VISITARE I CARCERATI Le opere di misericordia PARROCCHIA MARIA SS. ADDOLORATA OPERA DON GUANELLA – BARI Anno Pastorale
Introduzione “Ero carcerato e siete venuti a visitarmi” (Mt 25,36). Le parole di Gesù presentano il carcerato come persona bisognosa di cura e di relazione.
Se il malato o l’affamato o l’assetato o chi è nudo (cfr. Mt 25,35-36) possono essere visti semplicemente come vittime, come persone segnate da disgrazie, il carcerato porta lo stigma di una colpa, di un delitto commesso.
MA GESÙ, CHE SI È FATTO COMPAGNO DI PECCATORI E PERSONE DISONESTE ANNUNCIANDO A TUTTI LA COMUNIONE DI DIO E LA POSSIBILITÀ DELLA CONVERSIONE, NON ESITA A IDENTIFICARSI CON CHI È PRIVATO DELLA LIBERTÀ IN PRIGIONE.
Egli non esita neppure - come apparirà evidente dalla sua condizione di crocifisso, di prigioniero condannato a morte che porta su di sé lo stigma del peccatore - ad apparire come un colpevole che suscita ripugnanza e disgusto in coloro che lo vedono e proiettano su di lui il male di cui è accusato.
Per visitare i carcerati occorre pertanto fare un lavoro su di sé che comporta: percezione la percezione della tragedia della perdita della libertà da parte di un uomo; coscienza la coscienza della vergogna che spesso abita colui che e in prigione; discernimento il discernimento delle prigionie a cui noi stessi ci condanniamo; riconoscimento il riconoscimento della nostra sete di libertà e del nostro desiderio di riscatto dalle schiavitù interiori e dagli idoli; discernimento il discernimento della nostra debolezza che ci porta a essere omicidi, ladri, malvagi, calunniatori, violenti... (cfr. Mc 7,21-23) nel nostro cuore, anche se non arriviamo a esternare in atti gli impulsi interiori; sviluppo lo sviluppo della capacità di compassione per la nostra fragilità, che è anche la via d’accesso per entrare in contatto profondo con chi è in carcere e soffre per il rimorso o l’indurimento del cuore o perché preda della ribellione o per l’assenza di un futuro... Lavoro su di sé che tende a dilatare gli spazi della carità del cuore per non giudicare mai il peccatore e, anzi, per riconoscere in lui un fratello con cui essere solidali.
In ascolto della Bibbia La Scrittura ci informa in particolare sul rapporto tra i membri delle comunità cristiane e i fratelli in carcere per motivi di fede.
In uno scritto del Nuovo Testamento l’autore si rivolge ai suoi destinatari dicendo: “Avete preso parte alle sofferenze (synepathésate; Vulgata: compassi estis) dei carcerati” (Eb 10,34).
Questa partecipazione compassionevole non si esaurisce su un piano sentimentale, ma comporta un livello pratico e concreto fatto di atti di generosità, visite, aiuti materiali come provviste di cibo e vestiario.
Nel contesto del passo della Lettera agli Ebrei, l’attiva compassione è forma di solidarietà comunitaria con cui la chiesa locale manifesta la sua vicinanza ai membri cristiani che per la loro fede sono stati imprigionati.
Effettivamente il cristianesimo nascente ha conosciuto a lungo misure restrittive, emarginazioni e persecuzioni, sicché poteva accadere che si fosse incarcerati per motivi di fede.
Del resto, se i profeti, Geremia in particolare, hanno conosciuto il carcere a causa della loro libertà nell’annunciare la parola di Dio anche contro gli interessi dei potenti, se Giovanni Battista è stato incarcerato e se Gesù è stato osteggiato e arrestato dalle autorità religiose e politiche, anche i discepoli di Gesù dovranno mettere in conto questa eventualità.
Gesù stesso li avverte che potranno essere consegnati alle prigioni (cfr. Lc 21,12).
La comunità si fa vicina a Pietro in carcere con l’intercessione: “Pietro era tenuto in prigione mentre una preghiera saliva incessantemente a Dio dalla chiesa per lui” (At 12,5) e Paolo esprime gratitudine per la concreta vicinanza mostratagli dai cristiani di Filippi durante la sua detenzione e manifestatasi anche con l’invio di aiuti per mezzo di Epafrodito (cfr. Fil 1, ; 2,25; 4,14-18).
Il carcerato non cessa di essere parte della comunità cristiana! L’autore della Lettera agli Ebrei scrive: “Ricordatevi dei carcerati come se foste loro compagni di carcere” (Eb 13,3).
Qui occorre ricordare le penose condizioni delle prigioni dell’antichità. Geremia rischia di morire di fame nella prigione in cui è stato gettato (cfr. Ger 38,1-13).
Pietro, in carcere, è legato in catene e piantonato da guardie (cfr. At 12,3-6); a Filippi, Paolo e Sila finiscono in carcere dove i loro piedi sono chiusi in ceppi (cfr. At 16,24).
Secondo lo storico romano Sallustio, “squallore, buio e fetore” 1 rendevano le celle delle carceri, spesso costituite da pareti in pietra senza finestre, luoghi orrendi, spaventosi e soffocanti. 1. Sallustio, La congiura di Catilina 55,3, in Id., La congiura di Catilina. La guerra giugurtina. Orazioni e Lettere, a cura di G. Lipparini, Zanichelli, Bologna 1962, p. 73
Da Luciano di Samosata (il secolo d.C.) sappiamo che i prigionieri vivevano in spazi stretti e in condizioni squallide, spesso impediti di dormire dallo sferragliare delle loro stesse catene.
nessuno ignora di quale disumanità e crudeltà sono capaci i carcerieri: insensibili per natura, la pratica quotidiana li rende feroci come belve Filone di Alessandria, De Josepho 81, a cura di G. Laporte, Cerf, Paris 1964, p. 77.
La sollecitudine dei cristiani verso i loro fratelli imprigionati si manifestava nel provvedere loro cibo e vivande: spesso, infatti, i prigionieri erano privati anche della misera quantità di cibo che doveva essere loro garantito (fiscalis cibus).