L’artista smarrito Fantasia e conoscenza personale Roberta De Monticelli Università San Raffaele, Milano Laboratorio di Fenomenologia e Scienze della Persona http://www.unisr.it/list.asp?id=5565 La riflessione che vorrei proporvi verte in primo luogo sul vero e il verisimile in arte pittorica, ma in secondo luogo su fantasia e memoria, e in terzo luogo sulla ricerca di un artista: di un artista particolare, un artista che “perde la via” della sua arte, che si smarrisce. Una storia, un caso, un esempio, che ci devono servire per mettere a fuoco, avendo qualcosa di ben visibile davanti agli occhi, questioni che altrimenti resterebbero troppo vaghe e astratte, questioni che sono al limite fra l’estetica, la filosofia e la patologia della mente, e … la ricerca di ognuno. Per “la ricerca di ognuno” intendo quella stessa che ci porta qui, da ascoltatori più che da conferenzieri, quella ricerca che ha per fine (un fine senza fine) quella che ho chiamato la conoscenza personale. Che non è solo la conoscenza di sé, e non è solo la conoscenza degli altri – in particolare degli universi propri delle grandi personalità artistiche o filosofiche; ma è la conoscenza – mai veramente, compiutamente raggiunta – di ciò che è in questione nella vita di ciascuno di noi. Ciò che è in questione, è che cosa renda questa vita buona, piena, “felice”. “Noi - indipendentemente dal mestiere che esercitiamo - facciamo della ricerca, appena abbiamo un momento libero. Leggiamo, andiamo a teatro o al cinema o a concerto, coltiviamo, come si suol dire, i nostri interessi. Tutto questo è ricerca: ricerca più o meno consapevole di quel tipo di conoscenza che ha come ricaduta la crescita di sé e la conoscenza della propria ulteriorità. Possiamo chiamarla la ricerca di conoscenza personale…” Auto-citazione da L’allegria della mente, un volumetto che rende onore a una frase di Sant’Agostino che non ha smesso, negli anni, di accompagnarmi e di secernere senso: “Nutre la mente solo ciò che la rallegra”. Capire che cosa “rallegri” o nutra la propria mente - che cosa ci faccia vivere e crescere, che cosa ci risvegli e rianimi, quale tipo di scoperte ci emozionino: capire questo è molto nella vita di ogni persona. E’ portare a consapevolezza pezzi del proprio “ordine del cuore”. L’arte ci aiuta in questo – perché è in qualche modo fatta apposta per questo. C’è un’espressione che un fenomenologo contemporaneo usa per riferirsi alla capacità di un’opera di produrre un’emozione estetica profonda – beglueckend, letteralmente “felicitante”. Perché l’emozione estetica profonda è sempre felice, anche quando il suo oggetto è tragico, o straziante, o terribile? E perché tanto spesso l’impulso creativo stesso è suscitato da una sorta di nostalgia, di Sehnsucht nei confronti di un’ indefinibile qualità che un oggetto – in volto, un paesaggio, un ricordo – ha di essere ”felicitante” ? E qual è il rapporto fra l’unicità di ognuno e ciò che è per ciascuno “felicitante”, e per ciascuno diverso? (in arte: “affinità elettive”) Questi gli enigmi che stanno al fondo anche di questa nostra riflessione di oggi.
