Dagli ultimi secoli dell’impero romano, il latino classico e il latino volgare sono sempre più distanti: Latino letterario → cerca di seguire le regole del latino classico; Latino volgare → si allontana sempre più dalla lingua d’origine.
Nella scrittura ritroviamo sempre più dei volgarismi che sono la dimostrazione delle diverse realtà linguistiche del territorio; Il passaggio dal latino alle varie lingue romanze (spagnolo, italiano, francese) avviene a poco a poco e nasce dalla necessità di scrivere testi che potessero essere compresi anche da persone meno istruite; nascono, così, dei testi che presentano una base latina e una presenza sempre più grande di elementi in volgare.
Se pareba boves, alba pratalia araba, albo versorio teneba et negro semen seminaba. (“Si spingeva innanzi i buoi, arava bianchi prati, teneva un bianco aratro, e seminava nero seme”) soluzione dell’indovinello: lo scrivano; boves, alba, et, semen → parole latine; pareba “ spingeva innanzi”, versorio “aratro”, araba, teneba, seminaba → volgarismi
Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti (“So che quelle terre, per quei confini di cui qui si parla, trent’anni le possedette la parte [₌il Monastero] di San Benedetto”) i placiti (“decisioni del giudice”) riportano la testimonianza di alcune persone davanti al notaio per la proprietà di alcune terre; contene → in italiano contiene; fini “confini”; sao “so” > saccio ; ko “che”, kelle “quelle”, ki “qui”
Commento scherzoso di un notaio toscano che registra la donazione dei beni di due coniugi al monastero di San Salvatore (sul Monte Amiata) Ista cartula est de caput coctu Ille adiuvet de illu rebottu Qui mal consiliu li mise in corpu “Questa carta è di Capocotto (testa calda, si fa riferimento al donatore); lo aiuti da quel ribaldo (il diavolo) che il cattivo consiglio gli mise in corpo”
I volgari nei sec. XI, XII, XIII hanno sempre più importanza e, come lingue vere e proprie, vengono usati nei documenti e negli scritti letterari; Le città in cui il volgare viene sempre più usato: Milano →scrittore più importante Bonvesin de la Riva che ha scritto opere sia in latino che in volgare. La sua opera maggiore è il Libro delle tre scritture (rif. Dante); Genova →scrittore più importante è l’Anonimo Genovese; Bologna → Guido Faba importante perché, per la prima volta, usò il volgare per scrivere discorsi pubblici;
Palermo → all’inizio del XIII sec. nasce la prima scuola poetica in volgare che prende il nome di Scuola poetica siciliana; i poeti più importanti sono: Cielo d’Alcamo, Giacomo da Lentini, Guido delle Colonne; la lingua che viene usata è il volgare senza i più evidenti elementi siciliani e con la presenza di latinismi (parole della lingua latina inserite nella nuova lingua) e provenzalismi (parole della lingua provenzale inserite nella nuova lingua); Firenze → le opere dei poeti siciliani vengono copiati da copisti fiorentini che danno al testo un’apparenza maggiormente toscana; in Toscana nascerà lo Stilnovo (stacco dal volgare vero e proprio e ricerca verso un’espressione più nobile e ricercata).
