgnat, 1972, p. 67).

55 C’era la grande fabbrica con la catena di montaggio e l’operaio, «scimmia ammaestrata» che ripeteva, automaticamente e meccanicamente, il compito parcellizzato; c’era il mercato in espansione quantitativa, con il lavoro per tutta la vita e le identità professionali (e di conseguenza sociali) ben definite; la distinzione tra tempo di lavoro e tempo personale di vita era netta. […] Il paradigma fondamentale era la «macchina»: rigida, programmata, immutabile, composta di “pezzi” sostituibili a cui l’uomo doveva adeguarsi e tutto era dominato da un’epistemologia meccanicistica; il tipo di lavoro egemone era quello materiale e il prodotto merce ne era il frutto primario; dominavano le competenze tecniche e la trasmissione gerarchica dei saperi (Veronesi, 2009).

56 Il superamento del modello fordista
Negli ultimi decenni del Novecento, iniziano a prendere forma metodi di produzione innovativi che investono la solidità del modello fordista e l’insieme delle condizioni a questo connesse (sociali, politiche, economiche, spaziali, urbane ecc.). Il modello fordista, radicato nei paesi del mondo sviluppato ma ampiamente esportato in quelli detti in via di sviluppo, inizia a mostrarsi inadeguato con l’apparire di un concorso di novità riconducibili a tre grandi campi: delle tecnologie, dell’economia e delle dinamiche spaziali.

57 L’innovazione tecnologica
L’innovazione tecnologica investe soprattutto i settori dei trasporti e delle comunicazioni che acquisiscono in velocità, economicità e fruibilità grazie allo sviluppo della telematica, dell’informatizzazione, della comunicazione digitale. La possibilità di far viaggiare merci e informazioni in tempi e a costi ridotti, rappresenta una prima causa di sostanziale condizionamento d’ordine spaziale. La riduzione dei tempi di percorrenza, che arrivano per alcuni settori addirittura ad azzerarsi (il cosiddetto “tempo reale”) rende più “prossimi” anche spazi lontanissimi fino a pochi anni addietro e pone in discussione, di fatto, i vantaggi della concentrazione spaziale. Gradualmente, per quanto a velocità accelerata, sono favoriti: la localizzazione delle diverse fasi del ciclo produttivo in luoghi diversi, il processo di divisione internazionale del lavoro, la globalizzazione dei mercati, in primis quello finanziario.

58 L’integrazione aziendale
La crescente complessità e imprevedibilità dello scenario economico generale degli anni Settanta e Ottanta, rendono necessaria una profonda riorganizzazione delle attività economiche e l’esigenza di procedere all’integrazione aziendale. Questa si attua attraverso una triplice riconfigurazione: di tipo orizzontale, l’acquisizione da parte delle imprese maggiori di quelle minori che non reggono la competizione internazionale; di tipo verticale, l’acquisizione da parte delle imprese maggiori di imprese fornitrici o clienti; di tipo diagonale, l’acquisizione da parte delle imprese maggiori di imprese che operano in settori diversi.

59 diversi. La concentrazione e la centralizzazione delle imprese Nello scenario così riconfigurato si impongono la concentrazione e la centralizzazione dell’attività economica, fenomeni non implicano la concentrazione e la centralizzazione spaziale delle attività economiche se non per ciò che concerne le funzioni direzionali. La prima comporta l’eliminazione delle imprese più piccole e più deboli e la fusione delle grandi aziende operanti in settori differenti; la seconda promuove la nascita di gigantesche aziende “conglomerate” che operano spesso a livello multinazionale Knox e Agnew, (1996). In un mondo così facilmente interconnesso: la dimensione territoriale del sistema di produzione dipende dalla natura delle relazioni orizzontali tra gli attori, dalla loro inter-dipendenza e dal grado di autonomia dei processi decisionali e di elaborazione dei progetti (Maillat, 2007, p. 37).

60 In altri termini, ogni territorio finirà per approfittare o subire il sistema globale di produzione e lasciare emergere la propria ragione di vantaggio per la allocazione del capitale (produttivo o immateriale che sia). Tale interpretazione dei fatti territoriali di matrice economica, assegna alle riconfigurazioni di scenario globale i connotati di una vera rivoluzione, di una nuova epoca del tempo presente che, oltre ad annientare il mondo così com’eravamo abituati a considerarlo (fatto di fabbriche, di città e di società industriali, di scambi internazionali tra economie nazionali) sarebbe connotato da una flessibilizzazione generalizzata in ogni campo dell’organizzazione sociale.

61 Regolazionisti e flessibilità
Sarà la scuola regolazionista (Boyer, 2007) soprattutto di matrice francese, a individuare le principali caratteristiche di «un modello sociale il cui modo di produzione non è più dominato da forme di accumulazione verticalmente integrate e di distribuzione della ricchezza contrattate tra rappresentanze collettive e supervisionate dallo Stato, bensì da forme di accumulazione flessibili» (Harvey, 1993, p. 200). Se nel fordismo la società di massa rappresenta l’alveo del privilegio economico, nel suo ipotetico superamento: saperi e conoscenze immagazzinati nelle reti telematiche, non meno che la più comune cooperazione linguistica di uomini e donne, nel loro concreto agire, sono il tessuto connettivo grazie a cui si costituisce il "capitale sociale" delle società post-fordiste (Bagnasco, 1999, p. 70; Coleman, 1990; Putnam, 2000; Grootaert e Van Bastelaer, 2001).

62 Post-fordismo, post-industriale, post-moderno
Come sottolinea Mela (2006), mentre molti studiosi sono concordi nel sostenere che il fordismo abbia prodotto una rottura di continuità nei processi di sviluppo, diversa è la posizione rispetto all’interpretazione del nuovo modello socioeconomico per il quale più difficile appare una definizione univoca e condivisa. Alcuni parlano di epoca post-fordista (in termini di superamento di quel modello); altri di epoca post-industriale (come superamento della fase legata alla Rivoluzione industriale), altri ancora di epoca post-moderna (sottolineando la dimensione culturale piuttosto che quella socioeconomica). Ma spesso almeno i primi due termini vengono utilizzati come sinonimi.

63 In realtà, nessuna di queste tre formule, accomunate dal superamento di condizioni precedenti (post-fordismo, post-industiale, post-modernità), paiono in grado di esplicitare lo scenario complesso della contemporaneità economica e sociale. Esse permangono, ancora, come procedure analitico-nominative attraverso le quali si prova a esplicitare la “debolizzazione” delle norme che regolavano i rapporti economici, le dinamiche sociali, i processi territoriali entrati in crisi a partire dagli anni Settanta e soprattutto nei paesi ad economia avanzata. La saturazione dei mercati per beni standardizzati, l’affermazione di nuove economie industriali (soprattutto asiatiche), la crescente conflittualità sociale generalizzata e concentrata nelle aree urbane, la crescita del debito globale e le due successive crisi petrolifere che investirono, nel 1973 e nel 1979, i paesi occidentali mettono in crisi il modello fordista (Conti, 1996; Scott, 2001). Questo modello si mostra troppo rigido e ingessato per tenere il passo di un sistema economico e politico ricco di innovazioni e sempre più complesso. Si configura una fase di transizione dal fordismo caratterizzata dalla flessibilizzazione delle rigidità delle regole della produzione Bagnasco, 1990; Revelli, 1995; Rullani e Romano, 1998).

