IL TOTALITARISMO
Controversia tra gli storici Inutilizzabile dalla storiografia, che cerca di ricostruire e analizzare degli eventi concreti, mentre il concetto di totalitarismo rischia di essere un idealtipo weberiano, cioè un modello astratto irreperibile nella realtà empirica allo stato puro Insostituibile per la teoria politica, in relazione alla novità radicale di regimi tesi all’annientamento dell’autonomia sociale e politica
Eppure, se la storiografia lavora per elaborare una rappresentazione del passato capace di orientarci nel presente, utile per un “uso pubblico” e per formare la nostra coscienza civile, allora questo termine è ancora utile, proprio perché indica nell’uso comune sia regimi politici che luoghi di memoria, come Auschwitz e Kolyma, che hanno lasciato un segno indelebile nella storia del Novecento.
Gli antifascisti italiani e l’origine del termine totalitarismo Nel 1923 il liberale Amendola parlò del fascismo come di un «sistema totalitario», cioè come di una «promessa del dominio assoluto e dello spadroneggiamento completo ed incontrollato nel campo della vita politica ed amministrativa» Nel gennaio 1925 il socialista Lelio Basso afferma che «tutti gli organi statuali, la corona, il parlamento, la magistratura, che nella teoria tradizionale incarnano i tre poteri, e la forza armata che ne attua la volontà, diventano strumenti di un solo partito che si fa interprete dell'unanime volere, del totalitarismo indistinto».
In ambito cattolico Luigi Sturzo del regime sottolineò l’accentramento del potere in un unico partito e la violenza. Inoltre fu il primo ad operare un confronto tra fascismo e bolscevismo scorgendo l’affinità tra i due regimi nel sistema totalitario, cioè nella dittatura del partito che deteneva il monopolio del potere dopo aver eliminato con la violenza gli avversari e bandito il metodo della competizione libera Pio XI il 18 settembre 1938: “Così si dice un po’ dappertutto: tutto deve essere dello Stato; ecco lo Stato totalitario, come lo si chiama: nulla senza lo Stato, tutto allo Stato…. E in questo caso ci sarebbe una grande usurpazione, poiché se c’è un regime totalitario – totalitario di fatto e di diritto – è il regime della Chiesa, perché l’uomo appartiene totalmente alla Chiesa, deve appartenerle, dato che l’uomo è creatura del buon Dio.”
Il fascismo si autodefinisce totalitario In un celebre discorso del giugno 1925 al congresso romano del Partito fascista, Mussolini rivendicava che “la nostra feroce volontà totalitaria sarà perseguita con ancora maggiore ferocia, diventerà veramente l'assillo e la preoccupazione dominante della nostra attività. Vogliamo insomma fascistizzare la nazione, tanto che domani italiano e fascista, come presso a poco italiano e cattolico, siano la stessa cosa” Successivamente «per il fascista, tutto è nello stato, e nulla di umano o spirituale esiste, e tanto meno ha valore, fuori dello stato. In tal senso il fascismo è totalitario, e lo stato fascista, sintesi e unità di ogni valore, interpreta, sviluppa e potenzia tutta la vita del popolo.» (Mussolini-Gentile Voce Fascismo nell’Enciclopedia Italiana)
1934: Herbert Marcuse Per Marcuse il totalitarismo era un prodotto delle trasformazioni del capitalismo moderno, anzi era una nuova versione del capitalismo monopolistico di Stato, a cui il liberalismo non aveva saputo porre rimedio. Per Marcuse il significato del concetto non interessa semplicemente un'organizzazione politica terroristica della società, ma include anche una struttura organizzativa economica e tecnica che manipola i bisogni alla luce di interessi costituiti. Il sistema di produzione e di distribuzione che ne deriva scongiura così il pericolo di un'opposizione efficace al regime.
Hannah Arendt L’origine del totalitarismo 1951 Il suo approccio è genetico, vuole andare alle origini del fenomeno, infatti la Arendt presenta il totalitarismo come la sintesi di diversi elementi che avevano preso forma in Europa nel corso dell’Ottocento: antisemitismo, imperialismo, colonialismo e razzismo.