In Italia la letteratura italiana si affermò con un secolo di ritardo rispetto alla Francia, all’inizio del Duecento Si sviluppa in un contesto molto diverso poiché la vita ha come centro la città sede di attività politiche che presuppongono una attiva partecipazione del cittadino La letteratura italiana alle origini subisce potentemente il fascino dei modelli francesi tanto che le letterature d’oc (usava la lingua provenzale o l’occitanico al sud della Francia) e d’oil (utilizzava l’antico francese, si sviluppò nella Francia del nord ed è la lingua dalla quale si svilupperà, nel corso dei secoli, il francese attuale) sono un presupposto fondamentale della nostra letteratura
Il volgare non serve a diffondere la cultura presso gli strati più ampi della popolazione ma, al contrario, all’espressione di una cerchia chiusa e raffinatissima Il gruppo dei funzionari alla corte di Federico II cerca nella poesia una forma di nobilitazione, di suggello dell’appartenenza ad una cerchia eletta Prendono come modello quello provenzale con la concezione dell’amor cortese e delle forme poetiche in cui i trovatori lo avevano cantato Non impiegano la lingua d’oc ma ricorrono al loro stesso volgare
In questa scelta hanno un ruolo fondamentale: - l’orgoglio di appartenere ad una cerchia esclusiva; - l’appartenenza ad un organismo politico (lo stato di Federico II); - la grande distanza che separa i volgari meridionali dalla lingua d’oc (mentre i poeti settentrionali riuscivano a scrivere in quella lingua più affine alle loro parlate ed anche più familiare). Gli appartenenti alla Scuola poetica siciliana non utilizzano il volgare siciliano parlato ma elaborano una lingua letteraria raffinata impiegando termini ricalcati sul linguaggio amoroso trobadorico, cioè letterari; un siciliano illustre.
Nella sua opera De vulgari eloquentia identifica sul territorio italiano 14 volgari e vuole trovarne uno più elegante degli altri per far si che possa essere il volgare “illustre” cioè raffinato; voleva una lingua unica per tutta l’Italia e crede che questo sia possibile con l’impegno degli intellettuali; nella sua opera Divina commedia utilizza il volgare fiorentino cioè una lingua per i colti, per gli intellettuali e che è frutto di vari stili (dal più alto al plebeo), di elementi francesi, provenzali e siciliani, da forme toscane o settentrionali; l’importanza di quest’opera fu per il successo che ebbe anche a livello popolare.
La fortuna di Dante fu grandissima e, con essa, fu anche immenso il successo letterario del toscano. La Divina Commedia ebbe grande diffusione, veniva recitata da illetterati, gente del popolo e veniva diffusa sia attraverso lo scritto che tramite l’oralità. Le prime zone in cui venne diffusa furono: - Emilia dove Dante aveva trascorso gli anni dell’esilio - Veneto ma alla fine del Trecento l’opera era diffusa in tutta Italia in strati anche ‘bassi’ della popolazione. La forza con la quale si diffuse il toscano fu enorme quando oltre alla gloria di Dante vi furono anche quella di Petrarca e Boccaccio.
Ma più è 'l tempo già che i piè mi cossi e ch'i' son stato così sottosopra, ch'el non starà piantato coi piè rossi: ché dopo lui verrà di più laida opra, di ver' ponente, un pastor sanza legge, tal che convien che lui e me ricuopra. (Ma ora è già più [lungo] il tempo che io mi sono cotto i piedi e che sono stato così, sottosopra, di quel [tempo] che non starà egli [Bonifacio] coi piedi accesi: perché dopo di lui [Bonifacio] verrà da Ponente, [per compiere] un’opera più terribile, un pastore senza legge che dovrà mettere giù lui e me.) Inferno, Canto IX
Né per tanto di men parlando vommi con ser Brunetto, e dimando chi sono li suoi compagni più noti e più sommi. Ed elli a me: «Saper d'alcuno è buono; de li altri fia laudabile tacerci, ché 'l tempo saria corto a tanto suono. In somma sappi che tutti fur cherci e litterati grandi e di gran fama, d'un peccato medesmo al mondo lerci. Priscian sen va con quella turba grama, e Francesco d'Accorso anche; e vedervi, s'avessi avuto di tal tigna brama, colui potei che dal servo de' servi fu trasmutato d'Arno in Bacchiglione, dove lasciò li mal protesi nervi.
