Altzheimer Dott.ssa Maria Riello.

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Transcript della presentazione:

Altzheimer Dott.ssa Maria Riello

Cos’è Il morbo di Alzheimer è una demenza degenerativa invalidante ad esordio prevalentemente senile (oltre i 60 anni, ma può manifestarsi anche in epoca presenile - prima dei 60 anni) e prognosi infausta. Prende il nome dal suo scopritore, Alois Alzheimer.

La malattia (o morbo) di Alzheimer è oggi definita come quel «processo degenerativo che distrugge progressivamente le cellule cerebrali, rendendo a poco a poco l'individuo che ne è affetto incapace di una vita normale». Definita anche "demenza di Alzheimer", viene appunto catalogata tra le demenze essendo un deterioramento cognitivo cronico progressivo. Tra tutte le demenze quella di Alzheimer è la più comune

La malattia si manifesta inizialmente come demenza caratterizzata da amnesia progressiva e altri deficit cognitivi. Il deficit di memoria è prima circoscritto a sporadici episodi nella vita quotidiana, ovvero disturbi di quella che viene chiamata on-going memory (ricordarsi cosa si è mangiato a pranzo, cosa si è fatto durante il giorno) e della memoria prospettica (che riguarda l'organizzazione del futuro prossimo, come ricordarsi di andare a un appuntamento)

man mano il deficit aumenta e la perdita della memoria arriva a colpire anche la memoria episodica retrograda (riguardante fatti della propria vita o eventi pubblici del passato) e la memoria semantica (le conoscenze acquisite), mentre la memoria procedurale (che riguarda l'esecuzione automatica di azioni) viene relativamente risparmiata. Ai deficit cognitivi si aggiungono infine complicanze internistiche che portano a una compromissione insanabile della salute. Una persona colpita dal morbo può vivere anche una decina di anni dopo la diagnosi conclamata di malattia. Tuttavia una diagnosi certa di morbo di Alzheimer si ha solo con l'esame autoptico.

Col progredire della malattia le persone non solo presentano deficit di memoria, ma risultano deficitarie nelle funzioni strumentali mediate dalla corteccia associativa e possono pertanto presentare afasia e aprassia, fino a presentare disturbi neurologici e poi internistici. Pertanto i pazienti necessitano di continua assistenza personale.

la malattia è caratterizzata da una diminuzione nel peso e nel volume del cervello, dovuta ad atrofia corticale, visibile anche in un allargamento dei solchi e corrispondente appiattimento delle circonvoluzioni. A livello microscopico e cellulare sono riscontrabili depauperamento neuronale, placche senili, degenerazione neurofibrillare, angiopatia congofila.

La malattia è dovuta a una diffusa distruzione di neuroni, causata principalmente dalla betamiloide, una proteina che, depositandosi tra i neuroni, agisce come una sorta di collante, inglobando placche e grovigli "neurofibrillari". La malattia è accompagnata da una forte diminuzione di acetilcolina nel cervello (si tratta di un neurotrasmettitore: una molecola fondamentale per la comunicazione tra neuroni, e dunque per la memoria e ogni altra facoltà intellettiva). La conseguenza di queste modificazioni cerebrali è l'impossibilità per il neurone di trasmettere gli impulsi nervosi e quindi la morte.

Diagnosi L’unico modo di fare una diagnosi certa di demenza di Alzheimer è attraverso l’identificazione delle placche amiloidi nel tessuto cerebrale, possibile solo con l’autopsia dopo la morte del paziente. Questo significa che durante il decorso della malattia si può fare solo una diagnosi di Alzheimer ‘possibile’ o ‘probabile’.

Per questo i medici si avvalgono di diversi test: esami clinici, come quello del sangue, delle urine o del liquido spinale; test neuropsicologici per misurare la memoria, la capacità di risolvere problemi, il grado di attenzione, la capacità di contare e di dialogare; Tac cerebrali per identificare ogni possibile segno di anormalità; Questi esami permettono al medico di escludere altre possibili cause che portano a sintomi analoghi, come problemi di tiroide, reazioni avverse a farmaci, depressione, tumori cerebrali, ma anche malattie dei vasi sanguigni cerebrali.

