Il dolore morale corrisponde alla possibilità della trasformazione di esperienze spiacevoli in dolore della mente, manifestandosi sempre attraverso processi.

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Transcript della presentazione:

Il dolore morale corrisponde alla possibilità della trasformazione di esperienze spiacevoli in dolore della mente, manifestandosi sempre attraverso processi di elaborazione essenzialmente umani. Questi sono i processi che intervengono nei casi di mancato raggiungimento di una meta, di perdita di una persona cara, di una delusione d’amore, tutti esempi in grado di causare dolore morale. Il dolore viene considerato come un sintomo degli stati depressivi caratterizzato da tristezza profonda e cupa, non alleviata da conforto o sollecitazioni esterne. Nell’adolescenza la forma di dolore più comune è quella causata da una delusione: ti senti infelice, hai la sensazione di vivere in un mondo vuoto, abbandonata ed è come se non esistesse nessun’altro all’infuori della persona che ti ha ferita. Nel corso della vita ogni uomo ha provato l’esperienza della solitudine, e quando l’ha confrontata con gli altri si è accorto che non ne esiste una sola. Ognuno di noi ha un modo proprio di rappresentarsela, di viverla e perché no, d’immaginarsela. La solitudine è un problema che tocca drammaticamente milioni di persone. Si tratta quindi di capire quando la solitudine è realmente un handicap alla qualità della vita e quando invece è il soggetto che non sa gestirla. La solitudine presenta moltissime sfaccettature: ve ne sono di forzate, in genere imposte dalle circostanze della vita, quali la prigionia, gli handicap e la malattia, l’isolamento percettivo o l’abbandono di una persona cara. Vi sono poi solitudini volute e ricercate. Quelle del creativo, dell’asceta o di chi, nella quotidianità, sente il bisogno di ricercare un momento suo, per recuperare le energie disperse nel mondo, per ritrovare quella parte soffocata dall’affanno della vita, quando, invece, non è altro che una fuga dalle situazioni che non riesce a gestire. Vi sono ancora solitudini imposte dalla società. I mezzi di comunicazione, i mass-media, gli slogan pubblicitari che invitano ad isolarsi, a distinguersi esprimendo modi di vita “unici” che accentuando l’individualismo. In realtà la meta proposta è solo illusoria, dato che è raggiungibile solo con comportamenti ed oggetti uguali per tutti. Questi messaggi, per loro natura contraddittori, alimentano la fuga e la ricerca di un rifugio che, visto come un luogo d’opposizione all’esterno, limita la crescita e lo sviluppo dell’autonomia individuale.

La solitudine forzata: Esistono dei casi in cui l’individuo non può sfuggire alla solitudine: benché la società tenti di deprezzarla, esistono delle condizioni in cui l’esterno impone alle persone la solitudine. In questo caso all’uomo non rimane altro che soccombervi o servirsene. In alcuni casi, la solitudine forzata è diventata, per qualche personaggio della storia, la condizione che ha permesso l’espressione della fantasia. La creatività ha avuto l’opportunità di esprimersi, tant’è che alcune delle più grandi espressioni artistiche sono nate in condizioni d’isolamento. La solitudine voluta: Si parla molto del desiderio e della paura della solitudine, poco della capacità d’essere soli. Durante il nostro sviluppo psicofisico, se non abbiamo subito dei traumi gravi, dall’infanzia ad oggi, abbiamo sperimentato, magari gradualmente, un essere soli anche in presenza dell’altro. La fiducia, costruita dentro di noi negli anni della crescita, ci ha permesso di controllare la solitudine di riconoscere i sentimenti che animano la parte profonda della nostra mente e di esprimerli. La solitudine diviene, così, condizione privilegiata e da ricercarsi per aiutare l’individuo ad integrare i pensieri interni con i sentimenti. La meditazione, la preghiera e, a livello inconscio, il sonno operano questa trasformazione.

