DANTE ALIGHIERI: LA DIVINA COMMEDIA INFERNO CANTO XXIX Il Canto si divide in due parti, la prima delle quali (più breve) è dedicata ancora ai seminatori di discordie della IX Bolgia, fra i quali Dante include Geri del Bello. L'episodio si apre con un rimprovero di Virgilio al discepolo che si attarda a osservare la Bolgia e ha le lacrime agli occhi, diversamente da quanto ha fatto negli altri luoghi del Cerchio: il rimbrotto anticipa quello, decisamente più aspro, che il maestro rivolgerà a Dante alla fine del Canto XXX per aver assistito alla volgare rissa tra Sinone e Mastro Adamo, mentre in questo caso Dante può giustificarsi con la presenza tra i dannati del suo lontano parente Geri del Bello. Questi imputa a lui e ai membri della sua famiglia di non aver ancora vendicato la sua uccisione, cosa di cui Dante si mostra consapevole; il tema si ricollega a quello delle vendette e degli odi tra le consorterie, che era stato affrontato nel Canto precedente con la figura di Mosca dei Lamberti (il quale era dannato proprio per aver ordinato l'uccisione di un nemico del suo clan, foriera di gravi conseguenze per Firenze e la sua famiglia). La risposta di Virgilio a Dante è perentoria ed è un invito a non preoccuparsi del dannato, a lasciarlo dove si trova e passare oltre: una frase che ricorda quella sugli ignavi di Inf., III, 46-51 e che chiude in modo brusco l'episodio, con la condanna implicita delle vendette familiari che portano solo una scia di sangue e lacerazioni insanabili, come la presenza all'Inferno di Geri e Mosca dimostra chiaramente. Va ricordato che nella famosa «tenzone» con Forese Donati, l'amico-rivale con cui Dante aveva scambiato alcuni sonetti ingiuriosi, il poeta era stato accusato di non aver vendicato il padre da un imprecisato oltraggio, mentre qui ogni insinuazione di viltà è respinta e le vendette private vengono condannate in quanto contrarie ai principi religiosi, anche se imposte dal costume sociale del tempo. La seconda parte del Canto, decisamente più ampia, ci mostra la X e ultima Bolgia dell'VIII Cerchio, in cui a essere puniti sono i falsari (divisi in varie tipologie: qui appaiono gli alchimisti, ovvero coloro che hanno falsificato i metalli). La loro pena consiste nell'essere preda di fastidiose e ripugnanti malattie, con un contrappasso non del tutto chiaro; dalla Bolgia si leva un gran puzzo accompagnato a lamenti pietosi, e per descrivere l'orribile spettacolo dei corpi dei dannati rosi dalla scabbia e da altre malattie il poeta ricorre a due similitudini, una tratta dal mondo contemporaneo (gli ospedali della Valdichiana e di altre zone paludose dove, nei mesi estivi, si raccolgono i malati di malaria) e l'altra dal mito classico (la pestilenza di Egina, scatenata da Giunone per la gelosia verso la ninfa amata da Giove e che fece strage degli abitanti dell'isola). Questo alternarsi di riferimenti all'attualità e al mito proseguirà anche nel Canto successivo, con un continuo passaggio da uno stile retoricamente elevato a toni più popolari e comico-realistici, culminanti nel volgare alterco tra Sinone e Mastro Adamo che chiuderà il Canto XXX. Anche qui la descrizione della scabbia che ricopre i corpi di Griffolino e Capocchio fa ampio uso di similitudini realistiche, dallo stalliere che striglia i cavalli e ricorda il modo in cui i due si grattano per placare il tremendo prurito, al coltello che toglie le squame della scardova (e i dannati sono paragonati a due tegami appoggiati l'un l'altro sul fuoco, con un'immagine quotidiana e culinaria). Anche le rime sono difficili e i suoni aspri, come nella migliore tradizione della poesia comica (tegghia, segnorso, scabbia, scaglie, tanaglie). Il tono è realistico anche nel successivo discorso, con Griffolino che ricorda il motivo grottesco per cui Albero da Siena lo ha mandato a