Alla svolta del secolo si era costituito un nuovo tipo di nazionalismo, fondato sull’alleanza tra il capitale e la folla, chiamata dalla Arendt “plebe”, di cui l’affare Dreyfus era ai suoi occhi il primo momento rivelatore. “La plebe è composta da tutti i declassati. In essa è rappresentata ogni classe della società. (…) la plebe reclama in ogni occasione l’uomo forte, il grande capo. Essa odia la società, da cui è esclusa, e il parlamento, dove non è rappresentata. I plebisciti, con cui tutti i dittatori moderni hanno ottenuto così eccellenti risultati, sono quindi un vecchio espediente degli uomini politici che capeggiano la plebe.(…) Il meno che la società potesse fare per la plebe era proteggerla verbalmente. E mentre la plebe aggrediva gli ebrei per la strada, e prendeva d’assalto i loro negozi, il linguaggio dell’alta società faceva apparire la violenza fisica un innocente gioco da ragazzi. (…) Era evidente che agli occhi della plebe gli ebrei impersonava tutto quanto essa odiava: la società, che li tollerava; e lo stato, che per secoli li aveva protetti dalla società e con cui essi erano facilmente identificabili. (…) Di nuovo in tutto questo non c’era l’azione della plebe per cui si contavano un’infinità di precedenti. Di nuovo e sorprendente c’erano la sua organizzazione e l’idolatramento dei suoi capi da parte della buona società” (Arendt Le origini del totalitarismo pag.148-156) Populismo, demagogia, xenofobia, odio per gli ebrei ne erano gli ingredienti essenziali. L’antisemitismo moderno, non più religioso ma razziale, non cercava di eliminare l’alterità ebraica attraverso l’assimilazione ma voleva farne il catalizzatore dell’odio nazionalista.
L’odio antiebraico Due furono secondo Arendt i momenti topici per lo sviluppo della campagna antiebraica Fallimento della Compagnia per l’apertura del canale di Panama (1889) Lo scandalo nacque dalle difficoltà di finanziamento incontrate dalla Compagnia per raccogliere i fondi necessari a realizzare il progetto. Essendosi il cantiere rivelato più oneroso del previsto, Lesseps dovette lanciare una sottoscrizione pubblica per finanziarlo. Una parte di questi fondi fu utilizzata per corrompere dei giornalisti ed ottenere illegalmente il sostegno di personalità politiche. Lo scandalo scoppiò clamorosamente, e molti politici furono accusati di corruzione, quando la compagnia fu messa in liquidazione giudiziaria mandando i rovina i sottoscrittori delle sue azioni. Poiché la collocazione delle azioni era stata realizzata da due banchieri ebrei, Reinach ed Herz, la campagna di stampa invece che contro i politici corrotti fu indirizzata contro gli «avidi ebrei» Affare Dreyfus (1894) L’accusa nei confronti dell’ufficiale ebreo Dreyfus di spionaggio a favore dei tedeschi (falsa) portò ad una lunga campagna contro i «traditori ebrei».
L’imperialismo Continuando nel suo approccio genetico, la Arendt dedica la parte più ampia del suo saggio all’analisi dell’imperialismo, considerato il vero incubatore e legittimatore dei nuovi comportamenti che saranno alla base dei totalitarismi. La spartizione del mondo era giustificata, verso la metà del XIX secolo, grazie ad un’ideologia che gerarchizzava l’umanità in categorie inferiori e superiori (Arendt ne seguiva lo sviluppo soprattutto prendendo in esame l’opera di Gobineau), in base a un approccio che il razzismo europeo doveva reinterpretare più tardi in una prospettiva biologica e che il nazismo avrebbe radicalizzato all’estremo. Conciliando sterminio e burocrazia - Arendt riprendeva la formula britannica dei “massacri amministrativi” – il colonialismo fu un laboratorio insostituibile dei genocidi del Novecento. In Asia e in Africa esso aveva iniziato , per mezzo dei suoi eserciti e della sua amministrazione coloniale, a realizzare un “missione civilizzatrice” il cui corollario fu, in molti casi, il massacro, visto come una politica legittima nei confronti delle “razze inferiori”. Il nazismo non farà altro che applicare questa politica in seno all’Europa.