Terapie Non esiste una cura efficace, sono state proposte diverse strategie terapeutiche per provare a gestire clinicamente il morbo di Alzheimer; tali strategie puntano a modulare farmacologicamente alcuni dei meccanismi patologici che ne stanno alla base. In primo luogo, basandosi sul fatto che nell'Alzheimer si ha diminuzione dei livelli di acetilcolina, l'idea è stata quella di provare a ripristinarne i livelli fisiologici. L'acetilcolina pura non può però essere usata, in quanto troppo instabile e con un effetto limitato.

Un approccio alternativo alla patologia potrebbe essere l'uso di FANS (anti-infiammatori non steroidei). Come detto, nell'Alzheimer è presente una componente infiammatoria che distrugge i neuroni. L'uso di antiinfiammatori potrebbe quindi migliorare la condizione dei pazienti. Si è anche notato che le donne in cura post-menopausale con farmaci estrogeni presentano una minor incidenza della patologia, facendo così presupporre un'azione protettiva degli estrogeni. I ricercatori hanno messo in evidenza anche l'azione protettiva della vitamina E (alfa-tocoferolo), che sembra prevenire la perossidazione lipidica delle membrane neuronali causata dal processo infiammatorio.

Un'altra, più recente, linea d'azione prevede il ricorso a farmaci che agiscano direttamente sul sistema glutamatergico, come la Memantina. La Memantina ha dimostrato un'attività terapeutica, moderata ma positiva, nella parziale riduzione del deterioramento cognitivo in pazienti con Alzheimer da moderato a grave [1]. Ultimo approccio ipotizzato è l'uso di Pentossifillina e Diidroergotossina (sembra che tali farmaci migliorino il flusso ematico cerebrale, permettendo così una migliore ossigenazione cerebrale ed un conseguente miglioramento delle performance neuronali). Sempre per lo stesso scopo è stato proposto l'uso del Gingko biloba. Negli Stati Uniti è in sperimentazione anche una terapia genica, che prova ad utilizzare l'ormone della crescita per la cura dell'Alzheimer.

Le forme di trattamento non-farmacologico consistono prevalentemente in misure comportamentali, di supporto psicosociale e di training cognitivo. Tali misure sono solitamente integrate in maniera complementare con il trattamento farmacologico. I training cognitivi sono utilizzati sia per stimolare e rinforzare le capacità neurocognitive residuali, sia per migliorare l'esecuzione dei compiti di vita quotidiana. Fondamentale è inoltre la preparazione ed il supporto, informativo e psicologico, rivolto anche ai "caregivers" (personale addetto) del paziente.

Si sta sperimentando da poco negli USA un sistema che consente alla persona sofferente di Alzheimer di essere quotidianamente aiutata e stimolata nei propri ricordi. La cosa si ottiene creando un filmato di 30-60 minuti con immagini tratte dall'iconografia nota alla persona in questione (foto tratte dagli album di famiglia, filmini girati negli anni precedenti, ecc.) nel quale viene raccontata la sua storia dall'infanzia fino a poco prima della malattia. Nel filmato si mostrano anche i luoghi noti (la casa in cui abita o abitava, il vecchio posto di lavoro, ecc.), i familiari, i parenti, gli amici, i figli e i nipoti. In pratica, tutte quelle persone che hanno avuto una importanza nella vita prima che il paziente soffrisse di Alzheimer. Il filmato utilizza anche una colonna sonora ottenuta da musiche che notoriamente hanno scandito i vari periodi importanti della sua vita.

Terapie non farmacologiche Fra le varie terapie non farmacologiche proposte per il trattamento della demenza di Alzheimer, la terapia di orientamento alla realtà (ROT) è quella per la quale esistono maggiori evidenze di efficacia (seppure modesta). Questa terapia è finalizzata ad orientare il paziente rispetto alla propria vita personale, all’ambiente e allo spazio che lo circonda tramite stimoli continui di tipo verbale, visivo, scritto e musicale.

Parkinson La malattia di Parkinson fu descritta per la prima volta da James Parkinson in un libretto intitolato “Trattato sulla paralisiagitante” pubblicato nel 1817. Paralisi agitante è il nome che identificò la malattia per quasi un secolo fino a quando ci si rese conto che il termine risultava inappropriato perché i malati di Parkinson non sono paralizzati. il termine più corretto in italiano è semplicemente malattia di Parkinson, che rende anche omaggio al medico che per primo l’ha descritta e sostituisce la vecchia traduzione ottocentesca di “Morbo” di Parkinson.