morte (un'ingenua beffa che si è trasformata in tragedia per la stupidità del nobile) e Capocchio che risponde in modo sarcastico a Dante affermando che tra i Senesi, la cui vanità è proverbiale, devono essere salvati alcuni personaggi che in realtà sono campioni di frivolezza. Il discorso di Capocchio è simile a quello dei Malebranche riguardo a Bonturo Dati e ai barattieri di Lucca, elencando una serie di personaggi noti per aver fatto parte della cosiddetta «brigata spendereccia»: una combriccola di dodici giovani di Siena che si diedero a folli spese e che in due anni avrebbero dilapidato l'incredibile somma di 216.000 fiorini. È inutile discutere, come pure si è fatto, se tale brigata sia la stessa cantata da Folgòre da San Gimignano e a capo della quale era un certo Nicolò di Nisi che potrebbe essere lo stesso citato in questi versi: Dante condanna chiaramente la condotta di questi personaggi che scialacquarono i loro averi, il che non ha nulla a che fare con la liberalità e la cortesia altre volte esaltate nelle Rime e nel poema (specie nel discorso di Guido del Duca, in Purg., XIV, 91 ss.). La condanna delle folli spese ricorda naturalmente gli scialacquatori del Canto XIII, ma si riallaccia anche al discorso relativo al denaro e all'aspetto mercantile della civiltà comunale, a più riprese condannato da Dante: il tema anticipa quello dei falsari di monete che appariranno nel Canto seguente e che hanno agito, non diversamente dagli alchimisti, spinti dall'avarizia e dalla cupidigia che hanno profondamente corrotto la vita dei Comuni del Trecento.
Prima di lasciare la nona bolgia Dante cerca con gli occhi in essa un suo congiunto, Geri del Bello, seminatore di discordia, la cui morte violenta è rimasta invendicata, ma Virgilio gli ricorda che l’ombra di questo suo parente è passata sotto il ponte, mostrando sdegno e minacciandolo col dito, quando egli era tutto intento ad osservare Bertran de Born. Ripreso il cammino, i due pellegrini giungono sopra l’ultima bolgia dell’ottavo cerchio, nella quale si trovano i falsatori, divisi in quattro categorie: falsatori di metalli con alchimia, falsatori di persone, falsatori di monete, falsatori di parole. Con il corpo deformato da orribili morbi giacciono a mucchi o si trascinano carponi gli alchimisti. Due di questi dannati attirano l’attenzione di Dante: stanno seduti, appoggiandosi l’uno alla schiena dell’altro, e cercano, con furiosa impazienza, di liberarsi delle croste che li ricoprono interamente. Furono arsi sul rogo dai Senesi, il primo, Griffolino d’Arezzo, per non avere mantenuto fede alla promessa di far alzare in volo, novello Dedalo, uno sciocco; il secondo, Capocchio, per aver falsificato i metalli, da quell’eccellente imitatore della natura che fu in vita.
INFERNO CANTO XXIX 1-12 La molta gente e le diverse piaghe avean le luci mie sì inebrïate, che de lo stare a piangere eran vaghe. Ma Virgilio mi disse: «Che pur guate? perché la vista tua pur si soffolge là giù tra l’ombre triste smozzicate? Tu non hai fatto sì a l’altre bolge; pensa, se tu annoverar le credi, che miglia ventidue la valle volge. E già la luna è sotto i nostri piedi; lo tempo è poco omai che n’è concesso, e altro è da veder che tu non vedi». La vista di così tanti dannati e delle loro ferite avevano talmente saturato i miei occhi di lacrime, che avrebbero voluto solo fermarsi a piangere; ma Virgilio mi disse: “Cosa stai guardando ancora? perchè il tuo sguardo si sofferma ancora a cercare qualcuno laggiù tra le miserbabili anime mutilate? Tu non hai fatto così come fai adesso nelle altre bolgie: pensa, se tu le vuoi contare tutte, che questa bolgia si stende per ben ventidue miglia. Già la luna è al nadir, sotto ai nostri piedi: Orma il tempo che ci è concesso è poco, e c’è ancora tanto da vedere oltre a quello che vedi qui”.