(Non per questo smisi di parlare con Ser Brunetto e gli domandai chi fossero i suoi compagni di pena più importanti. E lui a me:”È bene conoscerne qualcuno, degli altri sarà meglio tacere perché occorrerebbe troppo tempo per elencarli tutti. Sappi, insomma, che furono tutti chierici e letterati di grande fama sporchi per lo stesso peccato. Prisciano va con quella brutta schiera e anche Francesco D’Accorso e se avessi desiderio di vedere questa sporcizia potresti vedere colui che il servo dei servi [Bonifacio VIII] trasferì da Firenze a Vicenza dove morì e lasciò i suoi sensi al vizio). Inferno, Canto XV
In forma dunque di candida rosa mi si mostrava la milizia santa che nel suo sangue Cristo fece sposa; ma l'altra, che volando vede e canta a gloria di colui che la 'nnamora e la bontà che la fece cotanta, sì come schiera d'ape che s'infiora una fiata e una si ritorna là dove suo laboro s'insapora, nel gran fior discendeva che s'addorna di tante foglie, e quindi risaliva là dove 'l suo amor sempre soggiorna. Le facce tutte avean di fiamma viva e l'ali d'oro, e l'altro tanto bianco, che nulla neve a quel termine arriva. Quando scendean nel fior, di banco in banco porgevan de la pace e de l'ardore ch'elli acquistavan ventilando il fianco. Paradiso, Canto XXXI
(In forma di una rosa candida mi apparvero le anime dei beati che Cristo unì a sé versando il suo sangue per la loro redenzione, ma l’altra [milizia] quella degli angeli che, volando, vedono e cantano la gloria di Dio che li innamora di sé e la bontà di lui che li creò così perfetti come uno sciame d’api che ora si posa sui fiori, ora ritorna là dove il suo lavoro prende sapore, discendeva nell’immensa rosa dei beati che si arricchisce di tanti petali e dal fiore risaliva verso Dio)
A differenza di Dante non include nei suoi scritti espressioni popolari ma segue l’ideale di una lingua raffinata più ricca di elementi derivati dal latino e dal provenzale che dal toscano parlato; ricerca la lingua “illustre” e tra latino e volgare preferisce il primo, usa il fiorentino ma elimina ogni elemento che fa parte dello stile ‘basso’.
L'aura soave al sole spiega et vibra l'auro ch'Amor di sua man fila et tesse là da' belli occhi, et de le chiome stesse lega 'l cor lasso, e i lievi spirti cribra. Non ò medolla in osso, o sangue in fibra, ch'i' non senta tremar, pur ch'i' m'apresse dove è chi morte et vita inseme, spesse volte, in frale bilancia appende et libra, vedendo ardere i lumi ond'io m'accendo, et folgorare i nodi ond'io son preso, or su l'omero dextro et or sul manco. I' nol posso ridir, ché nol comprendo: da ta' due luci è l'intellecto offeso, et di tanta dolcezza oppresso et stanco. (Canzoniere, Canto 198)
L’aria soave distende e fa vibrare al sole l’oro che Amore fila e tesse di sua mano dietro ai begli occhi e con quelle stesse chiome lega il (mio) cuore sfinito e disperde i (miei) deboli spiriti vitali. Non ho midollo nelle ossa, né sangue nelle vene che io non senta tremare se anche solo mi avvicino al luogo dove si trova colei che spesso, mettendo e togliendo pesi su una fragile bilancia, mi tiene in equilibrio tra la vita e la morte, vedendo brillare i lumi che mi fanno ardere e risplendere al sole, i nodi dai quali sono catturato, ora sulla spalla destra ora sulla sinistra. Io non posso riferirlo, perché non lo comprendo: da tali luci l’intelletto è abbagliato e da tanta dolcezza è oppresso e stanco.
Eccessiva limitatezza del lessico incentrato sull’interiorità dell’autore (belli, cor, morte, vita, offeso) ed usato sfruttandone tutti i possibili significati [ad es. offeso lo si ritova con il significato di ‘abbagliato’ ma anche di ‘colpito’: alma, non ti lagnar, ma soffra et taci, et tempra il dolce amaro, che n'à offeso, col dolce honor che d'amar quella ài preso a cui io dissi: Tu sola mi piaci. (Canto 205 vv. 1 e segg.) ]; uso di numerose voci appartenenti alla prosa e alla poesia di stile aspro e comico realistico (medolla); uso della paronomasia (l’aura/l’auro); uso di elementi galloromanzi (frale <fraile <fragĭlem); uso di latinismi (cribra ‘disperdere’);
Nella sua opera Decameron usa un volgare fiorentino che si adatta alle varie storie che vengono narrate poiché i destinatari della sua opera sono vari (non solo intellettuali ma anche mercanti e borghesi); per la prima volta viene utilizzata una lingua ‘parlata’.