Si tratta di un disturbo del sistema nervoso centrale caratterizzato principalmente da degenerazione di alcune cellule nervose (neuroni) situate in una zona profonda del cervello denominata sostanza nera. Queste cellule producono un neurotrasmettitore, cioè una sostanza chimica che trasmette messaggi a neuroni in altre zone del cervello. Il neurotrasmettitore in questione, chiamato dopamina, é responsabile dell’attivazione di un circuito che controlla il movimento.

Con la riduzione di almeno il 50% dei neuroni dopaminergici viene a mancare un’adeguata stimolazione dei recettori, cioè delle stazioni di arrivo. Questi recettori sono situati in una zona del cervello chiamata striato. I neuroni dopaminergici della sostanza nera, sofferenti, osservati al microscopio, mostrano al loro interno corpuscoli sferici denominati corpi di Lewy composti prevalentemente da alfasinucleina, che sono considerati una caratteristica specifica della malattia di Parkinson e che fa rientrare questa malattia nel più ampio gruppo delle sinucleinopatie. Alfasinucleina=proteina

Queste si differenziano a seconda delle zone interessate dai corpi di Lewy e possono variare da un esteso interessamento della corteccia (demenza), un interessamento specifico di sostanza nera e locus ceruleus (malattia di Parkinson) o di sistemi nervosi che innervano i visceri (atrofia multisistemica con compromissione del sistema nervoso autonomo).

I sintomi possono comparire a qualsiasi età anche se un esordio prima dei 40 anni é insolito e prima dei 20 é estremamente raro. Nella maggioranza dei casi i primi sintomi si notano intorno ai 60 anni. Il motivo per cui questi neuroni rimpiccioliscono e poi muoiono non é ancora conosciuto, ed è tuttora argomento di ricerca.

Fattori di rischio Questa patologia colpisce generalmente soggetti oltre i cinquant'anni, con una leggera prevalenza per il sesso maschile Le cause del blocco nella produzione della dopamina sono ancora sconosciute; il Parkinson può comparire dopo traumi alla testa, esposizione a sostanze tossiche nell'ambiente, arteriosclerosi cerebrale. In ogni caso è un disturbo caratterizzato dalla degenerazione e dalla morte dei neuroni produttori di dopamina; quando questi neuroni scendono sotto il 30% compaiono i primi sintomi tipici della malattia. sintomi di ansia e depressione collegati alla malattia, sono anche degli effetti collaterali derivati dall'assunzione di dopamina

Quanto all'ipotesi ereditaria, essa non pare confermata da studi su gemelli identici: la diagnosi di Parkinson in uno dei due non aumenta la probabilità che l'altro fratello possa contrarre la malattia, quantomeno in forma conclamata. Studi più recenti, effettuati per mezzo della tomografia ad emissione di positroni, sembrano attribuire all'ipotesi genetica un'importanza maggiore. Certamente esiste una componente ereditaria nella predisposizione a sviluppare la malattia, ma solo il 10% circa dei malati ha un familiare affetto. La componente genetica sembra essere più importante nei casi ad esordio precoce.

I pugili professionisti, a seguito dei violenti colpi al capo cui sono soggetti, possono sviluppare una sindrome di Parkinson di carattere progressivo (il caso di Cassius Clay ne è triste dimostrazione). Da non trascurare, infine, l'ipotesi legata all'età. Altra ipotesi attribuisce un ruolo patogenetico a prodotti del catabolismo endogeno, che producendo radicali liberi, danneggerebbe le cellule della sostanza nera. Un'ulteriore ipotesi imputa alla microglia (sistema immunitario cerebrale) un ruolo importante, dato che la substantia nigra dei pazienti, contiene microglia molto attiva (forse a causa di un aumento di citochine) e questo fatto aumenta la produzione di radicali liberi e i danni ossidativi nei neuroni.

Come si manifesta? Quando sospettarla e recarsi dal medico? La malattia di Parkinson é caratterizzata da tre sintomi classici: tremore, rigidità e lentezza dei movimenti (bradicinesia) ai quali si associano disturbi di equilibrio, atteggiamento curvo, impaccio all’andatura, e molti altri sintomi definiti secondari perché sono meno specifici e non sono determinanti per porre una diagnosi.