INFERNO CANTO XXIX 13,24 «Se tu avessi», rispuos’ io appresso, «atteso a la cagion per ch’io guardava, forse m’avresti ancor lo star dimesso». Parte sen giva, e io retro li andava, lo duca, già faccendo la risposta, e soggiugnendo: «Dentro a quella cava dov’ io tenea or li occhi sì a posta, credo ch’un spirto del mio sangue pianga la colpa che là giù cotanto costa». Allor disse ‘l maestro: «Non si franga lo tuo pensier da qui innanzi sovr’ ello. Attendi ad altro, ed ei là si rimanga; “Se tu avessi aspettato per sapere” gli risposi dopo “la ragione per cui mi fermavo a guardare, forse mi avresti permesso di sostare ancora a guardare”. Intanto si era mosso, e io seguivo da dietro, la mia guida Virgilio, mentre così gli stavo rispondendo, ed aggiungevo: “Dentro a quella fossa dove io tenevo gli occhi tanto fissi, credo ci sia uno spirito della mia famiglia che piange ora il peccato che laggiù si paga ad un così caro prezzo”. Allora il mio maestro disse: “Non si distragga più per lui il tuo pensiero da adesso in avanti: pensa ad altro, e che egli rimanga là dove si trova:
INFERNO CANTO XXIX 25-36 ch’io vidi lui a piè del ponticello mostrarti e minacciar forte col dito, e udi’ ‘l nominar Geri del Bello. Tu eri allor sì del tutto impedito sovra colui che già tenne Altaforte, che non guardasti in là, sì fu partito». «O duca mio, la vïolenta morte che non li è vendicata ancor», diss’ io, «per alcun che de l’onta sia consorte, fece lui disdegnoso; ond’ el sen gio sanza parlarmi, sì com’ ïo estimo: e in ciò m’ha el fatto a sé più pio». perchè io lo vidi ai piedi del ponticello che t’indicava, e ti minacciava con forza, con il dito, ed ho sentito che lo chiamavano Geri del Bello. Tu eri in quel momento così assorto da colui che fu il signore di Altaforte, Bertram de Bron, che non hai guardato dalla sua parte, finchè non si è poi allontanato”. “O mio maestro, il fatto che la sua morte violenta non ha avuto ancora giustizia” dissi io “da parte di qualcuno che ha subito la stessa ingiuria, lo ha reso sdegnato nei miei confronti; per questo se n’è andato senza parlarmi, è questo che io penso: e questo mi ha fatto provare più pietà nei suoi confronti”.
Geri del Bello (1-36) La visione della IX Bolgia dell'VIII Cerchio ha commosso Dante alle lacrime, per cui Virgilio lo rimprovera e gli ricorda che il suo atteggiamento è stato diverso nelle altre Bolge, aggiungendo che sono le due del pomeriggio ed è tempo di procedere. Dante si scusa asserendo che tra i seminatori di discordie ci dovrebbe essere un membro della sua famiglia. Il maestro gli dice che mentre Dante stava parlando con Bertram del Bornio, un dannato lo aveva indicato minacciosamente col dito e gli altri lo avevano chiamato Geri del Bello. Dante spiega che costui gli rimprovera il fatto che la sua morte violenta non è stata ancora vendicata da un membro della sua consorteria, perciò se ne è andato senza rivolgergli la parola. Mentre i due poeti parlano, raggiungono il ponte che sovrasta la X e ultima Bolgia.
INFERNO CANTO XXIX, 37-48 Così parlammo infino al loco primo che de lo scoglio l’altra valle mostra, se più lume vi fosse, tutto ad imo. Quando noi fummo sor l’ultima chiostra di Malebolge, sì che i suoi conversi potean parere a la veduta nostra, lamenti saettaron me diversi, che di pietà ferrati avean li strali; ond’ io li orecchi con le man copersi. Qual dolor fora, se de li spedali di Valdichiana tra ‘l luglio e ‘l settembre e di Maremma e di Sardigna i mali Così parlando arrivammo fino al luogo che per primo, dallo scoglio sovrastante, mostrerebbe l’altra bolgia, fino in fondo, se solo ci fosse più luce. Quando fummo giunti sopra il punto più alto di Malebolgie, così che i suoi abitanti potevano infine apparire alla nostra vista, dei lamenti insoliti mi colpirono come saette, che muovevano a pietà, come fossero delle frecce: per cui io, per non sentirli, mi coprii le orecchie con le mani. Quale sarebbe il dolore, se dagli ospedali della Val di Chiana, tra luglio e settembre, e della Maremma e della Sardegna tutti i malati I peccatori della X Bolgia: gli alchimisti (40-72) Quando i due poeti sono arrivati sul ponte, Dante sente provenire dal basso dei lamenti così pietosi da doversi tappare le orecchie con le mani. Se tra luglio e settembre dagli ospedali della Valdichiana, di Maremma e della Saredegna si mettessero insieme tutti i malati, tale sarebbe lo spettacolo e il puzzo di membra in cancrena che fuoriesce dalla Bolgia. I due poeti scendono sull'argine e da lì Dante può vedere il fondo, dove sono puniti i falsari di metalli (alchimisti). La pestilenza di Egina, quando l'intera popolazione fu sterminata e il paese fu ripopolato con le formiche, non fu più grave dello sgradevole spettacolo della fossa in cui i dannati languono preda di varie malattie. Essi giacciono sul ventre e sulle spalle l'uno dell'altro, alcuni sono sdraiati e altri avanzano carponi. I due poeti procedono e osservano in silenzio i dannati, che non si possono muovere.