64 Molte letture, anche attente alla dimensione sociale e organizzativa d’epoca evidentemente post-fordista, finiscono col ribadire l’intima relazione fra tecnologia e società come carattere distintivo di questo nuovo modo di interpretare e rappresentare l’evoluzione e la trasformazione del mondo. Il digitale, l’innovazione, la flessibilità, hanno trasformato le basi materiali e immateriali dell’organizzazione sociale verso la conseguente e inevitabile valorizzazione di tutto ciò che è decentrato, orizzontale, reticolare, ridimensionato e diffuso (Revelli, 2001). Scompare, così, tutto ciò che aveva caratterizzato l’età di Ford: il gigantismo industriale, la concentrazione e la centralizzazione spaziale, la verticalità, la gerarchia, la separazione fra idea, azione, esecuzione e controllo. Nell’organizzazione dei sistemi produttivi si assiste a una riduzione degli spazi destinati allo stoccaggio dei manufatti, con la conseguente riduzione delle dimensioni degli stabilimenti, a un superamento della logica della concentrazione spaziale (cade il vincolo della distanza), a una drastica riduzione dei magazzini e alla delocalizzazione di segmenti produttivi, a una crescita di piccole e medie imprese vincolate alle economie di agglomerazione (i.e. distretti industriali).

65 Per le città, questo significa l’annullamento delle cause della crescita continua che aveva alimentato la stabilità precedente e l’innesco di processi che trasformano profondamente il sistema socio-economico urbano. La produzione industriale dei paesi occidentali si riduce e le città affrontano processi di deindustrializzazione e, da luogo di produzione, diventano prevalentemente luogo di servizi avanzati e del comando. Organizzazione flessibile Difatti l’adozione dell’organizzazione flessibile dei cicli produttivi (il modello toyotista e le sue versioni europea e nordamericana, Piore e Sabel, 1984; Ohno, 1993) che fa il paio con l’avvento di nuove tecnologie flessibili, spinge alla formazione di professionalità differenziate, a una mobilità accentuata nel lavoro, ad aggregazioni puntuali di interessi, a comportamenti individuali e collettivi anch’essi flessibili. La società urbana esprime, così, appartenenze che gli individui, di volta in volta, eleggono in ragione della molteplicità di ruoli che costituiscono reti sociali locali più coese almeno laddove è maggiore la consapevolezza e la difesa di interessi comuni: comunità e quartieri di omogeneità etnica, spazi periferici abitati da gruppi marginali (gated comunities o quartieri popolari che siano), bidonville, centri storici, reti familiari, ecc.

66 Città nuova, città innovata
Questa che appare a tutti gli effetti come una “città nuova” (dismesse le industrie e elisa la dialettica delle classi, riposizionata l’economia sull’immateriale e rimodulati i luoghi a questa dedicata, condizionata dall’economia del consumo e dai suoi spazi ecc.) è in realtà solo una città innovata nelle interpretazioni e nelle rappresentazioni. In essa, infatti, non scompaiono, naturalmente, i lavoratori materiali ma perde di senso la classificazione di operaio-massa; non scompare il settore dei servizi ma quella di “lavoratore di concetto” è una definizione non più utile a decifrare le professionalità distinte e flessibili; non scompare l’industria ma si diluisce in luoghi di produzione di natura frammentata e dispersa su territori trans-scalari. Una trasformazione che investe anche le interpretazioni delle strutture sociali urbane nella decostruzione di categorie d’ordine generale proprie della modernità (i. e. delle dicotomie costitutive di Tönnies e Weber tra società e comunità) e la loro riconfigurazione concettuale (Esposito, 1998; cfr. cap. 2). D’altro canto, l’individuazione di categorie urbane proprie del superamento del fordismo avvalorano ciò che Lefebvre aveva già preconizzato nel 1974: lo spazio sociale è un prodotto sociale. Dunque, non determinato dalle spinte dell’economia, o della politica, quanto sempre più auto-generate dal basso, nella scala locale, nello spazio infraurbano, nella relazione minima tra gruppi di attori distinti per comportamenti e non secondo i loro bisogni.

67 La fine del lavoro. La fine della produzione
La fine del lavoro. La fine della produzione. La fine dell’economia politica. La fine della dialettica significante/significato che facilita l’accumulo di conoscenza e di significato, del sintagma lineare del discorso cumulativo. E, nello stesso tempo, la fine dello scambio valore/uso che è la sola cosa che rende possibili l’accumulo e la produzione sociale. La fine della dimensione lineare del discorso. La fine della dimensione lineare dei beni. La fine dell’era classica del segno. La fine dell’era della produzione (Baudrillard, 1984, p. 19).

68 Per Baudrillard si delinea, così, un mondo post- in cui perdono ragione le distinzioni un tempo importanti (tra classi, generi, tendenze politiche e domini) e formato da una implosione di tanti campi, economico, sociale, spaziale l’uno dentro l’altro. Ciò che è da sempre lo spazio urbano.

69 Capitale territoriale
Quali società urbane ci consegna la “rivoluzione” globale e comunicazionale non è compito agevole da riassumere. Nello spazio che si produce nelle relazioni dell’economia dell’informazione «le società locali devono preservare le loro identità e costruire sulle proprie radici storiche, senza curarsi della loro dipendenza economica e funzionale» (Castells 1989, p. 350). Ciononostante, «la scelta simbolica dei luoghi, la conservazione dei simboli di identificazione, l’espressione della memoria collettiva nelle pratiche di comunicazione attuali, sono mezzi fondamentali attraverso i quali i luoghi possono continuare ad esistere come tali» (ibid.; Castells, 1996).

70 Così, nello spazio dei flussi assume maggiore rilevanza il complesso insieme di capitale territoriale che Dematteis individua, e distingue, nelle componenti tangibili come strumenti, opere d'arte, edifici, impianti, infrastrutture e paesaggi, che sono tutti potenziali veicoli di trasmissione transgenerazionale di informazione genetico-culturale, necessaria per riprodurre nel tempo l'identità del sistema locale e a permettergli di far fronte ai cambiamenti modificando la struttura interna (Dematteis, 2005, p. 104),

71 e in quelle intangibili, ovvero un
insieme di risorse localizzate, la cui funzione riproduttiva è ancor più importante [… ] ma che fanno anch'esse parte del capitale territoriale, essendo fisse, specifiche di un territorio e risultato di una sedimentazione storica cumulativa. Si tratta dei già ricordati beni relazionali (capitale sociale, capitale cognitivo locale, diversità culturale interna e capacità istituzionale), che si trasmettono in parte attraverso i meccanismi di imitazione suddetti e che possono essere anch'essi considerati come caratteri acquisiti ed ereditari dei luoghi. Tali sono inoltre le istituzioni pubbliche e private, che hanno una vita transgenerazionale talvolta molto lunga, come le istituzioni comunali e le università (ibid.).