All’inizio i pazienti riferiscono una sensazione di debolezza, di impaccio nell’esecuzione di movimenti consueti, che riescono a compiere stancandosi però più facilmente, in genere non si associa una sensazione di perdita di forza muscolare. Ci si accorge poi di una maggior difficoltà a cominciare e a portare a termine i movimenti alla stessa velocità di prima come se il braccio interessato, o la gamba, fossero “legati”, rigidi.

La sensazione di essere più lenti e impacciati nei movimenti è forse la caratteristica per cui più frequentemente viene richiesto il consulto medico insieme all’altro sintomo principale, tipicamente associato a questa malattia e anche il più evidente: il tremore. Esso è spesso fra i primi sintomi riferiti della malattia; di solito è visibile alle mani, per lo più esordisce da un solo lato e può interessare l’una o l’altra mano. Il tremore tipico si definisce di riposo, si manifesta, ad esempio, quando la mano é abbandonata in grembo oppure é lasciata pendere lungo il corpo.

Altri disturbi per i quali frequentemente un malato di Parkinson si rivolge inizialmente al medico possono essere alterazioni della grafia che diventa diversa da quella consueta e mano a mano che si procede nello scrivere diventa sempre più piccola, oppure alterazioni della voce che a un ascoltatore abituale, quale è un parente, appare cambiata e viene descritta come flebile e monotona inoltre lo stesso parente si può accorgere di una variazione dell’espressione del volto: la cosiddetta “facies figee” cioè un viso più fisso e meno espressivo. Tutti questi sintomi, ma in particolare il tremore, possono essere resi evidenti o temporaneamente aggravati da eventi stressanti.

Per ricapitolare… Oltre alla triade di base molti altri sintomi si possono associare a completare un quadro molto variabile da paziente a paziente. alterazioni posturali (correlate alla rigidità ma comprendenti anche perdita del controllo posturale con frequenti cadute) disturbi soggettivi delle sensibilità ridotta velocità dei movimenti oculari scialorrea disfunzioni vegetative disturbi del sonno turbe dell'affettività sono molto frequenti nei pazienti con malattia di Parkinson. Una alterazione delle capacità cognitive è presente invece in circa un quinto dei pazienti, con caratteristiche che differenziano la demenza dei parkinsoniani che sembra legata ad un maggiore interessamento dei lobi frontali (compromissione visiva spaziale, alterazioni della fluenza verbale, etc). Scialorrea= difficoltà nella deglutizione in cui la saliva indugia e il cibo esce fuori dalla bocca

I sintomi principali Tremore Oscillazione lenta (cinque-sei volte al secondo) con un atteggiamento, delle mani, come di chi conta cartamoneta. Generalmente inizia in una mano e dopo un tempo variabile coinvolge anche l’altro lato; possono tremare anche i piedi, quasi sempre in modo più evidente dal lato in cui é iniziata la malattia e anche labbra e mandibola, assai più raramente il collo e la testa. È presente a riposo e si riduce o scompare appena si esegue un movimento finalizzato, ad esempio sollevare un bicchiere per bere. Risente molto dello stato emotivo del soggetto per cui aumenta in condizioni di emozione, mentre si riduce in condizioni di tranquillità. Un altro tipo di tremore spesso riferito dai malati di Parkinson é il “tremore interno”; questa sensazione é avvertita dal paziente ma non è visibile all’esterno; fa parte di una serie di sintomi fastidiosi, non pericolosi.

Disturbo del cammino Dapprima si nota una riduzione del movimento di accompagnamento delle braccia, più accentuato da un lato, successivamente i passi possono farsi più brevi, talvolta si presenta quella che viene chiamata “festinazione”, cioè il paziente piega il busto in avanti e tende ad accelerare il passo come se inseguisse il proprio baricentro. Negli stadi avanzati della malattia possono verificarsi episodi di blocco motorio improvviso (“freezing”, come un congelamento delle gambe) in cui i piedi del soggetto sembrano incollati al pavimento. Il fenomeno di solito si verifica nelle strettoie oppure all’inizio della marcia o nei cambi di direzione. Questa difficoltà può essere superata adottando alcuni accorgimenti quali alzare le ginocchia come per marciare, oppure considerando le linee del pavimento come ostacoli da superare o anche con un ritmo verbale come quello che si utilizza durante la marcia militare.