INFERNO CANTO XXIX , 49-60 fossero in una fossa tutti ‘nsembre, tal era quivi, e tal puzzo n’usciva qual suol venir de le marcite membre. Noi discendemmo in su l’ultima riva del lungo scoglio, pur da man sinistra; e allor fu la mia vista più viva giù ver’ lo fondo, la ‘ve la ministra de l’alto Sire infallibil giustizia punisce i falsador che qui registra. Non credo ch’a veder maggior tristizia fosse in Egina il popol tutto infermo, quando fu l’aere sì pien di malizia, fossero radunati insieme in una fossa, così era quaggiù, e ne usciva un tale odore come quello che solitamente emanano dalla carne marcita, imputridita. Noi scendemmo fino all’ultimo argine del lungo scoglio, sempre procedendo verso sinistra; e da quel punto la mia vista fu migliore già fino al fondo, là dove la ministra dell’Altissimo, la giustizia divina punisce i falsari, che, sulla terra, la stessa giustizia registra sul suo libro. Non credo che sarebbe stato uno spettacolo più triste vedere in Egina tutto il popolo infermo, quando l’aria si riempì talmente di virus, di malattia,
INFERNO CANTO XXIX , 61-72 che li animali, infino al picciol vermo, cascaron tutti, e poi le genti antiche, secondo che i poeti hanno per fermo, si ristorar di seme di formiche; ch’era a veder per quella oscura valle languir li spirti per diverse biche. Qual sovra ‘l ventre e qual sovra le spalle l’un de l’altro giacea, e qual carpone si trasmutava per lo tristo calle. Passo passo andavam sanza sermone, guardando e ascoltando li ammalati, che non potean levar le lor persone. che gli animali, fino al piccolo vermicciattolo, caddero tutti a terra morti, e poi le antiche genti, come è ritenuto per certo dai poeti, si riformarono prendendo forma dalle formiche; di quanto fosse triste vedere per quella valle oscura agonizzare gli spiriti, distribuiti in diversi mucchi, come mucchi di covoni di grano. Chi giaceva sul ventre, e chi sulle spalle dell’altro, e chi a carponi si trascinava per il triste sentiero. Io e Virgilio proseguivamo passo dopo passo senza proferir parola, guardando e ascoltando gli ammalati, che non potevano alzarsi in piedi.