72 Frammenti urbani Nella realtà i tanti elementi tangibili e intangibili della dimensione urbana non confluiscono naturalmente in una mediazione organica coerente e premiante della città, ciò anche perché il loro uso, la valorizzazione, il reinvestimento e la reinterpretazione si trovano più spesso in posizioni conflittuali piuttosto che confluenti. L’ambiente urbano contemporaneo appare composto da sottoinsiemi frammentati in cui spiccano aggregati minimi e addensati intorno a bisogni e urgenze specifiche espresse posizioni e discorsi di attori distinti e, in parte, opposti. L’individuazione degli attori come nuova categoria interpretativa della scena urbana rappresenta una mediazione tra l’emersioni di nuovi comportamenti sociali e le esigenze di mettere a punto adeguati strumenti concettuali per la loro osservazione e interpretazione. La società urbana d’epoca fordista, nella quale s’individuavano classi distinte specularmente al processo di produzione, appare ora trasformarsi in un insieme fluido di comportamenti, pratiche, bisogni, esigenze, capacità differenti. Per quanto traspaia dalle pratiche sociali dell’epoca contemporanea, questa trasformazione è peraltro determinata anche dall’interpretazione e dalle categorie in uso nelle scienze sociali contemporanee (Di Méo e Buléon, 2005).

73 Classificazione e classi Si pone, così, un tema più vasto legato alla maniera di interpretare le società urbane (ma non solo queste ultime), in termini di ripartizione degli individui o delle cose in gruppi omogenei utilizzando criteri di esclusione o inclusione (Ruby, 2003, p. 165). Il fatto di distinguere gli universi sociali per genere o per tipi (uomini o donne, militari o civili, borghesi o proletari ecc.), risponde innanzitutto a esigenze cognitive, di necessità di conoscenza e di sistematizzazione, di “messa in ordine” razionale degli elementi di un certo contesto. In questa linea è possibile costruire una o molte tassonomie legate ai tipi, ai generi, appunto, accorpando le coerenze o distinguendo le incoerenze comportamentali o funzionali. In questo senso, le classi sociali rappresentano una partizione classica operata per gruppi apparentemente omogenei: Platone ne individua 3 nella città greca: gli artigiani, classe più bassa con l'obiettivo di lavorare e procurare i beni materiali; i guardiani, che proteggono lo Stato e i governanti o filosofi, in grado di governare lo Stato. Molto più tardi, Marx individuerà le classi soprattutto negli aggregati sociali in lotta gli uni contro gli altri, ispirandosi all’idea del superamento del dominio dell’una sull’altra. La concezione marxista contiene una doppia condizione del concetto di classe: la prima finalizzata alla costruzione di un ordine concettuale e la seconda di natura ideologica volta al disvelamento delle logiche di dominazione sociale e della loro messa in discussione.

74 Attori e agenti sociali
Alla distinzione in classi del corpo sociale si oppone una distinzione dei contesti umani che fa riferimento piuttosto all’azione (individuale e/o collettiva) all’interno di un processo sociale, relativa dunque a tutto ciò che produce “degli atti” nella realtà sociale. Nell’azione sociale è possibile distinguere schematicamente gli attori (intendendo coloro che sono provvisti di una intenzionalità, di una capacità strategica autonoma: l’individuo che opera la scelta di risiedere in un certo determinato quartiere); dagli agenti (coloro che non detengono una competenza strategica e che, dunque, sono dominati da strategie esterne, ovvero il “realizzatore” materiale dell’azione che non decide o concepisce l’azione stessa: lo stesso individuo che da attore sceglie il quartiere dove risiedere, questa volta visto nel suo ruolo di conducente di autobus) (Lévy, 2003, p. 47). Appare chiaro che, in questa visione legata alla teoria dell’azione (Parsons, 1937; Touraine, 1965; 1984), la società comprende innumerevoli attori e agenti le cui quantità e qualità evolvono continuamente. Mutando costantemente nel tempo e nella composizione, questi aggregati sociali (di individui e collettività) riformulano anche le qualità spaziali determinate dall’agire territoriale. Tali letture dei fatti sociali e territoriali non elidono l’ipotesi che le relazioni sociali siano frutto di dominazione tra attori (la volontà degli individui dipende anche dalla loro posizione sociale, Bourdieu, 1980), anzi riaffermano che «Ogni relazione sociale è un rapporto gerarchico. Non esiste una relazione di eguaglianza» (Touraine, 1990 p. 4). E, d’altro canto, consentono l’emersione e l’osservazione di comportamenti e pratiche inusuali, minime, interstiziali, di frammenti di società e di spazio non parimenti evidenti attraverso categorie generali inerenti le strutture sociali e non le relazioni a queste interne.

75 In termini teorici, e utilizzando una semplificazione di Alain Touraine, coesisterebbero due grandi filoni interpretativi della lettura dei rapporti sociali: il versante del determinismo e quello della libertà; le persone che pensano al “sistema” e quelle che pensano all’“attore”. Pensare all’ “attore”, significa domandarsi in quale misura l’attore può cambiare il gioco o le regole del gioco, il sistema o una parte del sistema. D’altra parte, ci sono persone che pensano in termini di relazioni sociali, ossia di pluralità e conflitti d’attori, e altri che pensano in termini di principi unitari o centrali di condotta (1990, p. 4; Crozier e Friedberg, 1977). Società plurale Dal nostro punto di vista, nelle città contemporanee emerge una “società plurale” distinta non più esclusivamente tra categorie del lavoro, delle appartenenze ideali o di classe, degli obiettivi e delle aspettative, quanto distinta per una dimensione variabile di operatori (individui, famiglie, istituzioni, imprese, del capitale, del politica ma anche associazioni, comunità, gruppi e lobby, criminalità, ma anche marginali, migranti, singoli, disoccupati, poveri, anziani ecc.) che, di volta in volta, assumo la forza dell’attore o la debolezza dell’agente sulla scena territoriale.

76 combina le dimensioni concrete, materiali, quelle degli oggetti e degli spazi, quelli delle pratiche e delle esperienze sociali; così come le dimensioni ideali delle rappresentazioni (idee, immagini, simboli) e dei poteri. Aggiungiamo che questi differenti registri trovano il loro principio unificatore, e la loro coerenza, nel senso che gli individui conferiscono alla loro esistenza terrestre, attraverso lo spazio di cui si appropriano e del quale fanno un valore esistenziale, centrale (Di Méo, 2001, p. 273). La lettura dei fatti sociali, attraverso le dinamiche dell’azione e il riconoscimento degli attori, rappresenta un’occasione e un riposizionamento teorico e metodologico anche per la geografia e per quella urbana in particolare. Ciò in virtù dell’adesione di tale paradigma scientifico al riconoscimento delle qualità degli atti spaziali e dei processi territoriali della contemporaneità.

77 Frammentazione dello spazio
Tutte le azioni di tutti gli operatori (attori o agenti che siano) contengono una dimensione spaziale che a sua volta si riformula continuamente in tanti frammenti quante possono essere le combinazioni sociali. Si tratta di processi non «interamente finalizzati» (nel senso che solo una minoranza di attori agisce per organizzare lo spazio scientemente: pianificatori, politici, costruttori ecc.); «non totalmente regolati e controllati» (le istanze che detengono il potere di regolare non riescono a farlo in maniera completa); «impuri e multirazionali» (nei quali coesistono logiche molteplici anche contrapposte) (Lussault, 2003, p. 42). Lo spazio risente naturalmente dell’interazione sociale ma a sua volta, e soprattutto per gli interessi della geografia urbana, intervene nell’interazione sociale nella quale investendo le capacità degli operatori (percettive, cognitive, di linguaggio, tecnologiche, immaginifiche ecc.): «lo spazio ideale e materiale è presente non solo dopo l’azione e l’atto […] ma anche in azione, nell’azione» (ibid.). Lo spazio non è prodotto dall’azione sociale ma è interagente con essa.