Lentezza dei movimenti (bradicinesia) Impaccio nei movimenti che determina un rallentamento nell’esecuzione dei gesti. Si evidenzia facendo compiere al soggetto dei movimenti di fine manualità che risultano più impacciati, meno ampi e più rapidamente esauribili per cui, con la ripetizione, diventano quasi impercettibili. Segno di bradicinesia sono anche le difficoltà nei passaggi da una posizione a un’altra, quali ad esempio scendere dall’automobile o girarsi nel letto o anche nel vestirsi come indossare la giacca o il cappotto. Conseguenza di bradicinesia é anche la ridotta espressività del volto dovuta a una riduzione della mimica spontanea che normalmente accompagna le variazioni di stato d’animo e anche una modificazione della grafia che diventa piccola (micrografia).

Rigidità È un termine che sta ad indicare un aumento del tono muscolare a riposo o durante il movimento. Può essere presente agli arti, al collo e al tronco. La riduzione dell’oscillazione pendolare degli arti superiori durante il cammino é un segno di rigidità associata a lentezza dei movimenti

Postura L’alterazione della postura determina un atteggiamento curvo: il malato si pone come “ripiegato” su se stesso per cui il tronco é flesso in avanti, le braccia mantenute vicino al tronco e piegate, le ginocchia pure mantenute piegate. Questo atteggiamento, dovuto al sommarsi di bradicinesia e rigidità, é ben correggibile coi farmaci. Con l’avanzare della malattia si instaura una curvatura del collo e della schiena, che può diventare definitiva.

Disturbi di equilibrio Si presentano più tardivamente nel corso della malattia; sono indubbiamente i sintomi meno favorevoli. Il disturbo di equilibrio é essenzialmente dovuto ad una riduzione dei riflessi di raddrizzamento per cui il soggetto non é più in grado di correggere spontaneamente eventuali squilibri, si ricerca verificando la capacità di correggere una spinta all’indietro. L’incapacità a mantenere una postura eretta e a correggere le variazioni di equilibrio può provocare cadute che possono avvenire in tutte le direzioni anche se, più frequentemente, il paziente tende a cadere in avanti. Il sintomo risponde solo limitatamente alla terapia.

Diagnosi La diagnosi della malattia di Parkinson si basa essenzialmente sull'esame clinico, e a questo scopo è stata proposta una classificazione che divide la diagnosi in Possibile, Probabile e Certa, in modo simile a quello che accade in altre patologie neurologiche, come la paralisi sopranucleare progressiva. Questa classificazione mette in evidenza il fatto che la diagnosi della malattia di Parkinson in vivo sia solo presuntiva, e che la certezza la si riserva all'esame neuropatologico. La somiglianza clinica della malattia con altre forme di Parkinsonismo rende anche ragione del fatto che vi sia una percentuale di errore diagnostico del 20-25%. D'altra parte diverse caratteristiche della malattia di Parkinson all'esordio sono presenti anche in altre condizioni

Decorso È variabile ma nella maggior parte dei casi si ha una lenta ed inarrestabile progressione. In base alla prevalenza di alcuni sintomi e segni piuttosto che altri si possono distinguere due forme di evoluzione: forma ipercinetica dominata dal tremore, con età di esordio più precoce, evoluzione meno invalidante e più lenta forma acinetico-ipertonica dominata da rigidità ed acinesia, più rapidamente invalidante.

Terapia Strategie terapeutiche La terapia della malattia di Parkinson è principalmente di tipo medico. La terapia tradizionale mira a risolvere la sintomatologia di tipo motorio (tremori, rigidità, acinesia), e permette una remissione dei sintomi specialmente a breve termine, laddove nel tempo essa non permette un controllo soddisfacente a causa di effetti collaterali importanti e di “wearing off” come nel caso della L-DOPA. Alla luce delle ultime scoperte scientifiche, però, i ricercatori e i clinici si sono accorti che questa malattia può essere corretta tanto meglio quanto più precocemente si riesce a ottenere la diagnosi, ma soprattutto a iniziare la terapia

Terapia sintomatologica Nonostante tutte le critiche e tutti i farmaci sperimentati per questa malattia, la levodopa resta il farmaco principale e più utilizzato. Essa va somministrata in associazione con un farmaco inibitore della decarbossilasi in modo da evitare gli effetti collaterali a livello sistemico.