Quantunque volte, graziosissime donne, meco pensando riguardo quanto voi naturalmente: tutte siete pietose, tante conosco che la presente opera al vostro iudicio avrà grave e noioso principio, sì come è la dolorosa ricordazione della pestifera mortalità trapassata, universalmente a ciascuno che quella vide o altramenti conobbe dannosa, la quale essa porta nella fronte. (Introduzione, 1) Tutte le volte che, graziosissime donne, rifletto su quanto voi siete per natura tutte compassionevoli, allora riconosco che la presente opera, secondo il vostro giudizio, avrà un inizio grave e doloroso, quale è appunto il doloroso ricordo della mortalità passata, dovuta alla peste, per tutti quelli che la videro o in altri modi ne conobbero i danni, un ricordo che questa opera porta in apertura.
Pestifera mortalità trapassata → espressione non più in uso Ricordazione → per ‘ricordo’ Noioso → non sta per ‘doloroso’ Iudicio e altramenti → presenti nelle forme ‘giudizio’ e ‘altrimenti’ Riguardo quanto voi → la costruzione è riguardo + prep. A Anteposizione degli aggettivi
Currado Gianfigliazzi, sí come ciascuna di voi e udito e veduto puote avere, sempre della nostra città è stato notabile cittadino, liberale e magnifico, e vita cavalleresca tenendo continuamente in cani e uccelli s’è dilettato, le sue opere maggiori al presente lasciando stare. Il quale con un suo falcone avendo un dí presso a Peretola una gru ammazzata, trovandola grassa e giovane, quella mandò a un suo buon cuoco, il quale era chiamato Chichibio e era viniziano; e sí gli mandò dicendo che a cena l’arostisse e governassela bene. Chichibio, il quale come nuovo bergolo era così pareva, acconcia la gru, la mise a fuoco e con sollecitudine a cuocer la cominciò.
La quale essendo già presso che cotta e grandissimo odore venendone, avvenne che una feminetta della contrada, la quale Brunetta era chiamata e di cui Chichibio era innamorato, entrò nella cucina, e sentendo l’odor della gru e veggendola pregò caramente Chichibio che ne le desse una coscia. Chichibio le rispose cantando e disse:«Voi non l’avrí da mi, donna Brunetta, voi non l’avrí da mi». Di che donna Brunetta essendo turbata, gli disse:«In fé di Dio, se tu non la mi dai, tu non avrai mai da me cosa che ti piaccia», e in brieve le parole furon molte; alla fine Chichibio, per non crucciar la sua donna, spiccata l’una delle cosce alla gru, gliele diede.
Essendo poi davanti a Currado e a alcun suo forestiere messa la gru senza coscia, e Currado, maravigliandosene, fece chiamare Chichibio e domandollo che fosse divenuta l’altra coscia della gru. Al quale il vinizian bugiardo subitamente rispose:«Signor mio, le gru non hanno se non una coscia e una gamba». Currado allora turbato disse:«Come diavol non hanno che una coscia e una gamba? Non vid’io mai più gru che questa?» Chichibio seguitò:«Egli è, messer, com’io vi dico; e quando vi piaccia, io il vi farò veder ne’ vivi».
Currado per amor de’ forestieri che seco avea non volle dietro alle parole andare, ma disse:«Poi che tu di’ di farmelo veder ne’ vivi, cosa che io mai più non vidi né udi’ dir che fosse, e io il voglio veder domattina e sarò contento; ma io ti giuro in sul corpo di Cristo che, se altramenti sarà, che io ti farò conciare in maniera, che tu con tuo danno ti ricorderai, sempre che tu ci viverai, del nome mio». (Decameron, giorn.VI, nov. IV, 3-13, pp )