“Solo con l’espansione degli strumenti di potere si poteva normalizzare il movimento degli investimenti all’estero, reinserendo nel sistema economico della nazione le speculazioni col capitale superfluo, che minacciavano di inghiottire in un gioco d’azzardo tutti i risparmi. (…) L’esportazione di capitale e gli investimenti all’estero, che da principio erano stati un rimedio d’emergenza, diventarono una caratteristica permanente di tutti i sistemi economici, appena vennero protetti dall’esportazione del potere statale. (…) I funzionari coloniali incaricati di amministrare questo potere formarono ben presto un gruppo separato in seno alla collettività nazionale e, pur svolgendo la loro attività lontano dalla madrepatria, esercitarono una notevole influenza sul suo corpo politico. Poiché non erano in fondo altro che funzionari della violenza, ragionavano esclusivamente in termini di politica di potenza. Furono i primi a sostenere come gruppo, sulla base delle loro esperienze, che la forza era l’essenza di ogni struttura politica.(…) La violenza impiegata per il potere (non per la legge) scatena un processo distruttivo che si arresta solo quando non resta più nulla da calpestare.(…) La forza divenne l’essenza dell’azione e il centro del pensiero per la politica, quando fu separata dalla comunità che avrebbe dovuto servire. (…) Più antico della ricchezza superflua era un altro sottoprodotto dello sviluppo capitalistico: il materiale di scarto umano che le crisi, immancabilmente seguite ai periodo di prosperità industriale, avevano eliminato per sempre dalla schiera dei produttori. (…) Il fatto nuovo dell’epoca dell’imperialismo fu che queste due forze superflue, il capitale e la manodopera, si combinarono e lasciarono insieme il paese d’origine. La politica di espansione, legata all’esportazione del potere statale e all’annessione dei territori in cui erano state investite manodopera e ricchezza nazionali, sembrò l’unica alternativa alle crescenti perdite di capitale e di popolazione. (…) I possessori di ricchezza superflua erano gli unici che potessero utilizzare gli uomini superflui provenienti da tutti gli angoli della terra. Insieme, essi instaurarono il primo paradiso di parassiti, un paradiso la cui linfa vitale era l’oro. L’imperialismo, nato dalla sovrabbondanza di denaro e di materiale umano, cominciò la sua sorprendente carriere producendo i beni più superflui e irreali, oro e diamanti. (…) Il semplice fatto che il peccato originario dell’accumulazione del capitale esigeva ulteriori peccati per mantenere il sistema fu sufficiente a convincere la borghesia a sbarazzarsi delle noiose inibizioni della tradizione occidentale. Fu esso che alla fine spinse la borghesia tedesca a gettare la maschera dell’ipocrisia ed affidare esplicitamente alla plebe la salvaguardia dei suoi interessi. (…) L’atteggiamento politico della plebe, come si manifesta nelle ideologie imperialistiche e nei movimenti totalitari, rivela una sorprendente affinità con la mentalità politica della società borghese sgombra da mascherature ipocrite e da concessioni alla tradizione cristiana.(…) La spregiudicata politica di potenza poté essere attuata soltanto quando ebbe a disposizione una massa di persone priva di qualsiasi principio e numericamente così forte da superare la capacità dello stato di occuparsene. Il fatto che questa plebe si lasciasse organizzare dagli uomini politici imperialisti, ed entusiasmare dalle teorie razziali, diede l’impressione che soltanto l’imperialismo fosse in grado di risolvere i gravi problemi interni, sociali ed economici dell’epoca.” (cit. pag. 190-219)
Borghesia imperialista, razzismo, plebe e burocrazia agiti nel continente africano sono stati per Arendt la miscela esplosiva che hanno fatto sì che l’uomo superasse qualsiasi limite e discendesse nel Cuore di tenebra (Heart of Darkness). Infatti nel capitolo “Razza e burocrazia”, per poter penetrare nell’abisso in cui si spingono gli uomini ( che l’autrice considera la prova generale del totalitarismo, del fatto che certi comportamenti erano possibili) ricorre per molte pagine al personaggio di Kurtz di Heart of Darkness di Conrad. “Durante i primi decenni dell’imperialismo vennero scoperti due nuovi strumenti, uno per l’organizzazione politica, la razza, e l’altro per la dominazione su popoli stranieri, la burocrazia. (…) Entrambe le scoperte furono compiute sul continente nero. La razza fu la spiegazione d’emergenza con cui gli europei reagirono all’incontro