Eugenio Montale nacque a Genova il 12 ottobre del 1896, e trascorse l'infanzia e l'adolescenza tra Genova e Monterosso, luoghi e paesaggi divenuti poi essenziali per la sua poesia. Di salute malferma, compì studi irregolari, nutrendo una forte passione, oltre che per la letteratura e la poesia, anche per il canto. Nel 1917 venne chiamato alle armi come ufficiale di fanteria. Dopo la guerra strinse rapporti sia con gli scrittori che a Genova frequentano il Caffè Diana in Galleria Mazzini (in particolar modo con Camillo Sbarbaro) sia con il gruppo torinese di Piero Gobetti, che negli anni venti cercò di attuare una resistenza culturale al fascismo, in opposizione al futurismo e al dannunzianesimo.

Nel 1925 pubblicò, proprio per le edizioni di Gobetti, il suo primo libro di poesie, Ossi di seppia, e firmò il manifesto antifascista di Croce. Sempre nel '25 uscì sulla rivista milanese "L'esame" l'articolo Omaggio a Italo Svevo, che contribuì in modo determinante alla scoperta dello scrittore triestino, di cui negli anni successivi divenne amico. Nel '26 conobbe Saba e il poeta americano Ezra Pound, e da allora indirizzò una viva attenzione alla letteratura anglosassone. Nel 1927 raggiunse l'indipendenza economica dalla famiglia ottenendo un impiego a Firenze presso la casa editrice Bemporad; e nello stesso anno conobbe Drusilla Tanzi, moglie del critico d'arte Matteo Marangoni, che più tardi divenne sua compagna, ma che sposò solo nel Nel '29 fu nominato direttore del Gabinetto scientifico-letterario Vieusseux, ma da tale incarico venne esonerato nel '38, essendosi sempre rifiutato di iscriversi al partito fascista. In quegli anni Montale fu uno dei principali animatori della vita intellettuale fiorentina: frequentò il noto caffè degli ermetici "Le Giubbe Rosse", strinse amicizia con i maggiori scrittori italiani del tempo (tra cui Vittorini e Gadda), ed inoltre allargò sempre più i suoi interessi alla cultura europea. Negli anni bui della guerra e dell'occupazione tedesca visse attraverso collaborazioni a riviste e soprattutto grazie ad una varia attività di traduttore. Nel 1939 pubblicò la sua seconda raccolta di poesie, Le occasioni. Nel 1943, a Lugano, uscì Finisterre, un volumetto di liriche scritte tra il '40 e il '42, esportato clandestinamente in Svizzera. Finita la guerra, si iscrisse al Partito d'azione, ricevette un incarico culturale dal Comitato Nazionale di Liberazione e fondò, con Bonsanti e Loria, il quindicinale "Il Mondo". La sua esperienza politica fu tuttavia assai breve: le sue aspirazioni ad un'Italia liberale ed europea, estranea a chiusure nazionali e provinciali, vennero fortemente deluse dallo scontro creatosi nel dopoguerra tra il nuovo clericalismo e la sinistra filo stalinista. All'inizio del 1948 si trasferì a Milano, dove lavorò come giornalista e critico letterario al "Corriere della Sera" e al "Corriere d'Informazione". Nel 1956 uscì la sua terza raccolta di poesie, per lo più risalenti agli anni della guerra e dell'immediato dopoguerra, La bufera e altro. Negli anni Cinquanta e Sessanta venne considerato il più grande poeta italiano vivente, modello di cultura laica e liberale, tanto che ricevette diversi riconoscimenti, culminanti nel 1967 nella nomina a senatore a vita, e nel 1975 nel premio Nobel per la letteratura. Dopo un periodo di completo silenzio poetico uscì nel 1971 Atura, nel 1973 Diario del '71 e del '72, nel 1977 Quaderno di quattro anni; ed infine nel 1980, caso unico per un autore contemporaneo vivente, venne pubblicata l'edizione critica della sua intera Opera in versi. Trascorse gran parte della vecchiaia nell'appartamento milanese di Via Bigli 15. Morì a Milano il 12 settembre 1981.

