Nei sessanta anni tra il 1920 e il 1980, la storia delle dottrine economiche assiste alla pubblicazione di alcune opere, che per diversi aspetti dei loro contenuti, si impongono come fondamento dell’economia del benessere e quindi primo riferimento del laboratorio.
Il sintetico excursus, presentato solo attraverso alcuni protagonisti di quel periodo, mira ad interpretare quali evoluzioni l’economia neoclassica compie davanti a quelle opere che, al momento della pubblicazione, segnavano un punto di non ritorno .
The Economics of Welfare di Pigou, An Essay on the Nature and Significance of Economic Science di Robbins, Social choice and individual values di Arrow, Bounded Rationality di Simon, The Joyless Economy di Scitovsky, The Prospect Theory di Kahneman e Tversky.
Con l’avvento della rivoluzione marginalista la visione del processo economico si concentra sul problema dell’allocazione ottimale di risorse scarse tra usi alternativi, dove il punto di partenza è la nozione di utilità e il punto di arrivo è la definizione del benessere.
La separazione paretiana tra l’economia e le scienze sociali con cui «il divorzio tra felicità e economia è pienamente consumato»[1], trova agli inizi degli anni trenta sostegno nel saggio ampiamente noto di Robbins[2]. [1] L. Bruni, “L’economia e i paradossi della felicità”, cit., p. 237. 2] L. Robbins, “An Essay on the Nature and Significance of Economic Science”, cit.
Robbins partendo dalle spiegazioni di equilibrio e di ottimo fornite da Pareto propone una definizione rigorosa di ciò che è materia dell’economia: da qui la separazione non solo tra la sociologia e l’economia, ma anche tra l’etica e l’economia stessa.
Nel conflitto di interesse tra le scienze sociali (intrise di etica ed empirismo) e l’economia, il mercato viene confinato ad essere luogo del self-interest, il che accredita l’idea di un mercato efficiente, privo di qualsiasi altro giudizio di valore, in cui l’agente economico riesce a massimizzare i propri bisogni allocando razionalmente le scarse risorse.
Negli ultimi anni si è assistito alla proposta di alcuni economisti -definiti eterodossi - di un ricorso ad una analisi più ampia, non monolitica o onnicomprensiva, che segua varie strategie di ricerca al fine di garantire maggiore attenzione per il realismo delle assunzioni.
Scriveva Schumpeter: «[ Scriveva Schumpeter: «[...] nell’analisi economica esistono problemi che potrebbero essere affrontati vantaggiosamente con metodi elaborati [anche] dagli psicologi».
Il dibattito circa gli argomenti di competenza e di pertinenza dell’economia, argomenti diversi da quelli delle altre scienze sociali, conduce la discussione al dibattito interno alla stessa disciplina economica: quello relativo all’ipotesi della razionalità perfetta.
Amartya Sen tenta di risolvere il dibattito, proponendo una possibile soluzione di continuità tra quelle discipline (l’economia, la filosofia e la sociologia) che considera alla base della sua teoria.
L’utilitarismo, recuperato dai primi marginalisti, riduce l’analisi del comportamento umano ai soli rapporti tecnici (uomo-cose, uomo-terra) rappresentati dal calcolo razionale, sempre volto alla massimizzazione dell’utilità. Contestando la tradizione robbinsiana, Sen rifiuta l’idea di una scienza economica priva di valori etici: la società, il contesto e gli studi empirici dovrebbero essere il punto di partenza del discorso economico.
L’analisi di Sen affianca l’happiness, per andare oltre: il rimando marxiano ad “un movimento assoluto del divenire” è in Sen fioritura di tutte le capacità umane. L’uomo non persegue la ricchezza in quanto tale, ma essa ha un’importanza esclusivamente strumentale e contingente: la ricchezza è sempre in funzione di qualche altro obiettivo.
Come osserva anche Aristotele nell’Etica Nicomachea la ricchezza non è il bene ultimo che cerchiamo: la perseguiamo soltanto in vista di qualcos’altro. Se abbiamo delle ragioni per voler essere più ricchi, dobbiamo chiederci quali siano esattamente queste ragioni. In generale abbiamo ottime ragioni per desiderare un reddito o una ricchezza maggiore;non perché ricchezza e reddito siano in sé desiderabili, ma perché normalmente sono un ammirevole strumento per essere più liberi di condurre il tipo di vita che apprezziamo.
Scriveva Marshall «tutta la ricchezza consiste di cose desiderabili […] ma non tutte le cose desiderabili si considerano come ricchezza. L’affetto delle persone care, ad esempio, è un elemento importante del benessere, ma non è ritenuto una ricchezza».