con esseri umani che essi non potevano comprendere e neppure essere disposti a riconoscere come uomini, come propri simili. Fu la risposta dei boeri all’orrore provato di fronte all’opprimente mostruosità dell’Africa, spettralmente popolata e sovrappopolata di esseri che non sembravano né uomini né animali, una spiegazione della follia che li prese e abbagliò come “un lampo in un ciel sereno: Sterminate tutti i bruti”(Cuore di tenebra). Questa risposta sfociò nei più terribili massacri della storia recente, nello sterminio delle tribù ottentotte da parte dei boeri, nella selvaggia azione di assassinio di Carl Peters nell’Africa orientale tedesca, nella decimazione della pacifica popolazione congolese, ridotta da 20-40 milioni a 8 milioni, ad opera del re del Belgio. (…) Mentre la razza, come ideologia interna europea o come spiegazione d’emergenza, attrasse sempre gli elementi peggiori del mondo occidentale, la burocrazia venne inventata dagli strati migliori, e spesso più perspicaci, dell’intelligencija. (…) La burocrazia fu l’organizzazione del grande gioco di espansione, in cui ogni area era considerata un trampolino di lancio per ulteriori interventi e ogni popolo uno strumento per un’ulteriore conquista. Benché alla fine si mostrassero legati fra loro per più aspetti, il razzismo e la burocrazia nacquero e si svilupparono in maniera indipendente l’uno dall’altra. (…) I fanatici razziali del Sudafrica non pensarono allora che si potesse organizzare burocraticamente lo sterminio per creare una comunità politica razionale, circoscritta, come poi fecero i nazisti nei loro campi. (…) Il perfetto gentiluomo e il perfetto furfante venivano a conoscersi molto bene nella grande giungla selvaggia senza legge, e constatavano di essere bene accompagnati nella loro enorme dissomiglianza, anime identiche sotto maschere diverse. (…) La buona società che si innamora del mondo della malavita e del criminale che si sente elevato quando, con civile freddezza e buone maniere, evitando ogni sforzo inutile, può creare una raffinata atmosfera di vizio intorno ai suoi delitti. Questa raffinatezza, il contrasto tra la brutalità del crimine e la maniera di compierlo, diventa il ponte di una profonda intesa fra lui e il perfetto gentiluomo. Ma quel che in Europa richiese un processo di decenni, a causa dell’azione ritardatrice dei valori etici della società, esplose con la subitaneità di un corto circuito nel mondo spettrale dei tropici. Fuori da ogni inibizione sociale e ipocrisia, contro lo sfondo della vita indigena, il gentiluomo e il criminale sentivano, oltre che l’affinità costituita dallo stesso colore della pelle, il contatto con un mondo irreale in cui i delitti potevano venir commessi come in un gioco senza conseguenze, in una combinazione di orrore e risata.” (cit. pag. 258-265)
La novità dei campi di concentramento Se il massacro delle razze inferiori è un elemento caratterizzante dell’imperialismo, il nazismo non farà altro che applicarlo in seno all’Europa, con un uso però più sistematico della burocrazia nell’organizzazione razionale dello sterminio. ( Il comunismo sovietico sostituirà al principio della razza quello della classe sociale). Ma la vera novità del totalitarismo era ben illustrata, secondo Arendt, dalla creazione di un’istituzione sociale inedita: i campi di concentramento. Nati in Sudafrica, durante la guerra dei Boeri, essi furono importati in Europa nel corso della prima guerra mondiale, poi riservati dal nazismo agli “anormali” politici, sociali e razziali. I campi di concentramento coronavano un processo di disumanizzazione e di spoliazione della personalità iniziato con l’annullamento dell’individuo in quanto essere singolare e persona giuridica: il risultato finale saranno le camere a gas naziste, dove il non riconoscimento legale lasciava il posto all’eliminazione fisica di un gruppo proclamato indegno di abitare questo pianeta. “Prima di far funzionare le camere a gas – scrive la Arendt – i nazisti avevano attentamente studiato il problema e scoperto con grande soddisfazione che nessun paese avrebbe reclamato quella gente”. Interpretati in questa prospettiva, i campi diventano il luogo di una rottura antropologica, poiché quel che vi si sperimentava non era altro che “una trasformazione della natura umana”. In fondo, Arendt si chiedeva in che misura degli esseri umani che vivono sotto il terrore totalitario corrispondono ancora alla rappresentanza che ci facciamo abitualmente dell’uomo.
