Divina Commedia INFERNO

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Transcript della presentazione:

Divina Commedia INFERNO Canto XXVIII

Inferno canto XXVIII Ci troviamo nella nona bolgia dell'ottavo cerchio, ove sono puniti i seminatori di discordie; è il pomeriggio del Sabato Santo, 9 aprile 1300

Inferno canto XXVIII Chi poria mai pur con parole sciolte  dicer del sangue e de le piaghe a pieno  ch’i’ ora vidi, per narrar più volte?  Ogne lingua per certo verria meno  per lo nostro sermone e per la mente  c’hanno a tanto comprender poco seno.     S’el s’aunasse ancor tutta la gente  che già in su la fortunata terra  di Puglia, fu del suo sangue dolente          Il proprio dire, per quanto curato è insufficiente a rappresentare pienamente l'orrendo spettacolo dei corpi mozzati Neppure mostrando tutti i morti e feriti delle innumerevoli guerre che hanno insanguinato il sud Italia si darebbe un'idea di quanto si vede nella Bolgia, e che sarà descritto in termini volutamente aspri e crudi.

Inferno canto XXVIII per li Troiani e per la lunga guerra  che de l’anella fé sì alte spoglie,  come Livio scrive, che non erra,   con quella che sentio di colpi doglie  per contastare a Ruberto Guiscardo;  e l’altra il cui ossame ancor s’accoglie  a Ceperan, là dove fu bugiardo  ciascun Pugliese, e là da Tagliacozzo,  dove sanz’arme vinse il vecchio Alardo;  e qual forato suo membro e qual mozzo  mostrasse, d’aequar sarebbe nulla  il modo de la nona bolgia sozzo.  Dante elenca nel paragone alcune guerre che insanguinarono l'Italia meridionale

L'Islam nella Commedia. Sul giudizio negativo pesa la tradizione secolare di guerre e invasioni degli Arabi nel Mediterraneo, nonché il tema sempre presente della Crociata in Terrasanta Dante ha una conoscenza parziale dell'islamismo Il rapporto di Dante con la religione musulmana è complesso e controverso Dante considera la religione musulmana una scandalosa divisione interna al mondo cristiano e che ha prodotto guerre e sanguinose lacerazioni d'altro canto, ammira con sincerità alcuni illustri intellettuali arabi e perciò la sua condanna del mondo islamico non è assoluta.

L'Islam nella Commedia. in Inf., VIII, 70-75 la città di Dite è descritta come una città islamica, con le meschite (moschee) rosse e arroventate dal fuoco, popolata da diavoli; Maometto (XXVIII, 22-42) è incluso tra i seminatori di discordie della IX Bolgia, orrendamente mutilato e descritto in toni grotteschi e comici; l'avo Cacciaguida si trova tra gli spiriti combattenti per aver militato nella II Crociata ed essere caduto combattendo contro l'iniquità della religione musulmana, il cui popolo usurpa... vostra giustizia, cioè occupa i luoghi santi approfittando dell'inerzia dei papi, mentre gli Arabi sono definiti gente turpa e martiro la morte del crociato in battaglia (Par., XV, 139-148).

Inferno canto XXVIII Già veggia, per mezzul perdere o lulla,  com’io vidi un, così non si pertugia,  rotto dal mento infin dove si trulla.     Tra le gambe pendevan le minugia;  la corata pareva e ’l tristo sacco  che merda fa di quel che si trangugia.   Mentre che tutto in lui veder m’attacco,  guardommi, e con le man s’aperse il petto,  dicendo: «Or vedi com’io mi dilacco!  vedi come storpiato è Maometto!  Dinanzi a me sen va piangendo Alì,  fesso nel volto dal mento al ciuffetto.   E tutti li altri che tu vedi qui,  seminator di scandalo e di scisma  fuor vivi, e però son fessi così.      Dante include tra questi peccatori Maometto, basandosi su una diffusa tradizione che lo considerava un rinnegato operante uno scisma all'interno del Cristianesimo, se non addirittura un vescovo deluso per non essere diventato papa: la sua colpa è dunque quella di aver lacerato sanguinosamente l'unità originaria del mondo cristiano, causando guerre e uccisioni di cui ora sconta la pena essendo tagliato dal mento all'ano, mentre il cugino e quarto successore Alì presenta un taglio dal mento alla fronte

