IL PADRE MISERICORDIOSO PARROCCHIA MARIA SS. ADDOLORATA OPERA DON GUANELLA Luca 15,11-32 BARI, 09 – 11 – 2015.

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IL PADRE MISERICORDIOSO PARROCCHIA MARIA SS. ADDOLORATA OPERA DON GUANELLA Luca 15,11-32 BARI, 09 – 11 – 2015

1. ATTENDERE LA PAROLA Dio onnipotente e misericordioso, che ci hai riuniti nel nome del tuo Figlio, per darci grazia e misericordia, apri i nostri occhi, perché vediamo il male commesso e tocca il nostro cuore, perché ci convertiamo a te. Il tuo amore ricomponga nell’unità ciò che la colpa ha disgregato; la tua potenza guarisca le vostre ferite e sostenga la nostra debolezza; il tuo Spirito rinnovi tutta la nostra vita e ci ridoni la forza della tua carità, perché risplenda in noi l’immagine del tuo Figlio e tutti gli uomini riconoscano nel volto della Chiesa la gloria di colui che tu hai mandato, Gesù Cristo nostro Signore. Amen (Rito della Penitenza)

2. ASCOLTARE LA PAROLA Lettura del testo (Lc 15,11-32) 11 Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. 12 Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spet­ta”: Ed egli divise tra loro le sue sostanze. 13 Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo disso­luto. 14 Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15 Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. 16 Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. 17 Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18 Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; 19 non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. 20 Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassio­ne, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. 21 Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. 22 Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. 23 Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24 perché que­sto mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”: E cominciarono a far festa. 25 Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; 26 chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. 27 Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”: 28 Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. 29 Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbe­dito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. 30 Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”: 31 Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; 32 ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

La richiesta del figlio minore All’inizio della celebre parabola del «figlio prodigo », o del «padre misericordioso», Gesù mette in scena tre personaggi: un padre e i suoi due figli (cfr. 15,11).

Il figlio minore reclama una decisione a proprio favore (cfr. 15,12). La richiesta dell’eredità informa intorno all’esistenza di qualche sostan­za in possesso del Padre. Al lettore è dato di immaginare che l’uomo sia perlomeno benestante se non addirittura ricco (senza per il resto sapere l’entità precisa delle sue proprietà).

Il narratore invece tace in­teramente sia i motivi che spingono il figlio minore a esigere l’eredità, sia i motivi che inducono il padre ad accogliere la richiesta.

Nonostante la concisione, non si rinuncia a menzionare il figlio più grande: il padre ha diviso i beni «fra loro». Sicché a ricevere il pos­sesso delle proprietà sono ambedue i figli. Il comportamento del pa­dre non presta, dunque, il fianco ad una possibile accusa d’ingiustizia.

Occorre chiedersi quale sia il significato della richiesta fatta dal minore. Qualcuno vi legge il desiderio di anticipare, almeno simboli­camente, la morte del padre, ponendo il genitore al di fuori dell’oriz­zonte della propria esistenza.

Una tale lettura non è corretta in quanto una simile richiesta era assai diffusa nel contesto ellenistico, ed era co­nosciuta pure nel mondo ebraico.

Il fatto, per esempio, che il saggio Siracide sconsigli di alienare la propria ricchezza in vita e induca ad assegnare l’eredità alla fine dei propri giorni (cfr. Sir 33,20-24) è segno che la pratica era in auge.

Ecco come avveniva: la proprietà passava dal genitore al figlio, ma l’usufrut­to o l’interesse continuava a rimanere del padre sino alla morte. Sicché l’azione del figlio minore non travalica i confini dei costumi sociali ma è inscritta nelle usanze culturali dell’epoca.

 Avendo avuto soddisfazione, senza troppa fatica, della propria ri­chiesta, il ragazzo persegue un secondo obiettivo, ovverosia partire (cfr. 15,13-16). II narratore dice unicamente che il ragazzo è andato in un «paese lontano», senza specificare quale.

A questo punto appare la prima sorpresa del racconto: la vicenda prende a poco a poco una piega negativa. Il capovolgimento è de­scritto con fine maestria. La dispersione del patrimonio non è dovuta a motivi esterni, bensì allo stile di vita del giovane. Egli, infatti, si com­porta da scialacquatore.

Già Aristotele definiva gli scialacquatori gli intemperanti e gli spendaccioni per la loro licenza. In senso proprio denota il possessore di un unico vizio, cioè quello di distruggere i propri mezzi di sussistenza.

Il lettore ignora precisamente che cosa il figlio minore faccia in terra lontana. Al narratore non sta a cuore enumerare precisamente tutto quanto il giovane abbia compiuto, ma configurare una nuova situazione dominata da controvalori.

La carestia Improvvisa e inattesa giunge una complicazione: la carestia. L’e­spressione ricorda un cliché ben conosciuto nella Scrittura, dove il flagello della fame obbliga a compiere scelte di necessità. Lo spazio, precedentemente teatro della liberalità, si trasforma in luogo di costri­zione, determinando pesantemente l’esistenza di chi ci vive.

In realtà, la carestia non è la vera causa del dramma, perché quelli che dispon­gono di denaro non vivono male: il proprietario dei porci non sembra essere nel bisogno (cfr. 15,15).

Il cambiamento dello spazio rivela una nuova fase dell’esperienza. Ormai sul lastrico, il ragazzo è obbligato a fare qualcosa per potersi mantenere in tempo di carestia. Luca precisa non solo la sua condi­zione economica, ma pure quella sociale: il minore «si incolla» ad un cittadino, dedicandosi al suo servizio senza riserve, come uno schiavo.

Espressa la sudditanza, il testo rivela la sorpresa che più profonda­mente dice lo stato di degrado cui il giovane è giunto: egli è manda­to a pascolare i porci. È un’umile occupazione, ma alle orecchie degli ascoltatori ebrei essa appare addirittura spregevole e, soprattutto, in contraddizione coi dettami della Legge.

Quest’ultima, infatti, qualifica i suini come animali impuri, impedendo sia la consumazione delle loro carni sia il contatto con loro (cfr. Lv 11,7-8; Dt 14,8; 1 Mac 1,47; 2 Mac 6,18-28; 7,1-4).

La notizia mostra che il giovane ebreo, assumendo un simile incarico per forza o per necessità, compromette totalmente la propria identità culturale e religiosa.

Non bisogna poi dimenticare l’effetto profondamente ironico che ha il verbo «pascolare»: esso, infatti, indica certamente il compito di «pascere e custodire» la mandria dei porci, ma pure - e qui sta l’i­ronia - la funzione di «nutrire» gli animali, o perlomeno d’aver cura che mangino.

In tempo di carestia, obbligato ad un lavoro umiliante, il ragazzo si trova nella paradossale condizione di vedere che gli animali impuri ingrassano, mentre egli non ha di che sfamarsi.

Infine, il narratore precisa che oggetto del desiderio del ragazzo sono le carrube di cui si nutrono i porci.

L’ironia indubbiamente si fa ancor più marcata: i maiali, infatti, mangiano i legumi che sono loro destinati e così vivono; il giovane, invece, non ha nemmeno quanto le bestie divorano, non perché le bacche manchino, ma perché nessuno gliele dà. In altre parole, agli occhi del padrone la vita del giovane vale meno di quella dei maiali!

Giunti al culmine dell’umiliazione, quando la morte è uno spet­tro ormai vicino, il narratore riporta il monologo interiore del ragazzo (cfr. 15,17-20a). Qualche commentatore in quel rientrare in se stesso, «ritornare in sé», vede il segno della conversione.