L’utilità della ricchezza sta nelle cose che ci permette di fare, nelle libertà che ci aiuta a conseguire. Due cose sono ugualmente importanti: riconoscere il ruolo cruciale della ricchezza nel determinare le condizioni e la qualità della vita e rendersi conto di quanto sia condizionata e contingente questa relazione (A. Sen, Develpoment and freedom, 2000, p. 20)
Rifacendosi alla filosofia aristotelica Sen chiarisce l’esigenza di andare oltre la superficie di ciò che è bramato, sottolineando l’esistenza di diverse funzioni (in particolare quelle contemplative) che l’uomo potrebbe realizzare.
Con Sen si spiega che il well-being non è altro che l’espressione delle funzioni esercitabili da un individuo dato un certo paniere di beni. «anziché i mezzi per vivere bene, si può mettere al primo posto la vita reale che la gente riesce a vivere»[1]. [1] A. K. Sen, Lo sviluppo è libertà, Mondadori, 2000, p.77
La purificazione neoclassica con cui si tenta di liberare l’economia dal legame con le scienze “minori”, è per Sen uno sterile riduzionismo che proclama l’isolamento della disciplina e quindi l’incompletezza delle sue teorie. Dall’analisi squisitamente neoclassica dei teoremi di Arrow e Samuelson, Sen si muove verso uno spazio analitico in cui la psicologia cognitiva incontra la teoria economica; in questo connubio egli definisce la sua teoria, capace di comprende i processi di rappresentazione soggettiva del problema decisionale dell’agente.
Il primo argomento dell’economia in cui l’etica diventa rilevante è sicuramente l’economia del benessere, la quale si erige proprio sui fondamenti neoclassici ed è legata sia alla teoria della razionalità sia ai principi dell’etica.
L’idea seniana è di non escludere, dall’analisi economica, i fattori etici e morali che operano nel reale comportamento umano, e che contribuiscono a deviare l’azione dalla sua traiettoria razionale.
L’etica, propria delle scienze sociali, aiuta a comprendere la dualità dell’io: L’individuo può essere descritto in termini di facoltà di agire e in termini di benessere. Se introduciamo l’interesse personale come unica descrizione, la dicotomia si rompe perché l’azione è ricondotta esclusivamente al perseguimento del benessere.
Molti economisti − da Elster, Simon, Hausaman, McPherson, Schelling, Fine, Zamagni, Porta, Bruni, e ovviamente Sen − hanno dimostrato l’intenzione di riabilitare l’etica negli studi economici . Vedi A. K. Sen, Moral Codes and Economic Success, The Development economics research programme, London school of economics, 1993; D.M. Hausaman e M.S. McPherson, Economia, Razionalità ed Etica, Anabasi, Milano, 1994; T. C. Schelling, “Game Theory and the Study of Ethical Systems”, The Journal of Conflict Resolution, 1968, 12, No. 1; S. Zamagni, Economia e Etica –Saggi sul fondamento etico sul discorso economico, AVE, Roma, 1994; L. Bruni, L’economia, la felicità e gli altri. Un’indagine su beni e benessere, Città Nuova, Roma, 2003; L. Bruni e P.L. Porta (a cura di), Felicità e libertà. Economia e benessere in prospettiva relazionale, Guerini e Associati, Milano, 2006.
Dai tempi di Aristotele, scrive Sen, fino al Settecento, la scienza economica fu intesa come filosofia, filosofia pratica per l’esattezza; e lo stesso Smith, filosofo di formazione, continuò ad assegnare grande valore alla morale. Le origini dell’economia politica possono infatti essere ricondotte alle scienze naturali da un lato, e alle scienze umane dall’altro. La politica intesa come scienza del governo è l’unione dell’ingegneria con l’etica: le due facce della nostra disciplina.
Davvero l’attenzione dell’economia, quale scienza sociale, è riservata alla relazione uomo-cose piuttosto che al rapporto uomo-uomo? La risposta è nell’eudaimonia aristotelica o la fioritura di Sen. Il legame tra l’autorealizzazione e la relazionalità individuale si spiega nel bisogno dell’altro: l’io assume senso solo nel rapporto con il noi.
Secondo Wicksteed il discorso economico finisce nel momento in cui l’agente economico riconosce nell’ altro un “tu”. Quando si riconosce l’identità dell’altro e si comprende la natura della propria identità, si oltrepassa il confine dell’economia e ci si addentra nell’area delle discipline sociologiche.
Le altre scienze sociali hanno deriso – raccontano Sacco e Zamagni – il modello di un uomo-consumatore di cose, razionale e privo di legami, che interagisce con gli altri solo attraverso scambi di mercato. Il ruolo dei sentimenti relazionali influenza profondamente il rapporto tra il comportamento razionale e le preferenze rivelate.
Sen supera il limite del non-tuismo, introducendo una prospettiva relazionale in cui l’uomo è razionale nella misura in cui gli è concesso di esserlo.
I soggetti economici sono razionali in un modo del tutto soggettivo, non seguono leggi generali di massimizzazione e pure supponendo che essi abbiano le stesse preferenze e gli stessi mezzi per conseguirle, resta la presenza di: filtri cognitivi differenti (frame dependency) e di differenti strumenti valutativi (bounded rationality).