LICEO G.G. TRISSINO VESTIGIA I Corso di Letteratura e Cultura Latina Prof.ssa Alessandra Bertoldi A.S. 2013-2014.

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LICEO G.G. TRISSINO VESTIGIA I Corso di Letteratura e Cultura Latina Prof.ssa Alessandra Bertoldi A.S

Lezione 2: il teatro PREMESSA: il teatro in Grecia È un’attività “civica”, organizzata e pagata dallo Stato per la cittadinanza. Coincide con grandi festività religiose e viene strutturata in forma di competizione tra autori. Le rappresentazioni si svolgono in strutture stabili almeno dal IV secolo a.C. Prevede la presenza di almeno due attori e un coro, il cui ruolo è spesso quello di commentare e spiegare. La musica è parte integrante dello spettacolo. Scenografie ed effetti speciali sono ridotti al minimo. Si divide in commedia e tragedia. Nel primo caso i protagonisti sono persone normali e le loro vicende servono non solo per divertire ma anche per riflettere sulla politica e sulla società della polis. Nel secondo caso, invece, i personaggi appartengono al mito o all’epica e le loro tragiche vicende servono a dimostrare al pubblico quale sia la punizione per chi non rispetta le regole sociali e religiose che tengono insieme la comunità. Le forti emozioni provocate dalla visione della tragedia hanno, secondo Aristotele, un effetto catartico sullo spettatore e rinsaldano i legami sociali.

IL TEATRO A ROMA Tutti i generi teatrali romani e i termini tecnici del settore derivano dal greco, talvolta attraverso la mediazione etrusca (histrio = attore) Anche a Roma ben presto è lo Stato a farsi carico delle rappresentazioni teatrali che si svolgono sempre durante festività pubbliche (ludi), in contemporanea però anche ad altri spettacoli. Il primo teatro in pietra viene costruito a Roma solo nel 55 a.C., prima, si suppone, esistevano solo strutture provvisorie in legno. La messinscena prevedeva che l’azione si svolgesse sempre in “esterni”, di fronte alla facciata di alcune case, con una strada che per convenzione porta da un lato al centro della città, dall’altra alla campagna o al porto. Era previsto l’uso delle maschere, che in realtà erano mobili e con ampio spazio per gli occhi e che permettevano al pubblico di identificare immediatamente il “tipo” del personaggio rappresentato. Questo uso “identificativo” delle maschere pare derivare dalla cosiddetta atellana, un genere teatrale italico basato su personaggi fissi e ricorrenti e sull’improvvisazione. Le maschere forse amplificavano anche la voce e permettevano ad un gruppo ristretto di attori di interpretare parti diverse.

Dalla Grecia a Roma Gli autori latini riprendono dal teatro greco non solo la terminologia e i generi ma anche, soprattutto nelle commedie, le trame e gli intrecci. Questa pratica, abituale nel teatro latino, viene dichiarata apertamente, quasi a dare una dignità letteraria alla propria opera citandone esplicitamente i modelli. Non si tratta di plagio, anche perché gli autori latini “riscrivono” i modelli greci cambiando i codici espressivi (la metrica) e mescolando vicende e personaggi in maniera originale. Vale la pena sottolineare che il pubblico romano preferirà sempre la commedia, soprattutto se di ambientazione greca: si arriva infatti ad avere la possibilità di mettere in scena a Roma ben quattro tipologie teatrali, in base alle scelte dell’autore: Commedia di ambientazione greca: palliata di ambientazione romana: togata Tragedia di ambientazione greca: cothurnata di ambientazione romana: praetexta