“I campi di concentramento e di sterminio servono al regime totalitario come laboratori per la verifica per la sua pretesa di dominio assoluto sull’uomo. (…) Si tratta di fabbricare qualcosa che non esiste, cioè un tipo umano simile agli animali. Tale fine viene perseguito sia con l’indottrinamento ideologico delle formazioni d’élite sia col terrore assoluto dei Lager; e le atrocità, a cui le formazioni d’élite sono adibite senza riguardi, diventano, per così dire, l’applicazione pratica dell’indottrinamento ideologico, il suo banco di prova, mentre lo spaventoso spettacolo dei campi dovrebbe fungere da verifica dell’ideologia. I campi servono, oltre che a sterminare e a degradare gli individui, a compiere l’orrendo esperimento di eliminare, in condizioni scientificamente controllate, la spontaneità stessa come espressione del comportamento umano e trasformare l’uomo in un oggetto, in qualcosa che neanche gli animali sono. (…) Come la stabilità del regime dipende dall’isolamento del suo mondo fittizio dall’esterno, così l’esperimento di dominio totale nei campi richiede che questi siano ermeticamente chiusi agli sguardi del mondo di tutti gli altri, del mondo dei vivi in genere. (…) Perché questi, per quanto inverosimile possa sembrare, sono la vera istituzione centrale del potere totalitario. (…) È la comparsa del male radicale, precedentemente sconosciuto, che pone fine alle evoluzioni e al trasformarsi di qualità. Qui non ci sono criteri politici, storici o semplicemente morali, ma tutt’al più la constatazione che nella politica moderna è in gioco qualcosa che non dovrebbe mai rientrare nella politica, come noi usiamo intenderla, che essa è al bivio fra tutto e niente: tutto, un’indeterminata infinità di forme di convivenza umana, o niente, la distruzione dell’uomo in seguito alla vittoria del sistema dei campi di concentramento, una distruzione altrettanto inesorabile di quella che l’impiego della bomba all’idrogeno riserverebbe alla razza umana.” (cit. pag. 599-607)
L’importanza dell’ideologia La Arendt riassumeva la sua visione del totalitarismo definendolo come un fenomeno storicamente nuovo fondato sull’ideologia e sfociante nel terrore. La “legalità totalitaria” si rifà alle leggi della natura e della storia (razze o classi sociali) senza tradurle in norme che riguardino gli individui (non si risponde dei propri comportamenti) ma applicandole direttamente alla specie, vale a dire all’umanità. “Colpevolezza e innocenza diventano concetti senza senso; colpevole è chi è d’ostacolo al processo naturale o storico, che condanna le ‘razze inferiori’, gli individui ‘inadatti a vivere’, o le ‘classi in via di estinzione’ e i ‘popoli decadenti’. Il terrore esegue queste sentenze di condanna, e davanti ad esso tutte le parti in causa sono soggettivamente innocenti: gli uccisi perché non hanno fatto nulla contro il sistema, e gli uccisori perché non assassinano realmente, ma si limitano ad eseguire una sentenza di morte pronunciata da un tribunale superiore. Gli stessi governanti non pretendono di essere giusti o saggi, ma soltanto di eseguire le leggi naturali o storiche; non applicano leggi ma eseguono un movimento in conformità alla sua legge intrinseca. Il terrore è legalità se legge è la legge del movimento di qualche forza sovrumana, la natura o la storia. (…) Ogni singolo atto è esecuzione di una sentenza