78 In alcune porzioni dello spazio urbano, infatti, si concentrano le maggiori evidenze di pratiche a grande capacità di valore aggiunto economico e a forte connotazione simbolica: i centri storici o le downtown, i poli tecnologici e i Central Business Districts, gli spazi commerciali, lo spazio della conoscenza, della ricerca e dell’innovazione, delle istituzioni, delle imprese, degli eventi culturali ecc. Su queste porzioni di spazio, sono più alti i livelli di investimento (economico, politico, sociale, culturale); più forti appaiono i rischi di clonazione di paesaggi (Simms et al., 2005; Cox et al., 2010); maggiore l’irrigidimento delle differenze o la fissità delle pratiche dell’esclusione; infine, più complesse appaiono le interazione consensuali o impreviste che siano (cfr. cap. 9).

79 Categorie flessibili degli attori urbani
Per di più, la definizione di questi spazi urbani diviene sempre più incerta con l’emersione di attori sociali individuati attraverso categorie decisamente più flessibili: city users o consumatori metropolitani (pendolari, turisti, uomini d’affari, studenti, pubblico di eventi, frequentatori temporanei, (Martinotti, 1993), e poi le comunità di giovani, gruppi di migranti distinti per etnie o provenienze, anziani, élite culturali che gentrificano il cuore delle città, ecc. Com’è evidente si tratta di categorie di più complessa determinazione rispetto, ad esempio, a quelle più tradizionali e strutturate delle classi sociali.

80 L’esempio degli spazi di gentrification
Un fenomeno tipico delle città contemporanee è la comparsa, soprattutto nei centri storici, di spazi di rigenerazione, di luoghi della partecipazione, del commercio e del loisir. In questi contesti emergono i temi della specificità etnica di alcuni quartieri; aumenta la quota di pianificazione e progettualità urbana legata alla partecipazione della popolazione (pianificazione urbana strategica); cresce la dimensione differenziale a base culturale di alcune porzioni di città (quartieri gay, artistici, della tolleranza, della sostenibilità); aumenta l’organizzazione di eventi urbani sia in termini di competizione economica sia di rafforzamento dei sentimenti di appartenenza identitaria.

81 In tante città, e non solo in quelle dei paesi più avanzati, si è assistito a episodi più o meno estesi di gentrification degli spazi centrali fenomeno definito, in origine, come «il processo attraverso il quale famiglie di classe media avevano riabitato i quartieri degradati del centro di Londra» (Glass, 1963, p. 64; Smith, 2003, p. 44). Si tratta di un fenomeno ormai classico della geografia della città contemporanee che, proprio in ragione della sua grande diffusione, esemplifica una delle modalità delle trasformazioni economico-sociali. Dopo la fase pioneristica londinese degli anni Cinquanta (e alcune forme sporadiche fino agli anni Settanta come nel Greenwich Village, a Soho e nell’Upper East Side di Manhattan), la gentrificazione si è estesa, nel decennio Ottanta, alle grandi capitali del mondo occidentale (Parigi, Sydney, Roma) per poi, a partire dalla metà degli anni Novanta, assumere forme generalizzate e globalizzate a tantissime città di tutti i continenti. Questo contagio/diffusione contiene un salto di scala problematica del fenomeno che, da specificamente economico com’era definito in origine (peso del differenziale di rendita delle abitazioni dei centri degradati) (Smith, 1979; 1982), è interpretato sempre più come una strategia degli attori (anche individuali) attratti dai modi di vita e di consumo dell’abitare nel centro città (Ley, 1986). E, del resto, a partire dagli anni Duemila, gli episodi di gentrificazione investono città medie e piccole di ogni continente e di tutte le condizioni di sviluppo, anche in assenza di reali vantaggi speculativi per la rendita immobiliare. Di fatto, le città (le popolazioni, i poteri pubblici) “pretendono” un proprio quartiere gentrificato come espressione d’appartenenza alla contemporaneità urbana. Gli esempi sono infiniti e tutti, a loro modo, significativi delle differenze assunte dal fenomeno (cfr. cap. 9).

82 Il centro di São Paulo Nel caso di São Paulo, ad esempio, nel 1991 il centro storico divenne oggetto di grande interesse pubblico grazie alla decisione di recuperarne lo stato di degrado e di abbandono in cui versava. Le istituzioni cittadine, i proprietari, gli investitori immobiliari, gli abitanti animarono un dibattito (e un conflitto), durato un decennio, che vide coinvolti in prima linea due gruppi sociali: cittadini della classe media riuniti nell’associazione Viva o centro e i settori più popolari rappresentati dal Programa de Requalificaçao Urbana e Funcional do Centro do São Paulo (Associzione Pro-centro). Pur condividendo la finalità della riqualificazione di quello spazio della città brasiliana, queste due aggregazioni si batterono aspramente per definire i criteri di scelta della tipologia di rigenerazione. Le istituzioni politiche mediarono tra le posizioni più o meno speculative (dei primi) e quelle di carattere maggiormente sostenibile (dei secondi) ma, a parte la conclusione relativamente soddisfacente della rigenerazione del caso Paulista, l’esperienza di São Paulo ci pare riassumere una delle caratteristiche essenziali delle dinamiche urbane contemporanee legate alle pratiche della partecipazione e della contesa politica (Memoli e Rivière d’Arc, 2006; Frugoli, 2000). La letteratura che riporta l’analisi di questa tipologia di fenomeni è ampia e articolata. Reperiamo episodi assimilabili a Torino (Quadrilatero romano); a Milano (Isola), a Firenze (Santa Croce), Genova (Piazza delle Erbe), Roma (Trastevere), Napoli (Centro Antico), Palermo (Piazza Marina-Kalsa), Bari (Bari Vecchia) ecc., come anche a Bruxelles (Pentagone); Lione (Saint-Georges), Barcellona (Ensanche), Messico (Zocalo), Buenos Aires (San Telmo), Marsiglia (Rue de la République), Granada (Albaicin-Sacromonte, Fig. 4.2) (Smith, 1996; Jourdan, 2008; Cattedra e Memoli, 2010; Bidou-Zachariasen, 2003).

83 Nelle città investite da questi processi, non solo quelle degli esempi richiamati, si palesano strategie conflittuali, piuttosto che convergenti, fatte di pratiche dal basso e dall’alto che articolano nuove spazialità culturali fatte di immagini, di eventi, di competizione, di forme di vita quotidiana (cfr. cap. 5) e nuove pratiche e piani di intervento di rivitalizzazione nelle aree industriali dismesse, nei centri storici, negli spazi pubblici (cfr. cap. 9). Questa conflittualità, per alcuni, parrebbe destinata ad annichilire i legami sociali

84 atavici che si sgretolano nell’alienazione dell’anomia, diramandosi in contemporanea al radicamento delle leggi di mercato che fa dell’assenza di fini comuni, dell’indifferenza nei confronti dell’altro... e, infine, dell’annientamento del senso storico […], le nuove forme di un ordine astratto (Longo e Graziano, 2009, p. 30). Ci sembra, invece, che la dialettica viva delle società urbane contemporanee si ri-alimenti della «mixité sociale e spaziale» (Rivière d’Arc, 2006, p. 7) che si compone nelle situazioni conflittuali, consensuali o conviviali che, a loro volta, assumono geometrie ineguali di appartenenza alla comunità. Le nuove etnie immigrate relegate negli spazi segregati e marginali, le classi medie che affollano gli spazi del consumo, l’utenza trasversale dell’urbano, i gruppi sociali a collante di genere, le pratiche culturali di ricaduta economica, le politiche della partecipazione ecc. sostanziano le società urbane dell’attualità (Minca, 2002).