PLAUTO (255 – 184 a.C.) Forse nativo di Sàrsina, allora in Umbria, era cittadino romano a pieno titolo. Autore di immediato e vastissimo successo, ispirò perfino una produzione apocrifa: ad un certo punto circolavano almeno 130 commedie a lui attribuite. L’intervento dello studioso Varrone portò a stabilire il canone del corpus plautino in 21 testi, che ci sono state tramandate quasi integralmente in ordine alfabetico. Caratteristiche comuni delle commedie plautine Le commedie nell’insieme rivelano una serie di elementi comuni ben precisi: 1.Sono tutte palliatae, cioè ambientate in Grecia, ma riferimenti culturali e pratiche sociali sono assolutamente romani. 2. Sono tutte riprese da modelli greci (Plauto indica questa operazione come vertere, cioè “tradurre” ma anche “trascrivere” adattando al pubblico romano storie e contenuti). 3. Sono assolutamente prevedibili negli intrecci, che si ripetono regolarmente (innamoramenti contrastati, scambi di persona, beffe, truffe, ecc.), e nei personaggi, che non hanno un vero approfondimento psicologico ma sono degli stereotipi (il vecchio avaro, il giovane innamorato, il servo furbo, il soldato fanfarone …). Quasi sempre la vicenda ruota intorno alla contesa per il possesso di un bene, sia esso un tesoro o una donna, o ad un riconoscimento. Plauto, inoltre, presenta le commedie con prologhi informativi che praticamente svelano già la trama, in modo che il pubblico possa concentrarsi sui giochi di parole e sulle situazioni comiche.

Elementi di originalità 1. La lingua: Plauto sperimenta, gioca con le parole, ne inventa di nuove e mescola latino e greco, lessico alto e lessico basso (memorabili le “gare di insulti” tra i personaggi), dimostrando notevole inventiva. 2. Gli intrecci: anche se dichiara apertamente di rifarsi ad antecedenti greci, Plauto in realtà pratica la contaminatio, ossia la mescolanza tra intrecci di commedie diverse, in modo da creare un’opera che risulta comunque “nuova” e originale. 3. Il personaggio del servo furbo e il metateatro: il servo, che nella commedia greca è presente ma è solo un personaggio di secondo piano, in Plauto diventa quasi sempre il motore dell’azione; amorale e privo di ogni scrupolo, per aiutare il padrone è pronto a organizzare complicatissime beffe o truffe e occupa la scena reggendo le fila dell’intreccio ed esprimendo al massimo l’inventiva verbale di cui si è detto al punto1. Il servo finisce quasi per diventare un alter ego, una proiezione dell’autore, tanto da paragonare le sue manovre proprio all’attività poetica, come si legge nello Pseudolus, vv : Quello che abbiamo appena letto è un tipico momento di metateatro, un momento in cui sembra che l’illusione scenica si spezzi per un attimo e i personaggi si rivolgono al pubblico in un gioco complice (è il caso anche dei frequenti “a parte”). 4. Conformismo e anticonformismo: mettere un servo al centro dell’azione può sembrare un deciso rovescia- mento, come anche la mancanza di qualunque riflessione o critica sociale e/o morale, tuttavia alla fine ogni cosa torna al proprio posto e non si mette in discussione l’ordine stabilito. Plauto vuole intrattenere, non certo stimolare una visione critica della società patriarcale romana. PSEUDOLUS: Sed quasi poeta, tabulas cum cepit sibi quaerit quod nusquamst gentium, reperit tamen, facit illud veri simile, quod mendacium est, nunc ego poeta fiam: viginti minas, quae nusquam nunc sunt gentium, inveniam tamen. Ma come il poeta, quando ha preso con sé le tavolette, cerca ciò che non esiste in nessun luogo tra le genti, e tuttavia lo trova, e rende verosimile quel che è menzogna, ora io diventerò poeta, e le venti mine, che ora non esistono in nessuna parte tra le genti, io tuttavia le troverò.