SPESSO IL MALE DI VIVERE HO INCONTRATO: (da ossi di seppia 1925) Spesso il male di vivere ho incontrato: era il rivo strozzato che gorgoglia, era l'incartocciarsi della foglia riarsa, era il cavallo stramazzato. Bene non seppi, fuori del prodigio che schiude la divina Indifferenza: era la statua nella sonnolenza del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato Spesso ho incontrato il malessere: era torrente che incontrava un ostacolo nel fluire, l’accartocciarsi di una foglia, secca e accartocciata,un cavallo caduto per la fatica Non ho conosciuto altro bene all’infuori del miracolo prodotto da un atteggiamento di distacco dal male tipico degli dei. Era una statua nella sonnolenza solitaria del mezzogiorno, una nuvola e un falco che vola alto nel cielo

(da ossi di seppia 1916) MERIGGIARE PALLIDO E ASSORTO: Meriggiare pallido e assorto presso un rovente muro d'orto, ascoltare tra i pruni e gli sterpi schiocchi di merli, frusci di serpi. Nelle crepe dei suolo o su la veccia spiar le file di rosse formiche ch'ora si rompono ed ora s'intrecciano a sommo di minuscole biche. Osservare tra frondi il palpitare lontano di scaglie di mare mentre si levano tremuli scricchi di cicale dai calvi picchi. E andando nel sole che abbaglia sentire con triste meraviglia com'è tutta la vita e il suo travaglio in questo seguitare una muraglia che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia. Trascorrere le ore del pomeriggio pallido e assorto immersi in una luminosità accecante e nel torpore della calura, ascolta tra i pruni e gli sterpi i rumori improvvisi e secchi dei merli, il rumore di serpi. Nelle crepe del suolo o sulla pianta erbacea, spiano le file rosse delle formiche: che ora si rompono ed ora si intrecciano sulla sommità di minuscole biche. Osservare tra le fronde lo scintillio del mare,mentre si sente il frinire tremulo delle cicale proveniente dalle sommità delle alture aride e desolate. E andando nel sole che abbaglia si sente con triste stupore com’è tutta la vita e il suo dolore in questo camminare lungo una muraglia che ha in cima frammenti di bottiglia messi sui muri per impedire che vengano scavalcati.

Giacomo Leopardi nasce a Recanati nel 1798, da famiglia nobile ma povera. Il padre, cattolico e conservatore, aveva messo insieme una vasta biblioteca, ricca perlopiù di opere ecclesiastiche e scientifiche. Leopardi si forma sotto la guida di precettori privati e come autodidatta nella biblioteca paterna. Si mette in luce con alcuni studi filologici attorno al 1815; l'anno successivo è colpito da una grave malattia, che indebolisce per sempre il suo fisico: compone la lirica. L'appressamento della morte". Si allontana sempre più dalla religione, e la sua predilezione per l'età classica lo isola dagli ambienti letterari del tempo, romantici e medievalisti. Tenta quindi di mettersi in contatto con i pochi classicisti scrivendo una lettera alla loro rivista di riferimento, la "Biblioteca italiana", in cui esprime il suo antiromanticismo in risposta a Madame De Stael; la lettera viene però ignorata.