Inferno canto XXVIII Maometto e Alì

Inferno canto XXVIII Un diavolo è qua dietro che n’accisma  sì crudelmente, al taglio de la spada  rimettendo ciascun di questa risma,  quand’avem volta la dolente strada;  però che le ferite son richiuse  prima ch’altri dinanzi li rivada.          Ma tu chi se’ che ’n su lo scoglio muse,  forse per indugiar d’ire a la pena  ch’è giudicata in su le tue accuse?».                             «Né morte ’l giunse ancor, né colpa ’l mena»,  rispuose ’l mio maestro «a tormentarlo;  ma per dar lui esperienza piena,                                   a me, che morto son, convien menarlo  per lo ’nferno qua giù di giro in giro;  e quest’è ver così com’io ti parlo».                           Maometto chiede poi chi sia Dante, se sia un dannato che indugia ad arrivare al luogo della sua pena, e Virgilio risponde per lui: "Né morte 'l giunse ancor, né colpa 'l mena" cioè, non è né morto né dannato, ma con la sua guida deve avere un'"esperienza piena" dell'Inferno girone per girone, e ciò è la verità quanto lo è il fatto di parlare ora.

Inferno canto XXVIII All'udire che Dante era vivo tutta la bolgia si arresta a guardare Dante stupita, obliando il martiro. Maometto resta con un piede sospeso tra un passo e l'altro e si appresta a fare una raccomandazione a Fra' Dolcino, che Dante la riporti quando torna su nel mondo. Con tale menzione Dante potrebbe aver voluto accomunare il libertarismo attribuito ai dolciniani alla poligamia ammessa dalla società araba. Maometto dice: "Di' a Fra Dolcin che si armi di vettovaglie, se non vuole raggiungermi presto, che sarà bloccato nella neve. Se non lo fa recherà una facile vittoria al vescovo di Novara, vittoria che altrimenti sarebbe tutt'altro che facile". Per inciso Fra' Dolcino è l'unico eretico "vero" citato nell'Inferno (nella bolgia degli eretici sono invece citati solo epicurei, atei). Solo dopo aver parlato Maometto può nuovamente appoggiare il piede e ripartire. Più fuor di cento che, quando l’udiro,  s’arrestaron nel fosso a riguardarmi  per maraviglia obliando il martiro.    «Or dì a fra Dolcin dunque che s’armi,  tu che forse vedra’ il sole in breve,  s’ello non vuol qui tosto seguitarmi,     sì di vivanda, che stretta di neve  non rechi la vittoria al Noarese,  ch’altrimenti acquistar non sarìa leve».         Poi che l’un piè per girsene sospese,  Maometto mi disse esta parola;  indi a partirsi in terra lo distese.  

Inferno canto XXVIII Dopo la plebea ridicolizzazione di Maometto si presenta a Dante un dannato con un buco nella gola dal quale zampilla orrendamente sangue quando parla; egli ha il naso tagliato fino agli occhi e un orecchio solo; dopo essersi arrestato per maraviglia, è il primo a prendere la parola (si fa per dire, visto la suacanna aperta) dopo l'uscita di scena dell'altro. Dice rivolgendosi a Dante pregandolo, con un tono piuttosto aulico, che se è quello che conobbe in vita in Italia, che si ricordi di lui, Pier da Medicina, se mai tornasse a vedere "lo dolce piano / che da Vercelli a Marcabò dichina". Per Vercelli non si deve indicare la città piemontese, ma l'antico nome di Voghenza in provincia di Ferrara. Questa rievocazione del dolce mondo dei vivi è assieme a quella di Francesca da Rimini, tra le più struggenti. Un altro, che forata avea la gola  e tronco ’l naso infin sotto le ciglia,  e non avea mai ch’una orecchia sola,      ristato a riguardar per maraviglia  con li altri, innanzi a li altri aprì la canna,  ch’era di fuor d’ogni parte vermiglia,   e disse: «O tu cui colpa non condanna  e cu’ io vidi su in terra latina,  se troppa simiglianza non m’inganna,   rimembriti di Pier da Medicina,  se mai torni a veder lo dolce piano  che da Vercelli a Marcabò dichina.             