Un caso particolare: Amphitruo È l’unica commedia di Plauto a noi giunta in cui appaiano gli dei, per giunta non come risolutori di problemi ma come veri e propri personaggi: Giove, per conquistare una mortale, Alcmena, assume le sembianze di suo marito Anfitrione, che è in guerra. Si presenta in piena notte, accompagnato da Mercurio che ha assunto l’aspetto di Sosia,lo schiavo di Anfitrione, e che fa la guardia alla porta. Peccato che sul più bello arrivi il vero padrone di casa, preceduto dal suo schiavo che trova sulla porta di casa niente meno che se stesso … Ovviamente tutto si risolverà per il meglio e il frutto di questa notte movimentata (e più lunga del normale per volontà divina) sarà un semi-dio, cioè Ercole. Tra le commedie di Plauto questa si segnala per la raffica di equivoci e giochi di parole creati dalla presenza del “doppio” e dal fatto che i nomi dei personaggi umani sono diventati nomi comuni: “anfitrione” indica un ospite generoso, “sosia” una persona somigliante ad un’altra. Pezzo forte dell’opera è l’incontro tra Mercurio e Sosia, che finisce per farsi convincere dal dio di non essere più se stesso: Mercurio. Fino a quando camperai non mi potrai impedire d'esser Sosia. Sosia. E tu non me lo darai il benservito, non riuscirai a scacciarmi da questa famiglia! Qui non esiste un altro servo Sosia all'infuori di me. E sono io giustappunto quello che partì per la guerra con Anfitrione. Mercurio. Quest'uomo è pazzo. Sosia. Pazzo io? tu sei pazzo! E che, diamine! non sono io Sosta, il servo di Anfitrione? Non siam venuti stanotte con la nave dal porto Persico? Non è stato il mio padrone a mandarmi qui? Sono o non sono dinanzi a casa nostra? O non ho questa lanterna in mano? Non sto parlando? Non sono sveglio? Non mi ha or ora quest'ultimo subissato di pugni? Ah, su questo non c'è dubbio, per la miseria: ché, povero me, ho ancora le mascelle indolenzite! Ma allora di che dubito? perché non entro difilato a casa nostra? Mercurio. Come? casa nostra? Sosia. Proprio così. Mercurio. Quello che hai detto or ora è tutta una bugia. Sono io Sosia, il servo di Anfitrione. Siamo venuti stanotte con la nave che è salpata dal porto Persico. Espugnammo la città dove era re Pterela, e a forza di battagliare abbiamo preso prigioniere le truppe dei Teleboi. Anfitrione di sua mano ammazzò in combattimento il re Pterela. Sosia. (a parte). A sentirgli fare questo racconto, io non credo più a me stesso. Questo individuo ha una memoria di ferro! Si ricorda per filo e per segno tutto ciò che è successo laggiù. (a Mercurio). Ma di' un po', che cosa hanno regalato i Teleboi ad Anfitrione? Mercurio. La coppa dove soleva bere il re Pterela. Sosia. (a parte). Esatto! (a Mercurio) E dov'è ora la coppa? Mercurio. In una cassetta. Sopra c'è il sigillo di Anfitrione. Sosia. E com'è questo sigillo? dimmi. Mercurio. Un sole nascente con la quadriglia. Ma che mi vuoi fare l'esame, pezzo di gaglioffo? Sosia. (a parte). Mi ha schiacciato con le sue prove. Ora ho da cercarmi un altro nome. Non so capacitarmi com'è che costui abbia potuto vedere tutte queste cose. Ma ora penso io a farlo cadere. (a Mercurio) Di' un po', se sei veramente Sosia, quando le legioni battagliavano a tutto spiano, tu che cosa facevi sotto la tenda? Se me lo dici, mi dichiarerò vinto. Mercurio. C'era una giara di vino; io me ne riempii un orciolo....