Del 1817 sono i primi appunti dello "Zibaldone", collage di riflessioni che verrà terminato solo nel Nel 1817 Leopardi si innamora segretamente della cugina, ospite passeggera della sua casa; nel 1818 conferma il suo antiromanticismo nel "Discorso di un italiano attorno alla poesia romantica", e scrive due canzoni patriottiche. Nel 1819, dopo una grave malattia agli occhi e non sopportando più la squallida vita di Recanati, tenta di procurarsi un passaporto e fuggire a Milano, ma viene scoperto dal padre; subito dopo scrive gli idilli "L'infinito" e "La sera del dì di festa". Convintosi ormai che la vita umana sia permeata di infelicità, nel 1822 scrive le canzoni "Bruto minore" e "Ultimo canto di Saffo". In quell'anno il padre gli permette di andare a Roma a cercare un impiego; ma in quella città l'unica erudizione ricercata era di tipo antiquario, e Leopardi rimane isolato; gli viene offerto di entrare nell'amministrazione pontificia, divenendo prelato ma non prete; ma egli rifiuta. Tornato a Recanati, il completamento della sua visione del mondo è riflesso negli ultimi appunti dello Zibaldone e nelle "Operette morali" scritte per la maggior parte in questo periodo. Nel 1825 l'editore Stella lo invita a Milano, commissionandogli l'edizione completa delle opere di Cicerone; annoiato dall'ambiente culturale milanese, preferisce lavorare a Bologna, compilando per Stella due antologie, una di prosa, l'altra di poesia, di autori italiani: le "Crestomazie". Nel 1827 soggiorna per breve tempo a Firenze; è poi a Pisa, dove compone le canzoni "Il risorgimento" e "A Silvia", e di nuovo a Recanati. Qui, tra 1828 e 1830, compone altre pietre miliari della sua opera poetica: "Il sabato del villaggio", "La quiete dopo la tempesta", "Le ricordanze", "Il canto notturno di un pastore errante dell' Asia". Intanto le sue condizioni fisiche si sono aggravate, ed accetta l'invito dei suoi amici fiorentini a trasferirsi là, dove percepirebbe un assegno mensile. Nonostante i buoni rapporti, la sua opera è da essi criticata, in quanto priva di accenti religiosi e di fiducia nel progresso. L'infelice amore per Fanny Targioni Tozzetti ispira al poeta altre cinque poesie, tra cui "A se stesso", "Amore e morte"... Leopardi si lega poi all'esule napoletano Antonio Ranieri, seguendolo a Roma e a Napoli. Le polemiche attorno alla sua opera provocano in lui una forte reazione contro il liberalismo cattolico dei circoli fiorentini e lo spiritualismo imperante; scrive così opere intrise di sferzante polemica. La sua produzione poetica si conclude invece con i canti "Il tramonto della luna" e "La ginestra". Muore a Napoli nel 1837.

IL PASSERO SOLITARIO:(Da Canti del 1835) D'in su la vetta della torre antica, Passero solitario, alla campagna Cantando vai finchè non more il giorno; Ed erra l'armonia per questa valle. Primavera dintorno Brilla nell'aria, e per li campi esulta, Sì ch'a mirarla intenerisce il core. Odi greggi belar, muggire armenti; Gli altri augelli contenti, a gara insieme Per lo libero ciel fan mille giri, Pur festeggiando il lor tempo migliore: Tu pensoso in disparte il tutto miri; Non compagni, non voli Non ti cal d'allegria, schivi gli spassi; Canti, e così trapassi Dell'anno e di tua vita il più bel fiore. Oimè, quanto somiglia Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso, Della novella età dolce famiglia, E te german di giovinezza, amore, Sospiro acerbo de' provetti giorni, Non curo, io non so come; anzi da loro Quasi fuggo lontano; Quasi romito, e strano Al mio loco natio, Passo del viver mio la primavera. Questo giorno ch'omai cede alla sera, Festeggiar si costuma al nostro borgo. Odi per lo sereno un suon di squilla, Odi spesso un tonar di ferree canne, Che rimbomba lontan di villa in villa. Dall'alto della torre del vecchio campanile, tu, passero solitario, erri per la campagna cantando finché viene sera; e l'armonia regna nella tua valle. La primavera brilla tutt'intorno e si manifesta sui campi così vividamente che il cuore si intenerisce. Senti le pecore belare, le vacche muggire; e gli altri uccelli, contenti, compiono mille giri nell'aria festosa contenti, trascorrendo così il loro tempo migliore: tu, invece, guardi il tutto in disparte pensieroso; non ti piace la compagnia, non voli, non ti curi dell'allegria, eviti i divertimenti, canti solamente e così trascorri il periodo migliore dell'anno e della tua vita. Ahimè, quanto assomiglia il tuo costume al mio! Divertimento e spensieratezza, tenera famiglia della giovinezza, e amore, fratello della giovinezza, rimpianto amaro dell'età matura, io non curo, non so come; anzi fuggo lontano da loro; quasi estraneo al mio luogo nativo, trascorro la primavera della mia vita. In questo giorno di festa, che ormai giunge a termine, si usa festeggiare al mio paese per tradizione. Senti per l'aria serena il suono delle campane, senti spesso lo scoppio di colpi di fucile, che rimbomba lontano di paese in paese.