Oggi la terapia con levodopa ha reso la durata della vita dei pazienti solo poco inferiore a quella della popolazione sana. Ma la terapia ha molti limiti e uno dei problemi è costituito dalla cosiddetta "sindrome da trattamento con levodopa", cioè l'insieme di complicazioni e fenomeni clinici che insorgono nel paziente dopo alcuni anni di terapia: fenomeno del wearing-off (effetto di fine dose): (molto comune) con il passare del tempo la durata dell'effetto terapeutico della dose si riduce. fluttuazioni on/off: alternanza a breve distanza di periodi di conservata motilità con momenti di marcata acinesia, tremore scarsamente responsivo alla levodopa, senza una vera correlazione con la somministrazione del farmaco; nella fase "on" si hanno movimenti involontari. turbe neuropsichiatriche: disturbi del sonno, allucinazioni notturne, soprattutto nei soggetti di età avanzata; si può arrivare a franchi stati psicotici o di confusione mentale. Levodopa=L-DOPA, o Levodopa (3,4-diidrossi-l-fenilalanina), è un intermedio nella via biosintetica della dopamina In clinica medica è utilizzata per il trattamento del Morbo di Parkinson.

Terapia neuroprotettiva La neuroprotezione è un tipo di trattamento che sempre di più sta prendendo piede nella concezione delle patologie del SNC e il suo razionale nella IPD risiede nella evidenza che questa malattia è successiva alla perdita di almeno il 70% dei neuroni della SN, e che le ultime scoperte a livello molecolare stanno aiutando nella comprensione dei meccanismi patogenetici, e nell’elaborazione di presidi terapeutici capaci di agire alla base del problema. Altre categorie di farmaci sulle quali la ricerca sta andando avanti sono: farmaci favorenti la funzione mitocondriale, antagonisti degli aminoacidi eccitatori, antibiotici, antinfiammatori, fattori neurotrofici.

Terapia chirurgica Anche in campo neurochirurgico la terapia si sta evolvendo verso forme sempre più efficaci: attualmente la tecnica più utilizzata è la chirurgia stereotassica: la chirurgia stereotassica permette di trattare punti in profondità nel parenchima cerebrale con precisione millimetrica, con l’aiuto di dispositivi radiologici. La scoperta che alcuni nuclei responsabili come il globo pallido e il nucleo subtalamico potevano essere un bersaglio aggredibile nella IPD, ha permesso di elaborare una tecnica, detta Deep Brain Stimulation (DBS), che permette una buona remissione clinica e una significativa riduzione della dipendenza da levodopa [5]. Le persone candidate a questo tipo di intervento sono persone anziane in stadio già avanzato di malattia, che presentano effetti collaterali da uso di levodopa già abbastanza importanti.

Terapia con cellule staminali La scoperta che cellule staminali embrionali stimolate in vitro con il prodotto del gene Nurr1 si differenziavano in cellule dopaminergiche, e che queste, se introdotte per via stereotassica nel cervello di ratti affetti da malattia di Parkinson ne rallentavano la progressione fino all’arresto, ha aperto orizzonti rivoluzionari nel trattamento di questa malattia. Questa tecnica, peraltro, al momento è soltanto sperimentale e problemi di tipo etico e pratico ne limitano l’utilizzo.

Terapia genica Nel caso della malattia di Parkinson la terapia genica arriva dagli Stati Uniti. A metterla a punto è stato un team di ricercatori guidati da Michael Kaplitt del New York Presbyterian Hospital/Weill Cornell Medical Center. il virus con il gene viene iniettato in una zona precisa del cervello, il nucleo subtalamico, che regola il circuito motorio. Il neurotrasmettitore GABA "calma" i neuroni iperattivi ed è deficitario nei pazienti affetti da Parkinson che, di conseguenza, presentano disturbi motori e tremori. Iniettando il gene per il GABA all'interno del cervello, i ricercatori hanno tentato di stimolare la produzione del neurotrasmettitore per normalizzare la funzione del circuito motorio. La tecnica, ancora in fase di sperimentazione 1 (di 3) ha dato risultati promettenti senza effetti collaterali (se non i rischi di una "iniezione" nel cervello), dimostrandosi ragionevolmente sicura, ma è necessario avere cautela e continuare la sperimentazione con studi più ampi.