Sosia. (a parte). L'ha imbroccata giusta! Mercurio. Quell'orciolo di vin pretto, così com'era uscito da sua madre me lo tracannai tutto quanto. Sosia. Ma è vero: là mi cavai la sete con quell'orciolo di vin puro. Ma questo è un miracolo! A meno che non fosse nascosto dentro all'orcio. Mercurio. Allora come la mettiamo? Ti ho dato le prove o no che non sei Sosia? Sosia. Tu che dici? che non lo sono? Mercurio. Come potrei dire diversamente, se Sosia sono io? Sosia. Ma io ti giuro per Giove di essere Sosia e di non mentire. Mercurio. E io ti giuro su Mercurio che Giove non ti crede. Crederà piuttosto a me, senza bisogno di giurare, che a te con tutti i tuoi giuramenti. Sosia. Se non son Sosia, chi sono allora? dimmelo tu! Mercurio. Quando non mi andrà più di essere Sosia vuol dire che lo sarai tu. Ma finché lo sarò io, bada che le buscherai se non giri allargo, o uomo senza nome. Sosia. E un fatto, perdiana! Quando lo guardo mi rammenta la mia figura, ché tante volte mi sono visto allo specchio. E il mio ritratto parlante. Ha cappello e vestito come quelli miei. E poi bisogna vedere come mi assomiglia: gambe, piedi, statura, capelli, occhi, naso, labbra, guance, barba, collo, tutto preciso come me. Che cosa debbo dire di più? Se ha il groppone pieno di cicatrici non c e una somiglianza più somigliante di questa. Ma no, no, non può essere: se ci penso, io sono quello che son sempre stato. Conosco il padrone, conosco la casa; e fino a questo momento son sano di mente e di senno! No, non debbo dare retta alle chiacchiere di costui. Ora busso. (si avvia). Mercurio. Ehi te, dove vai? Sosia. In casa. Mercurio. Stavolta non la farai franca neanche se fuggirai via a bordo della quadriga di Giove. Sosia. Dunque non posso neanche andare a dire alla mia padrona ciò che mi ha ordinato il padrone? Mercurio. Alla tua padrona puoi andare a dire tutto quello che vuoi; ma alla nostra non ti permetto di avvicinarti. E bada che se mi farai uscire dai gangheri, oggi te ne andrai con le reni terremotate. Sosia. Me ne vado, me ne vado! Santi numi, dove sono andato a finire? com'è che son cambiato? com'è che non sono più io? o forse per effetto di una distrazione ho dimenticato laggiù me stesso? Fatto sta che questo qui possiede la mia figura, tale e quale come quella che avevo prima. Mi capita in vita un onore che dopo morto non mi faranno di sicuro. Basta, ora torno al porto e racconto al padrone tutta la passata. A meno che non mi riconosca neanche lui. Lo voglia Giove.., oggi mi taglio i capelli e poi, bell'e pelato, mi metto sulla testa il cappello della libertà. (s'allontana per la via del porto). Da notare come contribuisca a far cambiare idea a Sosia il fatto che, se lui non è più lui, allora non è più nemmeno uno schiavo …

TERENZIO (185 – 159 a.C.) Originario di Cartagine, sarebbe giunto a Roma come schiavo dopo la seconda guerra punica. Liberato, fu a stretto contatto con il circolo degli Scipioni, influente famiglia aristocratica di posizioni filogreche e modernizzanti. Sarebbe morto durante un viaggio culturale in Grecia, viaggio che diventerà tipico nel completamento dell’educazione dei giovani di buona famiglia. Di lui ci restano 6 commedie tramandate integralmente, modellate sugli intrecci della cosiddetta “commedia Nuova” greca di Menandro, che si distingueva per le trame di stampo “borghese” che stimolavano riflessioni sociali e filosofiche. A differenza di Plauto, Terenzio dovette faticare per cogliere un ampio successo di pubblico, anche perché la sua comicità era molto meno immediata e diretta. La sua opera va collocata sullo sfondo storico dell’età delle conquiste, in cui Roma si impadronisce dell’intero Mediterraneo, compresa la Grecia da cui i Romani importano non solo ricchezze e opere d’arte ma anche una nuova mentalità e nuovi modelli culturali, che fanno preoccupare gli esponenti più conservatori della classe dominante, timorosi di vedere il mos maiorum irrimediabilmente contaminato dalla influenza culturale greca. Terenzio, attraverso il suo teatro, sposa invece le posizioni ei suoi protettori, gli Scipioni, e cerca di proporre una riflessione su temi sociali come i rapporti famigliari, il valore del matrimonio, l’importanza dell’educazione giusta.

Caratteristiche delle commedie di Terenzio Sono tutte palliatae con trame incentrate su intrighi amorosi. Sono improntate più sulla riflessione che sull’azione. Presentano un prologo che non introduce la commedia ma che serve all’autore come spazio di comunicazione con il pubblico in cui illustra i modelli greci usati e con cui difende le sue scelte controbattendo agli avversari. Esemplare il caso della Hecyra (“La suocera”), nel cui prologo si spiega come per ben due volte la messa In scena fosse stata interrotta perché il pubblico aveva preferito andarsene a vedere una volta uno spettacolo di funamboli, un’altra un combattimento di gladiatori. Sacrificano al realismo la comicità sfrenata e “fisica” che era tipica di Plauto; anche il linguaggio appare decisamente più moderato e tende alla verosimiglianza. Il metateatro scompare, Terenzio è molto più attento a mantenere l’illusione scenica. I personaggi, pur essendo quelli tradizionali, sono molto più verosimili e approfonditi dal punto di vista psicologico rispetto a quelli plautini. Il servo torna a ricoprire un ruolo secondario, in compenso Terenzio va contro gli stereotipi abituali e rappresenta, ad esempio, una suocera solidale con la nuora, una prostituta più onesta della gente “per bene”, un padre che si pente dell’eccessiva severità nei confronti del figlio. Anche in questo caso Terenzio rinuncia a forme di facile comicità e si aliena in parte il grande pubblico, abituato allo stile plautino.