Tutta vestita a festa La gioventù del loco Lascia le case, e per le vie si spande; E mira ed è mirata, e in cor s'allegra. Io solitario in questa Rimota parte alla campagna uscendo, Ogni diletto e gioco Indugio in altro tempo: e intanto il guardo Steso nell'aria aprica Mi fere il Sol che tra lontani monti, Dopo il giorno sereno, Cadendo si dilegua, e par che dica Che la beata gioventù vien meno. Tu, solingo augellin, venuto a sera Del viver che daranno a te le stelle, Certo del tuo costume Non ti dorrai; che di natura è frutto Ogni vostra vaghezza. A me, se di vecchiezza La detestata soglia Evitar non impetro, Quando muti questi occhi all'altrui core, E lor fia vóto il mondo, e il dì futuro Del dì presente più noioso e tetro, Che parrà di tal voglia? Che di quest'anni miei? che di me stesso? Ahi pentirornmi, e spesso, Ma sconsolato, volgerommi indietro La gioventù del luogo, tutta vestita a festa, abbandona le case e si sparge per le vie; e guarda ed è guardata, e in cuore si rallegra. Io, solitario in questa parte dimenticata della campagna, rimando a tempi migliori ogni gioco e divertimento: e intanto lo sguardo steso nell'aria soleggiata è ferito dal Sole che tramonta tra i monti lontani, dopo una giornata serena, e cadendo, sembra dileguarsi e che dica che la gioventù sta finendo. Tu, solitario uccellino, giunto alla fine della vita che il destino ti concederà, non ti dorrai della tua vita certamente; perché ogni nostro desiderio è frutto della natura. A me, se non mi sarà concesso di evitare di varcare la detestata soglia della vecchiaia, quando i miei occhi non susciteranno più nulla nel cuore delle altre persone, e il mondo apparirà loro vuoto, e il giorno futuro parrà più noioso e doloroso del presente, che sarà di questa voglia? Che sarà di questi anni miei? Che sarà di me stesso? Ah, mi pentirò, e più volte, mi volgerò al passato sconsolato.

Nasce a San Mauro di Romagna nel 1855 (quarto di dieci figli). Il padre, amministratore di una vasta tenuta agricola dei principi Torlonia, fu assassinato il 10 agosto del 1867 per motivi mai chiariti, ma si pensa a rivalità sul piano professionale e politico. Il Pascoli allora aveva 12 anni e si trovava a studiare nel collegio dei padri Scolopi a Urbino, dove rimase fino al Tra il 1868 e il 1871 gli moriranno anche la madre, una sorella e un fratello. Questi lutti, soprattutto quello del padre, segnarono profondamente la sensibilità del giovane Pascoli. Egli proseguì gli studi al liceo di Rimini e poi dal '73, con una borsa di studio vinta dopo un esame sostenuto alla presenza del Carducci, poté iscriversi alla facoltà di Lettere dell'Università di Bologna. Qui si avvicinò agli ambienti del socialismo emergente, caratterizzato dall'anarchismo di Andrea Costa, e si iscrisse all'Internazionale socialista. Privato della borsa di studio per aver partecipato a una manifestazione contro il ministro dell'Istruzione Ruggero Bonghi, vive in grande miseria e per ben cinque anni ( ) è costretto a interrompere gli studi.