I falsari (37-72)
INFERNO CANTO XXIX, 73- 84 Io vidi due sedere a sé poggiati, com’ a scaldar si poggia tegghia a tegghia, dal capo al piè di schianze macolati; e non vidi già mai menare stregghia a ragazzo aspettato dal segnorso, né a colui che mal volontier vegghia, come ciascun menava spesso il morso de l’unghie sopra sé per la gran rabbia del pizzicor, che non ha più soccorso; e sì traevan giù l’unghie la scabbia, come coltel di scardova le scaglie o d’altro pesce che più larghe l’abbia. Io vidi due dannati seduti e appoggiati l’uno all’altro, come si appoggiano due teglie messe a scaldare, dal capo ai piedi erano tutti cosparsi di croste; e non ho mai visto muovere con tanta furia la spazzola ad ragazzo di stalla atteso dal suo signore, nè a chi si ritrova a vegliare a malincuore, così come vidi quei due agitare volocemente il morso delle proprio unghie su sé stessi per la gran rabbia del prurito che provavano, che non ha più rimedio; e con le unghie si toglievano croste scabbiose così come un coltello toglie le scaglie del pesce scardova o di altro tipo di pesce che le ha ancora più grandi. Griffolino d'Arezzo (73-120) Dante vede due dannati che siedono appoggiati l'uno all'altro, tutti coperti di croste e di scabbia; entrambi si grattano con violenza per il tremendo prurito, come uno stalliere che striglia con forza un cavallo, e levano via le croste come un coltello che squama una scardova o un pesce simile. Virgilio si rivolge a uno di loro e gli chiede se fra i compagni di pena ci siano degli Italiani, augurandogli che le unghie gli bastino per l'eternità a grattarsi. Il dannato risponde che sia lui sia il compagno cui è appoggiato sono originari dell'Italia, chiedendo a sua volta al poeta chi sia lui. Virgilio spiega che sta guidando Dante, ancor vivo, attraverso l'Inferno e a quel punto i due peccatori si staccano l'uno dall'altro e fissano Dante stralunati. Virigilio invita il discepolo a rivolgersi ai due dannati e Dante chiede loro chi siano, affinché possa portare notizie di loro sulla Terra. Uno dei due si presenta come Griffolino d'Arezzo, condannato al rogo da Albero da Siena non per il peccato che sconta all'Inferno, ovvero l'alchimia, ma perché scherzando gli aveva detto di saper volare. Albero gli aveva ordinato di mostrargli se fosse vero, e poiché Griffolino non c'era riuscito il nobile senese aveva chiesto al vescovo della città, che lo considerava come suo figlio, di bruciarlo come eretico. Egli però è stato destinato alla X Bolgia da Minosse, cui non è lecito sbagliare, in quanto ha praticato l'alchimia.
INFERNO CANTO XXIX, 85 - 96 «O tu che con le dita ti dismaglie», cominciò ‘l duca mio a l’un di loro, «e che fai d’esse talvolta tanaglie, dinne s’alcun Latino è tra costoro che son quinc’ entro, se l’unghia ti basti etternalmente a cotesto lavoro». «Latin siam noi, che tu vedi sì guasti qui ambedue», rispuose l’un piangendo; «ma tu chi se’ che di noi dimandasti?». E ‘l duca disse: «I’ son un che discendo con questo vivo giù di balzo in balzo, e di mostrar lo ‘nferno a lui intendo». “O tu che con le dita ti scrosti” cominciò a dire la mia guida ad uno di loro, “e ogni tanto fai di esse delle tenaglie, dicci se c’è qualche italiano tra costoro che sitrovano qui in questa fossa, e possano le unghie non venire mai meno a questo tuo eterno lavoro”. “Noi siamo italiani, noi che vedi così sfigurati entrambi” rispose uno di essi piangendo; “ma chi sei tu che chiedi di noi?”. E la mia guida Virgilio rispose: “Io sono uno che scende con questo uomo ancora vivo di cerchio in cerchio, ed il mio compito è quello di mostrargli l’inferno”.
Griffolino e Capocchio
INFERNO CANTO XXIX, 97 - 108 Allor si ruppe lo comun rincalzo; e tremando ciascuno a me si volse con altri che l’udiron di rimbalzo. Lo buon maestro a me tutto s’accolse, dicendo: «Dì a lor ciò che tu vuoli»; e io incominciai, poscia ch’ei volse: «Se la vostra memoria non s’imboli nel primo mondo da l’umane menti, ma s’ella viva sotto molti soli, ditemi chi voi siete e di che genti; la vostra sconcia e fastidiosa pena di palesarvi a me non vi spaventi». Allora i due dannati smisero di appoggiarsi l’un l’altro; e tremanti si voltarono entrambi verso di me come fecero anche altri che avevano comunque ascoltato Virgilio. Il buon maestro si fece tutto vicino a me, dicendomi: “Dì loro tutto quello che vuoi”; e io, dopo che egli ebbe espresso il suo volere, cominciai: “Mi auguro che la memoria di voi non sia scomparsa dalle menti delle persone che vivono in terra, e che possa vivere per molti anni ancora, ma ditemi chi siete voi ed a che popolo appartenete: e fate in modo che la vostra schifosa e fastidiosa pena non vi faccia temere di manifestarvi a me”. Capocchio (121-139) Codex Altonensis, La brigata spendereccia Dante prende spunto dalle parole di Griffolino e osserva con Virgilio che i Senesi sono un popolo di incredibile vanità, maggiore persino di quella dei Francesi. L'altro dannato lo sente e afferma ironicamente che tra gli abitanti di Siena devono essere salvati alcuni personaggi, tra i quali Stricca dei Salimbeni, che si diede a spese pazze, suo fratello Niccolò, che introdusse in cucina l'uso dei chiodi di garofano, e tutta la cosiddetta «brigata spendereccia», di cui fecero parte Caccianemico degli Scialenghi e Bartolomeo dei Folcacchieri (detto l'Abbagliato). Il dannato si presenta poi come Capocchio di Siena, che fu falsatore di metalli tramite l'alchimia, e Dante dovrebbe riconoscerlo come buon imitatore della natura.