di morte già pronunciata da tali forze superiori. (…) Nel ferreo vincolo del terrore, che distrugge la pluralità umana fondendola nel tutto unico che agisce infallibilmente come se fosse parte del corso della storia o della natura, è stato trovato uno strumento non solo capace di liberare le forze storiche e naturali, ma di accelerarle fino ad una velocità che non avrebbero mai raggiunto se lasciate a se stesse. In pratica, ciò significa che il terrore esegue sul posto le sentenze di morte che, a quanto suppone, la natura avrebbe pronunciato contro razze e individui ‘inadatti a vivere’, o la storia contro le ‘classi morenti’, senza attendere i processi più lenti e meno efficaci della natura o della storia.” Appare evidente l’importanza che per la Arendt assume l’ideologia come elemento determinante per il terrore: sono le certezze ideologiche che portano al terrore.
La Arendt specifica però che parla non delle ideologie in generale, ma di quelle totalitarie: razzismo e comunismo, in quanto ideologie non erano necessariamente totalitarie. Diventano tali quando si stacca il pensiero dall’esperienza pratica, dalla realtà. “Innanzitutto ci si ripromette di far luce su tutti gli avvenimenti storici, di ottenere una spiegazione totale del passato, una completa valutazione del presente, un’attendibile previsione del futuro. In secondo luogo, il pensiero ideologico diventa indipendente da ogni esperienza, che non può comunicargli nulla di nuovo neppure se si tratta di un fatto appena accaduto. Emancipatosi così dalla realtà percepita coi cinque sensi, esso insiste su una realtà ‘più vera’, che è nascosta dietro le cose percettibili, dominandole tutte, e che si avverte solo disponendo di un sesto senso. Questo è fornito appunto dall’ideologia, da quel particolare indottrinamento che viene impartito negli istituti appositamente creati per l’educazione di ‘soldati politici’, nelle Ordensburger naziste o nelle scuole del Comintern e del Cominform. Anche la propaganda del movimento totalitario serve a staccare il pensiero dall’esperienza e dalla realtà, sforzandosi sempre di attribuire un significato segreto ad ogni avvenimento pubblico e un intento cospirativo ad ogni atto politico. Una volta giunto al potere, il movimento procede a mutare la realtà secondo i suoi postulati ideologici.” Ideologia e terrore concorrono insieme, in forma di costrizione interna ed esterna, a rendere le masse individui isolati, subordinati al regime totalitario. “ la coercizione del terrore totale, che irreggimenta le masse di individui isolati e le sostiene in un mondo che per esse è diventato un deserto, e la forza autocostrittiva della deduzione logica, che prepara ciascun individuo nel suo isolamento contro tutti gli altri, si completano a vicenda per far marciare il movimento. Come il terrore distrugge tutti i legami fra gli uomini, così l’autocostrizione del pensiero ideologico distrugge tutti i legami con la realtà. La preparazione è giunta a buon punto quando gli individui hanno perso il contatto con i loro simili e con la realtà che li circonda; perché insieme con questo contatto, gli individui perdono la capacità di esperienza e di pensiero. Il suddito ideale del regime totalitario non è un nazista convinto o un comunista convinto, ma l’individuo per il quale la distinzione fra realtà e finzione, fra vero e falso non esiste più.”