Inferno canto XXVIII E fa saper a’ due miglior da Fano,  a messer Guido e anco ad Angiolello,  che, se l’antiveder qui non è vano,                     gittati saran fuor di lor vasello  e mazzerati presso a la Cattolica  per tradimento d’un tiranno fello.                       Tra l’isola di Cipri e di Maiolica  non vide mai sì gran fallo Nettuno,  non da pirate, non da gente argolica.                  Anche Piero ha un messaggio da riferire ai vivi: di dire ai due migliori di Fano, Guido del Cassero e Angiolello da Carignano, che, se la facoltà di previsione dei dannati non è vana, saranno gettati in mare dal loro vascello tramite "mazzeratura" (in una sacco chiuso pieno di pietre) presso Cattolica, per il tradimento di un bieco tiranno (Malatestino da Rimini, citato indirettamente nel Canto XXVII a proposito della situazione della Romagna), un'azione tanto malvagia come non ne vide mai, tra Cipro e Maiorca (cioè nel Mar Mediterraneo) Nettuno, né per conto dei pirati, né dei greci (i proverbialmente crudeli argolici).

Inferno canto XXVIII Quel traditor che vede pur con l’uno,  e tien la terra che tale qui meco  vorrebbe di vedere esser digiuno,    farà venirli a parlamento seco;  poi farà sì, ch’al vento di Focara  non sarà lor mestier voto né preco».   Quel tiranno traditore, che vede con un occhio solo (era infatti detto il Guercio) e che tiene Rimini, terra che questo dannato accanto a me (Curione, descritto nei successivi versi) vorrebbe non aver mai visto, li chiamerà (Guido e Angiolello) a far parlamento e poi farà così che ad essi non sarà necessario pregare o far voto per passare il vento di Focara (cioè essi saranno già morti quando la nave passerà da Focara, sede di proverbiali tempeste). La mancanza di una qualsiasi fonte d'archivio sull'accaduto ha fatto pensare ad alcuni commentatori addirittura che qui Piero volesse perpetrare il suo peccato di seminatore di discordie mettendo zizzania tra i due di Fano e il signore di Rimini, anche se la precisione del racconto dantesco ha più un sapore di rivelazione e trattandosi di un fatto grave può darsi che, come in altri casi, la potenza dell'interessato abbia insabbiato qualsiasi menzione in documenti.

Inferno canto XXVIII E io a lui: «Dimostrami e dichiara,  se vuo’ ch’i’ porti sù di te novella,  chi è colui da la veduta amara».  Allor puose la mano a la mascella  d’un suo compagno e la bocca li aperse,  gridando: «Questi è desso, e non favella.  Questi, scacciato, il dubitar sommerse  in Cesare, affermando che ’l fornito  sempre con danno l’attender sofferse».  Oh quanto mi pareva sbigottito  con la lingua tagliata ne la strozza  Curio, ch’a dir fu così ardito!  Dante è rimasto dubitante su chi sia il dannato la cui vista di Rimini è molesta, per questo ne chiede spiegazione. In tutta risposta Piero prende un suo compagno per la mascella e brutalmente gli apre la bocca perché si veda come ha la lingua tagliata, quindi muto. Viene descritto come colui che, scacciato da Roma, troncò l'esitazione di Cesare, affermando che chi è fornito (di truppe), ebbe sempre danno dall'aspettare, e Dante chiude dicendo quanto fosse orribile "con la lingua tagliata nella strozza / Curïo, c'ha dir fu così ardito!".

Mosca de’ Lamberti Inferno canto XXVIII E un ch’avea l’una e l’altra man mozza,  levando i moncherin per l’aura fosca,  sì che ’l sangue facea la faccia sozza,   gridò: «Ricordera’ti anche del Mosca,  che disse, lasso!, "Capo ha cosa fatta",  che fu mal seme per la gente tosca».  E io li aggiunsi: «E morte di tua schiatta»;  per ch’elli, accumulando duol con duolo,  sen gio come persona trista e matta. 