INFERNO CANTO XXIX, 109 - 120 «Io fui d’Arezzo, e Albero da Siena», rispuose l’un, «mi fé mettere al foco; ma quel per ch’io mori’ qui non mi mena. Vero è ch’i’ dissi lui, parlando a gioco: “I’ mi saprei levar per l’aere a volo”; e quei, ch’avea vaghezza e senno poco, volle ch’i’ li mostrassi l’arte; e solo perch’ io nol feci Dedalo, mi fece ardere a tal che l’avea per figliuolo. Ma ne l’ultima bolgia de le diece me per l’alchìmia che nel mondo usai dannò Minòs, a cui fallar non lece». “Io fui di Arezzo, e Albero da Siena” rispose uno dei due, “mi fece mettere al rogo come eretico; ma non mi trovo qui per il motivo per cui fui condannato a morte. Vero è che io gli dissi, parlando per scherzo: “Io saprei alzarmi in aria e volare”; ed egli, che era curioso ed aveva poco senno, volle che gli mostrassi l’arte del volo; e solo perchè io non feci di lui un nuovo Dedalo, mi fece mettere al rogo dal vescovo, suo zio, il quale lo considerava come un suo figlio. Ma all’ultima delle dieci bolge, poiché praticai l’alchimia nel mondo dei vivi, fui condannò dal giudice Minosse, giudice a cui non è permesso sbagliare”.
INFERNO CANTO XXIX, 121 - 132 E io dissi al poeta: «Or fu già mai gente sì vana come la sanese? Certo non la francesca sì d’assai!». Onde l’altro lebbroso, che m’intese, rispuose al detto mio: «Tra’mene Stricca che seppe far le temperate spese, e Niccolò che la costuma ricca del garofano prima discoverse ne l’orto dove tal seme s’appicca; e tra’ne la brigata in che disperse Caccia d’Ascian la vigna e la gran fonda, e l’Abbagliato suo senno proferse. E io dissi a Virgilio: “Ci fu mai gente così vanitosa come lo sono i senesi? Di certo i francesi non lo sono così tanto come loro!”. Allora l’altro lebbroso, che sentì le mie parole, rispose alla mia affermazione: “Tranne lo Stricca che seppe essere tanto moderato nello spendere, e Nicolò, che l’uso prelibato del garofano, per la preparazione dei cibi, scoprì per primo a Siena, orto dove il seme della gola attecchisce tanto bene. e ad eccezione pure della brigata spendacciona di Caccia d’Asciano, che dilapidò le vigne e i grandi pascoli, e anche dell’Abbagliato che in essa domostrò tutto il proprio ingegno.
INFERNO CANTO XXIX, 133-139 Ma perché sappi chi sì ti seconda contra i Sanesi, aguzza ver’ me l’occhio, sì che la faccia mia ben ti risponda: sì vedrai ch’io son l’ombra di Capocchio, che falsai li metalli con l’alchìmia; e te dee ricordar, se ben t’adocchio, com’ io fui di natura buona scimia». Ma perchè tu sappia chi sono io, che ti assecondo nel parlar male dei senesi, aguzza bene lo sguardo verso di me, cosicchè tu possa riconoscere la mia faccia: così vedrai che io sono l’anima di Capocchio, che falsificai i metalli con l’alchimia: e, se ti riconosciuto come credo, tu puoi ben ricordare come fui abile nello scimmiottare, nel contraffare la natura”.