Friedrich e Brzezinski Totalitarian dictatorship and autocracy L’opera degli anni Cinquanta che esercitò maggiore influenza nel mondo anglosassone (pubblicata nel 1956 a New York) è senza dubbio l'altra importante teoria classica del totalitarismo, quella pensata dal politologo di Harvard Carl J. Friedrich e dal suo giovane collaboratore di origine polacca Zbigniew Brzezinski. In Totalitarian Dictatorship and Autocracy i due studiosi includono tra i regimi totalitari anche il fascismo italiano e i regimi comunisti della Cina e dell'Europa orientale, analizzandoli come sistemi con degli elementi costitutivi. Per Friedrich e Brzezinski il totalitarismo è «una forma di autocrazia basata sulla tecnologia moderna e sulla legittimazione di massa» e possiede sei caratteristiche: • un'ideologia ufficiale, condivisa da ogni membro della società, che promette la piena realizzazione dell'umanità; • un partito unico di massa, organizzato in forma gerarchica, guidato da un dittatore che si sovrappone all'apparato statale impartendo degli ordini; • un controllo pervasivo dei mass media; • un monopolio delle forze armate; • un sistema di terrorismo poliziesco che si serve dei progressi scientifici per ispezionare intere classi della popolazione; • un controllo centralizzato dell'economia.
Totalitarismo e guerra fredda Indubbiamente l’opera di Friedrich e Brzezinski colloca oramai la teoria del totalitarismo all’interno della guerra fredda di quegli anni: i sistemi totalitari erano considerati al di fuori dei processi storici ed erano visti come dei blocchi monolitici, apparsi in Russia nel 1917 e in Germania nel 1933, per i quali i due studiosi escludevano a priori qualsiasi possibilità di implosione o crisi interna, per cui, come era stato per la Germania, anche per l’URSS sarebbe stato necessario intervento esterno per mandare in crisi il sistema. Negli anni successivi sulla base di questa teoria gli Stati Uniti hanno giustificato il sostegno ai nemici esterni dell’URSS all’interno della guerra fredda. Proprio il suo uso politico ha finito per bloccare per decenni il dibattito sul totalitarismo, che invece è ripreso con forza dopo la caduta dell’URSS, sia perché liberato dall’uso politico fatto negli anni precedenti, sia grazie all’apertura degli archivi sovietici che all’avvio di un nuovo filone di ricerche in Germania, Italia e Russia sul consenso totalitario e l’opinione pubblica e popolare che hanno rivelato una realtà della società civile più complessa e non sempre corrispondente agli schemi “totalitaristici” implicanti una completa normalizzazione del corpo sociale.
Definizioni sintetiche TOTALITARISMO Definizione sintetica: • Sistema politico autoritario contemporaneo, che controlla l’intera società mediante l’imposizione di un’ideologia ufficiale raggiunta con la repressione di chi dissente, con un uso accorto dei mezzi di comunicazione e attraverso il coinvolgimento psicologico e sociale delle masse. Il tentativo di mobilitare il popolo e di identificare la società con lo Stato distingue il totalitarismo dalla semplice dittatura. Ogni totalitarismo è dittatoriale, ma non tutte le dittature sono totalitarismi. • Sistema politico caratterizzato dal completo controllo dello stato sulla società e sugli individui.
Elementi qualificanti del totalitarismo sono: 1 Elementi qualificanti del totalitarismo sono: 1. Esistenza di un partito unico, solitamente identificato col suo capo ( capo carismatico ). 2. Completa soppressione delle libertà di opposizione e di dissenso. Censura. 3. Presenza di un'ideologia ufficiale, assoluta e indiscutibile che identifica tutta la politica del regime. 4. Terrore poliziesco. Organizzazione di una polizia segreta di stato. 5. Soppressione del principio della rappresentanza parlamentare. Prevalenza dell'esecutivo. 6. Monopolio da parte del partito sui mezzi di comunicazione. 7. Utilizzo massiccio della propaganda. 8. Controllo ufficiale della cultura. 9. Penetrazione dello stato- partito in ogni manifestazione della vita quotidiana. 10. Applicazione delle forme di potere e di controllo sulle società di massa, modellate dalle forme della cultura totalitaria. Manipolazione e indottrinamento della coscienza individuale. 11. Controllo di tutte le strutture della società civile: lavoro, cultura, scuola, tempo libero. 12. Educazione della gioventù all'ideologia dominante. 13. Politicizzazione delle masse. Militarizzazione. 14. Mobilitazione massiccia e conquista del consenso plebiscitario. 15. Politiche economiche di tipo statalistico e centralizzatore. Assenza della contrattualità sindacale.