85 4.4. Città, reti, flussi Post-fordismo e capitalismo delle reti «Il fordismo è stato il capitalismo dell'organizzazione; il post-fordismo si avvia ad essere il capitalismo delle reti». Enzo Rullani (2000, p. 17) individua, così, i caratteri della trasformazione del sistema industriale che si palesa negli ultimi anni del Novecento. Dal punto di vista territoriale, questo nuovo e presunto paradigma dell’industrializzazione implica il passaggio da un’armatura urbana fortemente polarizzata e ordinata secondo un modello gerarchico di tipo centro-periferia (com’era nel fordismo), ad un sistema urbano spazialmente distribuito, in cui le relazioni fra i nodi non dipendono più solo dalla prossimità fisica, ma soprattutto da complementarietà funzionali, verticali e orizzontali. La riduzione dei costi di trasporto, l’esplosione dell’economia dell’immateriale e il cambiamento nei comportamenti socio-spaziali e del consumo annullano definitivamente l’ipotesi christalleriana di una gerarchia di città e aree di mercato (cfr. cap. 6; Camagni, 1992), ma soprattutto mettono in discussione, almeno sul piano interpretativo, la realtà della distribuzione e dei comportamenti dell’urbanizzazione mondiale.

86 Riorganizzazioni e nuove centralità
Nell’epoca dell’apertura dei mercati e delle reti di produzione e di scambio, estese globalmente, il mondo assiste a rilevanti fenomeni di riorganizzazione dei processi produttivi a scala locale, regionale e macro-regionale (Celata, 2009). Si compongono nuove centralità, nuove gerarchie, emergono nuove disparità e differenze. Si assiste anche a un’interazione complessa del piano locale con il piano globale che dà luogo a variegate configurazioni dell’organizzazione territoriale e a un sensibile aumento delle interdipendenze (Veltz, 1998). In questa prospettiva, lo sviluppo è sempre più legato a una dialettica locale-globale: le relazioni a grande distanza paiono contare oggi almeno quanto quelle di medio e corto raggio. Anche in passato città lontane tra loro potevano avere legami preferenziali. Già Jean Gottmann (1961) aveva parlato di reti a proposito delle colonie mediterranee greche e fenicie, e Hohenberg e Lees (1985) hanno riconosciuto nella rete di alcune città europee (ad esempio come quelle anseatiche) la struttura portante dei traffici transcontinentali medievali. Tuttavia, oggi il modello della città-rete, meno condizionato dalla distanza, si generalizza perché - ed è questa la grande differenza col passato - le reti dei flussi e delle relazioni globali, pur concentrando i loro nodi nelle città, prospettano un'organizzazione autonoma disegnando, cioè, sistemi trans-territoriali. Le città contemporanee sono diventate i luoghi in cui reti tendenzialmente planetarie (reti tecniche dei trasporti e delle telecomunicazioni, imprese-rete transnazionali, reti della ricerca, dei media, dei mercati finanziari ecc.) concentrano i loro "nodi" per ottenere connessioni e sinergie reciproche.

87 Incertezze del paradigma post-fordista
Ciò detto, «non si può pensare che il post-fordismo abbia già preso forma e, men che meno, che questa forma si esaurisca nella esplosiva network economy [… espressa N.d.R.] attraverso la dilatazione globale del mercato» (Rullani, 2000, p. 18). L’identificazione di una nuova forma reticolare dei fatti territoriali non consente, infatti, una definizione paradigmatica. «La network economy sta al post-fordismo come la fabbrica di Taylor e di Ford stava, un secolo fa, al fordismo: essa costituisce la base di partenza, il motore che genera valore e che mette il suo potenziale al servizio del cambiamento» (ibid.). Restano ancora indefinite, ad esempio, le ricomposizioni istituzionali e territoriali del post-fordismo (nella transcalarità tra regioni, Stati, spazi, città); la natura delle risorse relazionali che sostanziano le reti (il trasporto più veloce ed economico permane disequilibrato e non innerva il globo nella sua integrità, non tocca tutte le città ma solo alcune di queste, come accadeva nella fase fordista).

88 Continuità/discontinuità fordismo-post-fordismo In questo senso, il punto critico delle condizioni interpretative distanzia coloro che riconoscono una continuità tra fordismo e post-fordismo e chi invece punta sulla discontinuità. Non si tratta di una contesa esclusivamente scientifica, quanto di un’esigenza che attiene alla capacità di previsione dei fenomeni e della pianificazione. Non ci sarebbe dunque alcun determinismo nel considerare possibile il post-fordismo come un paradigma, quanto, piuttosto prendere in considerazione che in questo tempo cambiano le persone, le imprese, i consumatori, le comunità, le istituzioni, le città ecc. E lo fanno continuamente, come sempre, ma a una velocità decisamente accelerata.

89 Sul piano urbano, ad esempio, l'affermarsi della globalizzazione e dell'economia dell'informazione da un lato ha permesso a tutte le città, almeno potenzialmente, di essere in "rete" con il resto del mondo; dall'altro ha ampliato a scala mondiale i circuiti produttivi e di scambio che prima si articolavano a scala regionale e nazionale. Ciò ha favorito le grandi metropoli, mentre le città che svolgevano un ruolo produttivo e di servizio entro confini nazionali e regionali si sono trovate a competere tra loro per trovare una collocazione nella nuova divisione del lavoro a scala continentale e mondiale (Veltz, 1996). Senza considerare quelle città che avevano ruoli industriali minimi nel periodo precedente e che, oggi, pagano i costi della delocalizzazione produttiva a livello globale (attraverso lo sfruttamento della manodopera a basso costo e della mancanza delle garanzie sindacali). Però, non è possibile codificare l’epoca contemporanea in una costruzione oppositiva tra «il mondo come uno spazio di flussi contro la città come uno spazio di fissità; il globale come remoto contro il locale come prossimità, il faccia a faccia come piccolo e la distanza come grande e così via» (Amin e Thrift, 2005, p. 81). E’ chiaro, invece, che le economie moderne sono «sempre più strutturate intorno a flussi di persone, immagini, informazioni, denaro, all’interno e attraverso i confini nazionali» (ibid.)

90 Competizione urbana: città come attori unitari
In questo contesto è accertato che le città hanno acquisito visibilità e maggiore capacità autonoma di organizzazione e presenza sulla scena. Le città sono, non solo in questi anni, il luogo d’incontro dei diversi attori economici e sociali ma, soprattutto oggi, la loro interazione è imprescindibile presupposto dello sviluppo (Senn, 2002): è qui che si compone la crescita endogena con rendimenti di scala crescenti. In questo quadro una linea interpretativa assegna alle città il ruolo di attori relativamente unitari sui mercati esterni, motori dello sviluppo delle regioni alle quali appartengono (Bagnasco e Le Galès, 2001; Jensen-Butler et al., 1997; Calafati, 2009), soggetti attivi nelle arene politiche, capaci di cooperare, ma soprattutto di competere, per ottenere un migliore posizionamento nello scenario internazionale.