Nel '76 gli muore un altro fratello. Nel '79 viene coinvolto nelle agitazioni che seguirono alla condanna a morte dell'anarchico Giovanni Passanante, che attentò alla vita del re Umberto I a Napoli: arrestato, per più di tre mesi resterà in carcere. Verrà prosciolto con formula piena, anche per la testimonianza scritta del Carducci. Il carcere fu comunque un'esperienza che lo segnò, interiormente, in maniera decisiva. Decise di abbandonare l'attività politica e di laurearsi; con l'aiuto del Carducci ottiene nel 1883 la cattedra di latino e greco al liceo di Matera. Nel 1887 passa a Livorno, dove rimarrà sette anni. Nel corso di questi anni, per aumentare il magro stipendio si dedica a vari incarichi intellettuali e a lezioni private. Nel 1895 con la sorella Maria, si trasferisce a Castelvecchio di Barga in provincia di Lucca. Nel '91 (era ancora a Livorno) pubblica il suo primo volumetto di poesie, Myricae, che resta la sua opera più famosa (l'altra è Canti di Castelvecchio del 1903), mentre l'anno seguente vince il primo premio al concorso internazionale di poesia latina ad Amsterdam (lo vincerà per altre 12 volte!). La sua fama di latinista gli permette nel '95 di abbandonare l'insegnamento liceale per quello universitario. Diventa docente universitario incaricato di latino e greco a Bologna. Nel 1905 è nominato titolare della cattedra di letteratura italiana dell'Università di Bologna, succedendo al Carducci, che aveva chiesto il collocamento a riposo, e che aveva espresso parere favorevole riguardo a tale successione. Il 16 gennaio del 1906 Carducci muore e Pascoli si propone come suo successore. Nel 1907 tiene la commemorazione ufficiale del Carducci. Il 26 novembre del 1911 pronuncia a Barga un discorso in favore dei feriti nella guerra libica. Il 18 febbraio del 1912 si ammala di cirrosi epatica che lo costringe a lasciare Castelvecchio per cercare cure più idonee a Bologna. Nel marzo dello stesso anno vince per l'ultima volta la XII Medaglia d'oro al concorso di poesia latina di Amsterdam in Olanda. Il 6 aprile muore a Bologna assistito dalle sorelle e da Falino.

Nel campo mezzo grigio e mezzo nero resta un aratro senza buoi che pare dimenticato, tra il vapor leggero. E cadenzato dalla gora viene lo sciabordare delle lavandare con tonfi spessi e lunghe cantilene: Il vento soffia e nevica la frasca, e tu non torni ancora al tuo paese! quando partisti, come son rimasta! come l’aratro in mezzo alla maggese. Nel campo che è per metà arato per metà no c’è un aratro senza buoi che sembra dimenticato, in mezzo alla nebbia. E scandito dalla riva del fiume si sente il rumore delle lavandaie che lavano i panni, sbattendoli, e lunghe cantilene: Il vento soffia e ai rami cadono le foglie, e tu non sei ancora tornato! da quando sei partito sono rimasta come un aratro abbandonato in mezzo al campo. LAVANDARE: (Da Myricae del 1903)

Giuseppe Ungaretti nasce l'8 febbraio 1888 ad Alessandria d'Egitto da genitori lucchesi. Fino al 1905 frequenta l'École Suisse Jacot e approda nel mondo della letteratura grazie alla lettura dei maggiori scrittori moderni e contemporanei, ed entra in rapporti epistolari con Giuseppe Prezzolini, allora direttore della "Voce". Degli anni africani rimarrà in lui anche la memoria di un paesaggio fantastico e irreale, che, rapito e trasfigurato dal sogno, si ritroverà nei suoi versi (cfr. Notte di Maggio; Ricordo d'Affrica). Nel 1912 attraversa l'Italia per giungere a Parigi dove frequenta il Collège de France e La Sorbonne ed ha la possibilità di seguire i corsi del filosofo Henri Bergson. Nella capitale francese ha, soprattutto, la possibilità di entrare in contatto con gli ambienti dell'avanguardia, scrivendo versi e conoscendo alcuni artisti e pittori come Apollinaire, Picasso, Braque, De Chirico, Modigliani.