POTERE CARISMATICO Tale forma di potere "poggia sulla dedizione al carattere sacro, alla forza eroica o al valore esemplare di una persona (obbediscimi perché io posso trasformare la tua vita)" (Max Weber) E' la capacità di creare influenza, attrazione, dipendenza da parte di un leader (capo) che esercita il potere su un gruppo ampio di persone. Si ubbidisce ad un capo poiché gli si attribuisce un particolare dono ("carisma"). Il capo (in cui talvolta si configura e si incarna lo Stato stesso, come ad esempio avviene in Germania per il Fhurer) ottiene dagli altri un determinato comportamento, puntando sulla legittimità assoluta e insindacabile del potere da lui esercitato. Non si tratta di un "potere razionale" (fondato sulla legge) e neppure di un "potere tradizionale " fondato sulla sacralità, sul suo esistere da sempre, ma esso consiste in una forma di dedizione al "capo" in virtù della sua forza e del suo valore esemplare ed eccezionale. Il rapporto è di tipo personale, individuale, affettivo e non razionale. Esso trova grande forza all'interno del gruppo dei "FEDELI" al quale il capo fornisce un modello, dei valori, delle rassicuranti certezze.
LA MACCHINA DELLA PROPAGANDA E LA MANIPOLAZIONE DELL'OPINIONE PUBBLICA Il termine propaganda deriva dalla locuzione latina “de propaganda fide” (sulla fede da diffondere) con la quale la Chiesa designa la Congregazione che si occupa delle attività di proselitismo e di diffusione dei principi cattolici in tutto il mondo. Nel linguaggio contemporaneo, per “propaganda” si intende la diffusione deliberata e sistematica di informazioni e messaggi volti a fornire un’immagine, positiva o negativa che sia, di determinati fenomeni - o avvenimenti o istituzioni o persone – ma anche a far apprezzare un prodotto commerciale (in questo senso, propaganda è sinonimo di pubblicità). Tutti i partiti che, nell’Europa del XX secolo, portarono alla costruzione di regimi totalitari utilizzarono, accanto alla sistematica distruzione delle opposizioni, il potente strumento della propaganda: la radio, il cinematografo e la stampa furono utilizzati per creare in breve tempo indottrinamento , persuasione,simpatie ed odi facendo leva proprio sull’emotività di quella folla psicologica (G. Le Bon). Manifestazioni coreografiche, prima nel fascismo e poi nel nazismo e nello stalinismo, furono utilizzate con gran dispendio di simboli, bandiere ed uniformi, per far sentire alla massa di essere soggetto e oggetto dello spettacolo. Il sentimento dell’appartenenza al gruppo, nello splendore delle divise e nel clamore dei canti, doveva riempire il grigiore di una realtà politica e sociale assolutamente non corrispondente, abitata da persecuzioni, guerre, discriminazioni culturali e religiose. Anche in seguito a queste esperienze, il termine propaganda ha finito con l’assumere una connotazione negativa, legata all’idea di manipolazione, o quanto meno di informazione unilaterale e distorta.
BIBLIOGRAFIA Enzo Traverso Totalitarismo Ombre corte 2015 Emilio Gentile La via italiana al totalitarismo Carocci 2008 Emilio Gentile Le religioni della politica. Fra democrazie e totalitarismi Laterza 2011 De Bernardi Capire il Novecento Bruno Mondadori 1999 Hannah Arendt Le origini del totalitarismo Edizioni di Comunità 1967 Emma Fattorini Pio XI, Hitler e Mussolini Einaudi 2007