91 Milano: un esempio di complessità reticolare
Consideriamo l’esempio di Milano una metropoli che, come sostiene Bassetti (2005), si presenta come uno “spazio di relazionalità”, tra i primi al mondo. In questa interpretazione la città è vista come uno spazio caratterizzato da un forte policentrismo reticolare, che si sviluppa in tre fondamentali dimensioni: mercato, centro di servizi alle imprese, luogo di eccellenza tecnologico-scientifica. Dal punto di vista geo-economico e geo-politico, è indicata come una delle specificità di Milano il fatto di essere “terra di mezzo” e al contempo “mezzo”, in una collocazione strategica all’incrocio fra l’Europa a 15, l’Europa a 27 e il Mediterraneo. La città costituisce, così, il vertice meridionale del cosiddetto Pentagono europeo (con Parigi, Londra, Amburgo, Monaco), ovvero l’area più ricca d’Europa. Ma la città è innestata, anche, nella direttrice est-ovest che va da Portogallo e Spagna fino all’Europa dell’est; e infine rappresenta il vertice più a nord dell’area di sviluppo mediterranea (Magatti, 2005). Ancora Bassetti afferma che Milano si presenta come «piattaforma posta su un giacimento alimentato da reti e che alimenta a sua volta reti di orizzonti non solo regionali o nazionali né solo europei ma globali» (2005, p. 11). Milano, in altri termini, è inserita in più reti operanti a scale differenti e, inoltre, vi partecipa con dinamiche variabili in termini di settori e di attori che corrispondono al capitale territoriale storico, agli elementi infrastrutturali, agli attori pubblici e privati, ai settori strategici e non, alla «disponibilità all’azione di comunità di riferimento e delle loro competenze relazionali» (Ciborra, 2005, p. 8). Si tratta di reti che fanno capo, ad esempio, alla formazione (università), a settori produttivi (la moda), alle istituzioni (Camera di Commercio, Regione, Comune ecc.), alla finanza (Borsa, istituti di credito) ecc., e che risultano reperibili in «varie microsituazioni e contesti, ma rimangono ancora ampliamente implicite» (ibid.), nel senso che non formano incontestabilmente un contesto omogeneo e unitario. L’esempio di Milano rappresenta, in questo senso, l’impossibilità di codificare il comportamento che una città mantiene nei sistemi reticolari. A partire dalle analisi che individuano reti a gerarchia determinata, multipolare, o equipotenziale (Dematteis, 1990a; cfr. cap. 2), una classificazione tipologica di maggiore dettaglio appare complessa per più considerazioni.

92 Non tutte le città competono
1. La competizione tra città per l’attrazione di funzioni di punta, di investimenti privati, di sovvenzioni pubbliche è, oggi, diffusa ma non generalizzata e non interpretata in maniera univoca (Mazza, 1988). Anche se potenzialmente è vero che oggigiorno tutte le città hanno le stesse possibilità, non è necessariamente vero che tutte riescano a raggiungere elevati gradi di competitività. Le differenze persistono, anche se in modi diversi. Alcune città sono cambiate, altre no. Solo fino a pochi anni fa le città (medie e grandi) si limitavano ad attrarre e attivare nodi di organizzazioni a rete sovralocali, flussi di denaro e di informazioni, servizi, secondo un modello di networking detto "passivo", in quanto non derivato da politiche urbane volontarie, ma piuttosto come esito dell’azione di singoli attori, sostanzialmente svincolati dal resto del sistema locale o ad esso indifferenti. Negli ultimi vent’anni alcune città hanno operato in una condizione di networking “attivo”, alimentando processi di sviluppo locale attraverso la partecipazione contemporanea a reti di relazione locali e globali, competitive e cooperative. Perché ci sia networking “attivo” occorre non soltanto che gli attori locali siano coinvolti in relazioni che presentano determinate caratteristiche (stabilità, transcalarità, produzione di esternalità ecc.), ma anche che queste ultime siano oggetto di azioni esplicite di coordinamento che coinvolgono, oltre ai singoli nodi, il sistema territoriale in senso ampio, attraverso forme di governance territoriale che supportino e valorizzino le relazioni di networking alla scala locale (cfr. cap. 8). Ma nell'economia a rete non tutte le città riescono a giocare al meglio le loro carte. Spesso continuano a essere in concorrenza le aziende e non le città (Amin e Thrift, 2005).

93 La città gateway 2. Le città sono spesso solo punti di interscambio e di trasmissione (Castells, 1989). La competitività economica di una città si definisce come la sua capacità di rispondere alle pressioni concorrenziali che subisce ed è misurabile attraverso la definizione dei campi competitivi, dei punti di forza e di debolezza, delle ragioni della sua attrattività. In questo senso, le città possono diventare gateway, porte d’accesso attraverso le quali entrare nelle reti sovralocali di sistemi organizzativi e di competenze, dando forma e vita a processi di crescita cumulata. L’apertura crescente dello spazio economico determina una differenziazione territoriale locale basata sulla qualità e sulla varietà del prodotto offerto, sulla reattività agli stimoli esterni, sulla flessibilità e sull’innovazione (Veltz, 1996). In questa interpretazione, la nuova “città mondo” si alimenta della ricchezza delle relazioni planetarie trasferendola al suo locale, ma è anche capace di produrre globalizzazioni dal basso, che consentono ad alcune forti identità locali di “produrre territorio”, di alimentare i territori di contesto della nuova “economia arcipelago”.

94 Competizione e identità urbana
3. Là dove l’identità urbana diventa costruzione attiva, le spinte globali non producono omologazione ma al contrario possono rafforzare le identità e le specificità locali. Per rispondere a queste spinte i sistemi urbani sono portati a selezionare al loro interno particolari vocazioni, capaci di tradursi in vantaggi competitivi (Porter, 1999). Visti dall’esterno, cioè dal punto di vista delle reti globali, identità e vantaggi competitivi locali si presentano come una diversificazione delle opportunità offerte a investitori, produttori di beni e servizi, consumatori, visitatori, potenziali residenti, operatori culturali ecc., cioè a tutti quei soggetti esterni in cerca dei milieu più adatti alle loro specifiche esigenze senza i quali le reti di cui fanno parte non potrebbero funzionare e neppure esistere. Si tratta di una sfida difficile, che non è solo economica. La pressione competitiva e la forza dirompente dell’economia rischiano di sacrificare i valori di socialità. In queste dinamiche si palesa il rischio di ridurre l’immagine della città a quella di una semplice macchina competitiva o growth machine. Esistono valori di socialità, solidarietà, cultura, qualità della vita, che meritano di essere perseguiti per sé (e non solo per i vantaggi competitivi che ne possono derivare) e che sono messi a rischio quotidianamente dalle disuguaglianze racchiuse in processi di sviluppo condizionati dall’incertezza e dalla competizione.