Nel 1914, ad una mostra futurista, prende contatto con il gruppo fiorentino (Papini, Soffici, Palazzeschi), grazie ai quali pubblica nel 1915 le prime poesie su "Lacerba". Sempre nel 1914, giunto in Italia, si arruola come volontario nella fanteria per combattere nella Grande Guerra, e viene inviato a combattere sul Carso, da cui produrrà le liriche pubblicate ad Udine nel 1916 con il titolo "Il porto sepolto". I versi del periodo successivo appariranno nel 1919 in "Allegria dei naufragi". Le due raccolte confluiranno, poi, nel volume "L'allegria" del Nel 1918, alla fine del conflitto, torna a Parigi, dove sposa Jeanne Dupoix. Nel 1919 pubblica dei versi in francesi sotto il titolo "La guerre" ed è corrispondente per "Il popolo d'Italia". Nel 1921 si trasferisce a Roma e nel 1933 pubblica la raccolta "Sentimento del tempo". Si dedica all'attività di giornalista, che, tra il 1931 e il 1934, lo porta a compiere numerosi viaggi in Egitto, Olanda, Corsica e in diverse regioni italiane. Collabora con diversi periodici italiani. É redattore di "Commerce" e condirettore di "Mesures". Nel 1936 ricopre la cattedra di Letteratura Italiana presso l'Università di San Paolo in Brasile, fino al 1942, quando, rientrato in Italia, insegna Letteratura Italiana contemporanea presso l'Università di Roma. Nello stesso anno viene nominato Accademico d'Italia e Mondadori pubblica le sue opere con il titolo "Vita di un uomo". La morte del fratello Costantino (1937) e del figlio Antonietto (1939) caratterizzano la prima raccolta poetica del dopoguerra, "Il dolore" (1947), al quale seguiranno "La terra promessa" (1950), "Un grido e paesaggi" (1952) e "Il taccuino del vecchio" (1961). Nel 1949 pubblica le prose in "Il povero e la città". Nel 1961 "Il deserto e dopo". Ridotta la sua attività creativa, Ungaretti attende l'edizione completa e definitiva dei suoi versi, pubblicati nel 1969 con il titolo "Vita di un uomo. Tutte le poesie". Muore a Milano nella notte tra il 1 e il 2 giugno Nel 1974 esce il volume degli scritti critici con il nome "Vita di un uomo. Saggi e interventi". Da ricordare le sue notevoli tradizioni.

Natale (Da L’Allegria del 1916) Non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo di strade Ho tanta stanchezza sulle spalle Lasciatemi così come una cosa posata in un angolo e dimenticata Qui non si sente altro che il caldo buono Sto con le quattro capriole di fumo del focolare Non ho voglia di camminare in un intrico di strade Sono molto stanco Voglio essere lasciato solo così come un oggetto dimenticato in un angolo Qui non si sente altro che il caldo amico Rimango vicino al calore del camino con le quattro giravolte fatte dal fumo

Nacque ad Arezzo nel 1304 da Ser Petracco, un notaio fiorentino che faceva parte del gruppo dei Bianchi, esiliato come Dante nel 1302 in seguito alla vittoria dei Neri, e da Eletta Canigiani. Nel 1312 il padre si trasferì ad Avignone (lavorava presso la corte Pontificia) e collocò moglie e figli a Carpentras, dove Francesco Petrarca cominciò a studiare guidato da Convenevole da Prato. Seguì, insieme al fratello Gherardo gli studi giuridici (iniziati a Montpellier nel 1316 e conclusi a Bologna tra il 1320 e il 1326). Tornato a Avignone dopo la morte del padre, frequentò il mondo elegante della città. Qui, il 6 aprile 1327, nella chiesa di Santa Chiara, vide per la prima volta la donna che amò per tutta la vita e a cui si ispira nelle sue opere poetiche in italiano: Laura, identificata tradizionalmente con una Laura di Noves. Attorno al 1330 prese gli ordini minori, entrando a far parte del clero: lo scopo essenziale era quello di assicurarsi una rendita sicura. Entrò quindi in rapporti di amicizia e di "clientela" con la potente famiglia Colonna. Grazie alla protezione di questa famiglia entrò in contatto con i più importanti intellettuali del tempo, poté studiare e possedere libri costosi e rari, ed avere riconoscimenti pubblici come l'incoronazione a poeta: l'8 aprile 1341, dopo che il re di Napoli Roberto d'Angiò lo aveva "esaminato" per tre giorni, fu celebrato a Roma, in Campidoglio, questa suggestiva cerimonia, la prima del genere nei tempi moderni.