Inferno canto XXVIII Ma viene già innanzi un quarto dannato che tiene in alto i moncherini perché ha entrambe le mani mozzate e, particolare raccapricciante, il sangue gli zampillava fin sulla faccia. È Mosca dei Lamberti, già citato tra gli spirti ch'a ben far puoser gl'ingegni nell'episodio di Ciacco e che è qui ricordato per la frase Cosa fatta capo ha, intesa come solo le cose compiute hanno un fine, il tergiversare non porta a nulla (non è un caso che sia accanto a Curione, in questo caso suo omologo antico). La famosa frase citata anche dal Villani, fu pronunciata a proposito dell'uccisione di Buondelmonte de' Buondelmonti, che aveva ripudiato una donna degli Amidei, vendicandone l'onta. Dalle lotte tra Amidei e Buondelmonti i cronisti medievali facevano risalire le divisioni cittadine in guelfi e ghibellini. Dante in questo episodio gli ricorda bruscamente come anche i Lamberti, ghibellini, subirono la stessa sorte degli Uberti, venendo sterminati e esiliati durante le lotte di quel periodo (tanto da essere perseguitati ostinatamente dalla parte guelfa durante la vittoria di Benevento); a questa triste menzione il dannato se ne va via rattristato e fuori di sé. In quest'episodio non c'è niente della magnanimità di altri grandi spirti come Farinata degli Uberti o, in tono minore, Tegghiaio Aldobrandi.

Inferno canto XXVIII Dante non accenna a andar via e vede una cosa che, raccontata senza testimoni, non sarebbe creduta da nessuno; egli lo fa perché la sua coscienza pulita lo rende sicuro di sé, altrimenti non ne avrebbe nemmeno parlato (Dante usa spesso queste premesse verso il lettore quando sta per descrivere qualcosa di particolarmente prodigioso). Un uomo con la testa mozzata se ne va tenendola in mano per i capelli "a guisa di lanterna" e guarda i due poeti dicendo "Oh me!" (da leggere òme, per la rima composta con chiome e come). Esso è una persona sola e due insieme: come fosse possibile lo sa solo Dio. Platealmente, l'anima decapitata si avvicina al ponte e una volta arrivata in cima alza la mano e il braccio perché sia visibile la testa che parla. Si presenta quindi con queste parole: (parafrasi) " Oh voi che andate guardando i morti, guardate ora questa pena dolorosa e vedete se ve n'è alcuna peggiore. E affinché tu (Dante) porti notizia di me (nel mondo dei vivi) sappi che io sono Bertram dal Bornio, colui che diede al giovane re (Enrico il Giovane) i cattivi consigli, mettendolo contro al padre (Enrico II), peggio di come fece Achitofel con Assalonne e Re Davide". L'espressione "guardate e vedete se c'è una pena peggiore della mia" è ripresa dalla Bibbia (Libro delle Lamentazioni I, 12), e verrà usata con qualche differenza anche da Mastro Adamo nel Canto trentesimo. Segue poi una delle rare spiegazioni esplicite del contrappasso, che qui viene persino nominato

Inferno canto XXVIII Ma io rimasi a riguardar lo stuolo,  e vidi cosa, ch’io avrei paura,  sanza più prova, di contarla solo;                                  114 se non che coscienza m’assicura,  la buona compagnia che l’uom francheggia  sotto l’asbergo del sentirsi pura.                                   117 Io vidi certo, e ancor par ch’io ’l veggia,  un busto sanza capo andar sì come  andavan li altri de la trista greggia;                                120 e ’l capo tronco tenea per le chiome,  pesol con mano a guisa di lanterna;  e quel mirava noi e dicea: «Oh me!».                           123

Inferno canto XXVIII Di sé facea a sé stesso lucerna,  ed eran due in uno e uno in due:  com’esser può, quei sa che sì governa.                     126 Quando diritto al piè del ponte fue,  levò ’l braccio alto con tutta la testa,  per appressarne le parole sue,                                     129 che fuoro: «Or vedi la pena molesta  tu che, spirando, vai veggendo i morti:  vedi s’alcuna è grande come questa.                          132 E perché tu di me novella porti,  sappi ch’i’ son Bertram dal Bornio, quelli  che diedi al re giovane i ma’ conforti.                           135

Inferno canto XXVIII Io feci il padre e ’l figlio in sé ribelli:  Achitofèl non fé più d’Absalone  e di Davìd coi malvagi punzelli.                                      138 Perch’io parti’ così giunte persone,  partito porto il mio cerebro, lasso!,  dal suo principio ch’è in questo troncone.  Così s’osserva in me lo contrapasso».                      142