95 Non tutta la città compete
4. Cosa comporta l’inserimento competitivo di una città in una rete globale o nazionale? Per la città, intesa nel suo insieme socio-politico, si tratta non tanto di produrre piani che favoriscano lo sviluppo di un settore (o di molti), di una o più funzioni, di una qualità specifica di punta, quanto piuttosto di strutturare una dinamica virtuosa capace di spingere l’insieme della città alla competizione. In questo senso, non è possibile “vendere” o promuovere un settore più o meno privilegiato, caratteristico e competitivo di per sé, senza costruire al suo intorno un consenso riconoscibile all’interno come all’esterno della comunità urbana (Dematteis, 1995), intesa nell’accezione complessa dell’insieme di tutti gli attori presenti (pubblici, privati, collettivi, individuali ecc.). In quest’ottica, più che un prodotto o un marchio di fabbrica, la città è un sistema di comunicazione «destinato a massimizzare l’interazione sociale» (Claval, 1981, p. 38), ma questa evidenza non agevola automaticamente la costruzione di una sintesi mediatica capace di produrre un messaggio rappresentativo e efficace. In altri termini, una sintesi che possa comprendere la totale rappresentatività dell’ambiente urbano complesso. Le comunità urbane sarebbero spinte, dal sistema reticolare-competitivo, a promuoversi come sistemi, come “organismi” che comunicano i loro punti di forza attraverso una loro rappresentazione omogenea. Ma l’idea che una città possa presentarsi e, soprattutto, comportarsi in maniera organicistica è palesemente irrealistica (cfr. cap. 2). Questo, in primo luogo, perché l’idea di considerare le città come attore collettivo comporta il passaggio attraverso l’analisi della «rappresentazione collettiva della città» e, dunque, i rischi della «reificazione della città come attore unitario, esaminata essenzialmente dal punto di vista degli amministratori politici» (Le Galès, 2006, p. 43). Ci si fermerebbe, in questo modo, a una “unitarietà parziale della città” nella quale una parte, un frammento della società o dello spazio urbano, ne rappresenterebbe l’insieme. In secondo luogo, anche perché le forme della comunicazione, per una loro ispirazione tautologica, non potranno essere che simboliche: «ciò che segna meglio il passaggio a una società post-industriale [...] è l’importanza assunta dalle tecnologie di produzione e di diffusione dei beni simbolici: informazione, linguaggio, immagini, conoscenze, rappresentazioni» (Touraine, 1988, p ). Infine, sia il primo quanto il secondo tema non riferiscono di una condizione che attiene solo alle città del tardo Novecento o del XXI secolo, ma sono consustanziali al fatto urbano in sé, tanto da ripresentarsi fin dagli inizi degli studi urbani e nelle interpretazioni della città (Préteceille, 1988; Friedberg, 1994; Pichierri, 2002; Le Galès, 2006;).

96 Alcune città cooperano, alcune reti competono
5. All’interno dei network urbani possono prevalere relazioni di tipo cooperativo tra le città e demandare comportamenti di tipo competitivo al livello delle diverse reti cui afferiscono (Cappellin, 1994). Molte città, infatti, hanno riconosciuto nel fare networking attivo l’importanza dello scambio con altre città, del confronto concreto su problemi rilevanti, dello sviluppo di economie di scala alla ricerca di soluzioni innovative (i.e. la rete POLIS per lo sviluppo di tecnologie per la gestione del traffico urbano, la rete Quartiers en Crise per la rigenerazione urbana di quartieri in difficoltà, la rete EUROCITIES per azioni di cooperazione su temi inerenti lo sviluppo urbano, Fig. 4.3.), ma anche dimostrando di poter e saper lavorare in autonomia rispetto ai livelli di governo di scala superiore (Regione, Stato Unione Europea). Non si tratta solo e sempre di strumenti per la condivisione di esperienze, informazioni, metodi e pratiche, ma anche di mezzi per diffondere cultura e modelli di sviluppo che vedono le autorità locali – transfrontaliere, transnazionali, interregionali – chiamate a confrontarsi e a “progettare” su problematiche comuni (i.e. dall’ambiente alle infrastrutture, dalle questioni sociali, alle forme di aiuto per i paesi dell’Est europeo) attraverso metodologie e programmi di lavoro condivisi.

97 Le reti sono transcalari
6. La globalizzazione opera a favore della formazione di nodi centrali della rete urbana planetaria in cui realizzare e coordinare l’integrazione dei mercati. Non si deve però pensare che le reti urbane mondiali siano fatte solo da città globali. Le nuove gerarchie, infatti, non sono piramidali. Seppure per partecipare ai processi di rinnovamento sia necessaria una massa critica consistente, la soglia minima di ingresso può essere relativamente bassa. In ambito europeo, ad esempio, non esiste solo la rete delle città globali (Londra e probabilmente Parigi) o l’insieme delle grandi metropoli (magari le città capitali), che possiedono le funzioni di punta: centri di informazione, di produzione, di cultura, di ricerca e innovazione tecnologica, di professionalità avanzate, di attività di direzione e di decisione, di esposizione e di commercializzazione ecc. Sono in rete anche le città medie o di dimensioni ancora minori che hanno sviluppato alcune, o una soltanto, di queste funzioni specializzate, o che si siano specializzate in particolari settori e dimostrino elevate capacità d’innovazione, cooperazione e integrazione. Governare il territorio attraverso sistemi reticolari implica, soprattutto, uno sforzo condiviso tra attori pubblici e privati, collettivi e individuali per accompagnare la complessità dei processi di cambiamento economico, sociale, ambientale ecc. In termini spaziali si tratta di “aprire” le singole città, e i territori, allo sviluppo contemporaneo di relazioni alle diverse scale: locale, regionale, macroregionale, nazionale, internazionale.

98 Reti urbane di scala internazionale
7. L'ineguale distribuzione delle funzioni “alte” tra le diverse città crea tra di esse una gerarchia al cui vertice si situano poche “città globali”, mentre alla base ci sono numerosissimi centri minori con funzioni di servizio limitate a un ristretto intorno territoriale. Tra gli studi sulle città mondiali, un approccio particolarmente importante, caratterizzato in modo particolare dai lavori di Sassen (1997a; 1997b), associa la gerarchia urbana al livello di internazionalizzazione, concentrazione e presenza di producer services. Le Global City rappresentano i luoghi chiave per l’insediamento delle strutture che provvedono ai servizi avanzati e alle telecomunicazioni, fattori indispensabili per la realizzazione e la gestione delle operazioni economiche globali. In senso stretto, le città globali individuate dalla Sassen ai primi anni Novanta sono solo tre: Londra, New York e Tokyo, in ragione del “salto” che le separa – in termini di presenza di servizi alla produzione – da tutte le altre. La rispettiva collocazione di queste tre metropoli in ciascuna delle tre maggiori regioni del mondo sviluppato, suggerisce la presenza, alla base, di un meccanismo competitivo, non dissimile da quello che ha tradizionalmente regolato la gerarchia urbana nei sistemi nazionali. Lo status di città globale, quindi, non deriva solo dalla rispettiva posizione predominante su una certa scala gerarchica (capitalizzazione di borsa, numero di sedi transnazionali o simili) ma dalla circostanza che queste metropoli, insieme, funzionino come un unico mercato transnazionale. Queste considerazioni avvalorano il senso di flessibilità del concetto di città globale e investono tanto la definizione quanto, in conseguenza, la loro individuazione. Ad esempio, l’appartenenza ai circuiti comunicativi internazionali può permettere di usufruire dei benefici della centralità anche da posizioni periferiche e marginali in virtù della presenza di risorse, sinergie, esternalità. Se appare più agevole classificare come globali le città “perno” dell’economia e della politica europea, statunitense e giapponese, permangono ancora emarginate le funzioni di contesti urbani tradizionali o emergenti (São Paulo e Shanghai su tutte, ma anche Berlino, Los Angeles, la stessa Milano o, abbiamo visto, Parigi) nei quali emergono forza economica, capacità d’innovazione, competizione e leadership internazionale. Saskia Sassen, che ha scritto molto e diffusamente sul tema delle città globali, mette in evidenza con grande chiarezza in un articolo divulgativo apparso nel 2008 su D, il supplemento del sabato de La Repubblica, che la rete delle città globali non è solo formata dai centri principali, ma anche da città globali minori e imperfette. In tutti questi casi, comunque, si creano disuguaglianze, che tendono anche ad aumentare.