Nella biografia del Petrarca si evidenzia una sorta di irrequietezza che lo porta a viaggiare per gran parte d'Italia e d'Europa (a partire dal 1333, quando si muove per la Francia, per le Fiandre e la Germania), visitando luoghi, monumenti antichi, biblioteche. Periodicamente tornava però a raccogliersi in operosa meditazione (nella composizione di opere o nell'approfondimento di letture) in luoghi solitari come Valchiusa (vicino ad Avignone), Selvapiana (presso Parma) e, negli ultimi anni, Arquà sui colli Euganei. Questa aspirazione alla vita raccolta si esprime anche in operette come il De Vita Solitaria e il De Ocio Religiosorum. A partire dagli anni '40 la fama del Petrarca cresce sempre più. Accolto ovunque con onori e riconoscimenti, entra in contatto con varie nobili famiglie italiane (i Correggio di Parma negli anni Quaranta, i Visconti di Milano tra il 1353 e il 1361, i da Carrara di Padova nell'ultimo decennio della sua vita). Dopo il 1350 entra in stretti rapporti d'amicizia con Giovanni Boccaccio (che lo considera un maestro spirituale e culturale): ma rifiutò una cattedra nello Studio di Firenze, come rifiutò di li a poco il posto di segretario del cardinalato in Provenza offertogli dal Papa. Varie vicende lo portano negli ultimi anni a rinchiudersi sempre più in se stesso: la morte di Laura, avvenuta nel 1348 in seguito alla peste che infuriò in quegli anni in tutta l'Europa (quella stessa che fa da cornice alla struttura del Decameron boccacciano), quella precoce del figlio Giovanni (un'altra figlia, Francesca, nata nel 1343, vivrà con il padre fino alla sua morte), il venir meno delle speranze di rinnovamento politico (il tentativo di Cola di Rienzo, fallito nel 1347), l'aggravarsi della corruzione ecclesiastica (gli ultimi anni della "cattività" avignonese: solo dopo la morte del Petrarca il papato tornerà nella sua sede romana). Ad Arquà, dove si era stabilito definitivamente dal 1370, morì nel 1374.

Solo e pensoso i più deserti campi vo mesurando a passi tardi e lenti, e gli occhi porto per fuggire intenti ove vestigio uman l'arena stampi. Solitario e pensieroso i luoghi più abbandonati vado segnando con il mio passo lento e cadenzato e rivolgo lo sguardo, attento ad evitare ogni luogo toccato da orma umana. Altro schermo non trovo che mi scampi dal manifesto accorger de le genti, perché negli atti d'alegrezza spenti di fuor si legge com'io dentro avampi: Altro rifugio non so trovare che mi protegga dall'attenzione ( indiscreta ) della gente; nei miei gesti privi di ogni serenità esteriormente si intuisce come io, nell'intimo, arda d'amore: sì ch'io mi credo omai che monti et piagge e fiumi et selve sappian di che tempre sia la mia vita, ch'è celata altrui. cosicché credo ormai che monti, pianure fiumi, boschi conoscano di che tenore è la mia vita, che pure è tenuta segreta agli altri. Ma pur sì aspre vie né sì selvagge cercar non so ch'Amor non venga sempre ragionando con meco, et io co·llui. Del resto nessun angusto e solitario luogo so trovare, in cui Amore non mi accompagni in ogni istante parlando con me ed io con lui. SOLO E PENSOSO: (da il Canzoniere del )

E come dice un importante autore:” Tutto sarebbe più semplice se nascessimo con le istruzioni per l'uso e la data di scadenza.” Ma purtroppo non è così, sarebbe troppo semplice nascere..e già sapere tutto! Infatti ogni giorno è una lezione di vita..e ogni giorno c’è sempre qualcosa di nuovo da imparare… ed è quello che noi stiamo facendo, ma non da soli.. Perché sappiamo che al nostro fianco ci sarà sempre lei.. a indicarci la “DIRITTA VIA”. Per ultima ma non meno importante delle altre, la poesia della nostra:

(Da “ Tra un fiore colto e l’altro donato”) Quei tuoi sguardi Hanno trapassato la mia anima… Come potevo fermare quell’abbraccio Sbocciato da un istinto pacato Che mi faceva intravedere Quelle pieghe dell’anima Che parlavano dei tuoi guai E già mi appartenevano?