Adelphoe (“I fratelli”): una riflessione sull’educazione La commedia mette a confronto due sistemi educativi incarnati in due fratelli che si sono “divisi” i due figli di uno di loro: uno segue rigidamente le antiche tradizioni di severità e controllo, l’altro preferisce che il figlio (adottivo) sia libero di fare le sue esperienze, errori compresi. L’intreccio rivela come nessuno dei due metodi sia davvero perfetto: in medio stat virtus, sembra sottintendere Terenzio, ma mettere in discussione la tradizioni educative patriarcali romane segna comunque una Grande novità ed è l’indizio del mutamento culturale in atto presso le élites. Famoso è il monologo del padre “tollerante”, Micione, in apertura del I atto: Faccio di tutto perché mi contraccambi: gli concedo, lascio correre, non ritengo necessario che faccia tutto come voglio io e poi, quelle ragazzate che gli altri fanno di nascosto dal padre ho abituato mio figlio a non nascondermele. Perché chi avrà l'abitudine di mentire a suo padre, o avrà il coraggio di ingannarlo, tanto più lo avrà con gli altri. Sono convinto che sia meglio frenare i figli col rispetto e con l'indulgenza piuttosto che con la paura. Su questo mio fratello non è d'accordo con me, non gli va. E spesso viene da me e grida: «Che fai, Micione? Perché mi rovini quel ragazzo? Perché fa l'amore? Perché si ubriaca? Perché favorisci tutto questo spesandolo? Perché sei così generoso nel vestirlo? Sei davvero una pappamolla!» Lui come padre è troppo severo, al di là del giusto e del lecito, e, a mio avviso, si sbaglia di grosso se crede che l'autorità basata sulla forza sia più salda e sicura di quella ottenuta con l'affetto. Io la penso così (e mi regolo di conseguenza): chi fa il proprio dovere per timore di un castigo, finché pensa che la cosa si verrà a sapere, sta attento; ma se spera di farla franca, torna a seguire la propria indole. Quello che ti sei conquistato trattandolo bene, agisce spontaneamente, cerca di contraccambiarti: che tu ci sia o no, si comporterà allo stesso modo. Questo è il compito di un padre, abituare suo figlio ad agire onestamente da solo, anziché per paura degli altri: è questa la differenza che c'è tra il padre e il padrone. Chi non ci riesce ammetta di non saper comandare ai figli.

GLOSSARIO Catarsi: l’azione liberatrice della poesia che purifica dalle passioni. Con valore più ampio, il termine è anche usato col senso generico di purificazione, liberazione dalle passioni. Histrio: termine forse di origine etrusca che indica l’attività dell’attore in senso lato. Pallium: corto mantello di lana tipico dell’abbigliamento greco. Cothurnus: sandalo alto usato dagli attori tragici per apparire più alti e maestosi (“Ha indossato il coturno” = “Si è messo a scrivere tragedie”) Toga: ampio quadrato di lana che, drappeggiato, costituiva l’abbigliamento ufficiale del cittadino Romano. Scomoda e spesso ingombrante, era pressoché obbligatoria nelle occasioni ufficiali e Per sottolineare il proprio status di cittadino. Praetexta: toga listata di porpora indossata da magistrati e sacerdoti. Mos maiorum: letteralmente “il costume/le abitudini degli antenati”, ossia l’insieme di tradizioni e usanze sociali, pubbliche e private, che secondo i romani costituivano la base della loro società. Poiché il mos maiorum si forma nell’epoca gloriosa della affermazione della repubblica Romana in territorio italico, è strettamente legato a ideali di frugalità, serietà, valore militare, spirito di sacrificio in nome del bene comune, sobrietà. La successiva conquista del Mediterraneo con il conseguente arricchimento e il contatto con la più rilassata cultura greca porterà più di un autore a lamentare la decadenza del mos maiorum e a rimpiangere nostalgicamente i “bei vecchi tempi” in cui Roma era più povera ma più onesta.