99 Global City-Regions : reti urbane o regioni urbane?
8. Sotto altra angolatura, ma pur nell’alveo dell’interpretazione reticolare del fenomeno urbano, il dibattito internazionale dell’ultimo ventennio vede una riviviscenza delle “regioni” come contesti spaziali dell’azione collettiva, protagoniste dell’economia globale e interpreti delle politiche di sviluppo. Il concetto di Global City-Regions affonda le sue radici nelle World Cities di Friedmann e Wolff (1982) e, ancora, nelle Global Cities di Sassen (1997a). Scott afferma (2001) che non sono più le città, almeno in senso stretto, ad essere l’unità politico-economica più appropriata per descrivere e governare il sistema territoriale, ma una dimensione regionale più vasta, quella delle City Regions (o delle reti regionali di città) che sta guadagnando un’autonomia crescente, tanto alla scala nazionale, quanto sulla scena mondiale. Le Global City-Regions possono essere identificate in termini di grandi aree metropolitane e si distinguono dagli altri densi nodi urbani, per lo sforzo, consapevole, di costruire con i territori contigui una base interterritoriale di azione e identità collettiva, specialmente nel caso in cui siano rintracciabili interdipendenze funzionali, pur mantenendo immutati i caratteri di autonomia amministrativa e politica di ogni singolo centro. E’ opportuno ricordare che la chiave di lettura preponderante è certamente quella economica, coerentemente con l’idea che le Global City-Regions rappresentino il motore dell’economia globale (Scott, 2001). Il tema delle Global City-Regions investe, in realtà, molti ambiti problematici degli studi urbani, ad esempio, l’espansione fisica della città (la nascita delle Edge Cities o il fatto che in letteratura le Global City-Regions possano riconoscersi in aree di dieci milioni di abitanti come anche di un solo milione); la costituzione di reti locali; la definizione della maglia politico-amministrativa (Province, Länder, Contee, Aree metropolitane, Municipalità, Départements ecc.); i modi e i tempi della vita quotidiana (mobilità, pendolarità, vicinato ecc.); la stratificazione sociale (i.e. in ragione dell’incremento delle migrazioni e del meticciato interetnico e della scissione in grandi comparti sociali, ad esempio, tra “ricchi” e “poveri”, Scott et al., 2001, p. 25); le implicazioni della politica e delle politiche ecc. In ragione di questi elementi (e di altri ancora), l’interpretazione della Città-Regione Globale come una nuova tipologia del fatto urbano non pare in grado di compensare comportamenti generalizzati e, dunque, codificabili.

100 Benchmarking urbano 9. Anche in quest’ultima direzione, va ricordato che molte interpretazioni del fenomeno urbano sono state, recentemente, rivolte alla costruzione di condizioni di comparabilità tra le città. Non è un fenomeno nuovo in sé ma la recente rifioritura di tassonomie comparative pare fortemente connessa all’esigenza di monitorare il potenziale di competizione e di cooperazione delle città e, d’altra parte, il loro grado di partecipazione ai sistemi reticolari. Il benchmarking urbano – basato sull’elaborazione di variabili statistiche di natura quantitativa (la popolazione, la ricchezza procapite, il tasso di occupazione ecc.) - rappresenta un metodo per la formazione di graduatorie di città che finiscono per essere distinte, inevitabilmente, tra “migliori” e “peggiori”. Le condizioni “oggettive”, che recentemente considerano anche valutazioni di tipo qualitativo integrando anche criteri relativi, ad esempio, alla “qualità della vita” (l’immagine urbana, le politiche locali, il benessere socioeconomico, l’ambiente urbano, la società dei servizi, gli aspetti culturali ecc.), fotografano soprattutto l’intervallo di alcuni fenomeni e le “distanze” tra le città non risolvendo, d’altro canto, le condizioni di contesto che pure le sostanziano (cfr. cap. 6).

101 Una città, molte configurazioni
L’appartenenza di una città a reti di organizzazioni differenti varia, abbiamo visto, in ragione della scala (locale, nazionale, internazionale), dei campi della competizione e della collaborazione (materiale o immateriale, politica o economica ecc.), costituendo sistemi differenti che possono (o meno) intersecarsi in punti di contatto, nodi comuni. Nella pratica, ogni singolo spazio urbano può rappresentare tanti “nodi” quanti sono i diversi sistemi-rete ai quali la città partecipa. La città intesa, come un “nodo” fisico e territoriale all’interno di una rete, presuppone una concezione sufficientemente coesa della sua realtà interna: grazie al suo grado di coesione, infatti, una città può prendere parte e consolidare il grado di coesione di una rete. Comunicazione unitaria e sistema globale In questo senso, la comunicazione territoriale rappresenta il «mezzo [...] per ricreare una coscienza dell’unità urbana, un sentimento d’appartenenza generale, di comunità» (Lussault, 1993, p. 21), attraverso la mobilizzazione delle «forme simboliche (delle immagini, delle parole, delle attitudini), rappresentando una realtà suggerita che il potere [... degli attori più attivi N.d.R.] vorrebbe imporre come referente comune» (Nay, 1995, p. 2). La costruzione di una immagine della città compatta e sintomatica del suo carattere prioritario (i.e. una città dell’innovazione, o della cultura o della sostenibilità ecc.) non esplica, naturalmente, l’insieme della complessità urbana e comporta il rischio di sovrapporre un logos, un “discorso” unitario ai frammenti di cui pure è composta. Si tratta di frammenti reperibili sul piano spaziale (quartieri e zone differenti), su quello politico (della governance), economico (tra settori trainanti o in crisi) e, come si à visto, su quello sociale (negli obiettivi e negli interessi contrapposti o meno tra parti sociali, attori, gruppi).

102 Insomma, tra spinte polarizzanti e diffusive, tra atteggiamenti “globalizzanti” e “localizzanti”, le reti di relazioni sociali, economiche, culturali e politiche convergono, si concentrano, si interconnettono nelle città, ma non in tutte; non nella loro integralità; non solo dall’alto; non obbligatoriamente dal basso; non solo strettamente urbane ma anche regionali; non esclusivamente finalizzate alla competizione con altre città ma anche alla cooperazione; non tese a costituire reti omogenee classificabili per rango o singoli segmenti di attività; non contraddistinte da comportamenti organici delle città nei quali riconoscere un “sistema” formato dalla collaborazione tra attori pubblici e privati, individuali e collettivi, sociali, economici e politici. Infine, se è vero che pensare l'urbano per sistemi a rete […] risponde all'esigenza di descrivere e interpretare fatti oggi particolarmente significativi, ciò non si pone in alternativa a una concezione areale dello stesso fenomeno […]. Una visione complessiva del fenomeno urbano oggi deve considerare l'accoppiamento strutturale di sistemi a rete e sistemi areali locali. (Dematteis, 1990b, pp ).

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