Il pittore di Pontito La nostra riflessione incomincia in un luogo della Toscana che davvero vale una visita: Pontito, un paesino inerpicato sulle aspre pendici già quasi appenniniche, foltissime di boschi, della cosiddetta “Svizzera pesciatina” E’ un paesino in provincia di Pistoia, che ha goduto di una sua celebrità – prima locale, per via dell’opera del Pittore di Pontito, Franco Magnani; poi mondiale, perché la storia di Franco è stata raccontata da quell’altro artista di drammi e avventure della mente che è Oliver Sacks, in un capitolo di ([1] Sacks , O. (1995), trad., it. Un antropologo su Marte, Adelphi, Milano, pp.215-257) intitolato Il paesaggio dei suoi sogni[1], Quanto a Sacks, che non ha bisogno di presentazioni, niente forse riassume meglio la sua ricerca del motto che apre questo libro: “Chiededetevi non quale malattia la persona abbia, ma piuttosto quale persona la malattia abbia” Molti casi descritti da Sacks mostrano quanto fallace sia la riduzione della vita delle persone alle funzioni biologiche e psicologiche che ne costituiscono i moduli sub-personali. La mente può ben essere modulare, ma allora la mente non è la persona. Questo sembra un filo conduttore della ricerca di Sacks. Nel libro citato, la fenomenologia che Sacks offre a sostegno di questa tesi ha al suo centro il fare, in particolare il fare artistico – e quindi l’espressione . Sacks (1995), p. 307 : « Ma una mente non è una somma di talenti. Una concezione esclusivamente composita o modulare della mente (quale è propria di molti neurologi e psicologi del nostro tempo) non è sostenibile, poiché cancella quella qualità generale della mente – la si chiami portata, apertura, dimensione o ampiezza – che è sempre istantaneamente riconoscibile nelle persone normali. E’ una capacità che sembra supermodale e brilla attraverso qualunque costellazione di talenti”.
La storia dell’artista Questo quadro di Franco Magnani, il pittore di Pontito, mostra già per quali ragioni Sacks cominciò a interessarsi a questa figura. Questa sembra una copia dal vero – graziosamente naif, ma esatta, tranne per qualche dettaglio, che, vedremo, ha molta importanza. Il fatto è però che non fu affatto dipinta “dal vivo” né in base a una fotografia (la fotografia è posteriore) ma a memoria: una memoria d’infanzia, perché Franco Magnani, all’epoca di questo dipinto, fatto negli anni ’60, viveva da almeno una dozzina d’anni a San Francisco, e al paese natale non aveva fatto mai ritorno. Questo fatto lo si vede già dai dettagli: il dipinto mostra vigne e coltivi là dove ora ci sono selve. E’ una Pontito d’anteguerra, prima dell’emigrazione e dell’abbandono che colpi quei paesi (oggi anche grazie a Magnani rifioriscono in parte col turismo). Sacks comincia dunque a interessarsi a Magnani come a un caso di ipermnesia, un po’ come L’uomo che non dimenticava nulla del grande neuropsicologo russo Lurija, o come l’immaginario Funes, o della memoria - di Borges. Incontra appunto la sua opera in una mostra organizzata dalla moglie americana del pittore nel 1987 a San Francisco, dove appunto recenti foto di Pontito, scattate molto dopo i dipinti, venivano giustapposte ai quadri per mostrare la fedeltà impressionante della memoria del pittore.
Memoria o visione? Ma Sacks si accorge subito che Magnani è molto più che un caso di ipermnesia visiva. Alcuni dei suoi dipinti ci colpiscono davvero esteticamente. C’è una peculiare espressività in questo pittore, che anche Sacks nota. E approfondendo il caso, nota anche la presenza di altri possibili fattori neurobio-psicologici che lo complicano, come ora vedremo dalla storia. La storia, dunque. Franco Magnani, nato a Pontito nel 1934, vive a otto anni il trauma della morte del padre e a nove la tragedia dell’invasione nazista del paesino nel ’43. Dopo un’incerta giovinezza, si imbarca e gira il mondo come cuoco a bordo di una nave, poi si stabilisce a San Francisco, all’età di trentun anni. E’ proprio nel ’65, mentre elabora questa difficile decisione di trapiantarsi definitivamente in America rinunciando per sempre al ritorno nel paese natale, che viene colpito da una malattia, e ricoverato in un ospedale – senza che nessuno sappia davvero dirgli di cosa si tratta: c’è febbre alta, dimagrimento, delirio, convulsioni…. In effetti in quei giorni d’ospedale Franco comincia ad avere sogni e visioni in cui le case, le strade, i muri, le pietre di Pontito – e nient’altro – gli si parano davanti con straordinaria precisione, di gran lunga superiore a quella dei suoi ricordi coscienti. E sembrano portare con sé un’aura d’apocalissi e insieme di struggimento, dall’intensità sconvolgente. (Qualcosa ne resta ad esempio in questo dipinto, che rievoca la visione dalla finestra della camera del pittore da bambino. C’è una struggente promessa nel cielo di quella finestra, che non esiste affatto nella foto fatta dopo. C’è il dettaglio della strada che sale, importantissimo come vedremo. C’è la stessa inquadratura, che inconsapevolmente fa quello che un dipinto fa nella nostra iconografia, a partire dal Rinascimento: la cornice del quadro è come una finestra su un altro mondo, una parentesi che sospende la realtà quotidiana e apre un varco alla ben disciplinata visione di un vero più vero del verosimile, dell’IDEA…)
Pontito salva per l’eternità A proposito di visione e visionarietà, questo dipinto, che non è fra i primi di Magnani, e che lui stesso intitola così, svela precisamente il senso di quella finestra, della “visione” dell’artista. Qui ne abbiamo un’interpretazione cosmico-fantastica. Ma quello che colpisce è precisamente il fatto che all’oggetto di memoria qui viene tolto ogni particolare aneddotico, ogni dettaglio tipo “pittura di genere”. Viene tolto precisamente ciò che fa tale l’oggetto di un ricordo, e di cui invece non necessariamente ha bisogno l’oggetto di visione fantastica: il tempo e lo spazio, ciè la precisa “situazione” della cosa ricordata. Ma continuiamo con la storia. Franco cerca un mezzo di espressione di queste sue esperienze, così nuove benché salite dal passato. E si scopre pittore. Per molti anni, dopo essersi stabilito a San Francisco, dipinge. Per molti e molti anni dipinge sempre e solo una cosa: Pontito. Scorci e dettagli, pietre e scalinate, la sua finestra. Con variazioni minime, eppure con infinita varietà di dettagli, inquadrature, punti di vista. C’è una cosa che Sacks non nota: eppure è un tema che torna ossessivo: la strada. Di scorcio, diritta, a scalinata – non manca mai. Di che natura sono queste visioni? E’ qui che Sacks può aiutarci. Cito: “Durante questi sogni, era posseduto da un eccitamento strano e intenso: aveva la sensazione che qualcosa fosse appena accaduto, o stesse per accadere; la sensazione di un significato immenso, premonitore e tuttavia enigmatico, al quale si accompagnava una nostalgia dolceamara, struggente e insaziabile” (22) E’ evidente: Sacks suggerisce l’ipotesi di una crisi di tipo epilettico. E qui accumula i riferimenti: dalle descrizioni di questi stati nell’opera del grande neurologo ottocentesco John Hughling Jackson, a un visionario ben altrimenti geniale, Van Gogh (l’ipotesi di epilessia prevalse su quella Jaspersiana di schizofrenia a partire da Françoise Minkowska (1949), a Dostoevskij… Dal punto di vista clinico, le cose si complicano. C’è una strana tensione fra il tipo di memoria involontaria, emotivamente carica e anzi spesso carica di suggestioni apocalittiche, che popolarmente associamo al male sacro, e la registrazione minuziosa ed emotivamente neutra, priva di qualunque aspetto selettivo, in qualche modo “meccanica” o fotografica, richiamabile a piacimento, che sarebbe quella dell’ipermnestico, di Funes o dell’uomo di Lurija, il cui carico è alla lunga insopportabile proprio per questa indifferenza ed estraneità. Da un punto di vista scientifico, questa opposizione si complica ancora, perché questi due tipi di fenomeni, ipermnesia e memorie involontarie legate all’attività epilettica (o alla stimolazione di lobi temporali, come negli esperimenti di Penfield) sembrano invece più o meno favorevoli al modello di memoria oggi superato dalle teorie neurologiche: memoria-registrazione o memoria-invenzione (Frederic Bartlett, Gerald Edelmann)
Il vero e il verosimile. La nostra questione Ma noi a questo punto lasciamo Oliver Sacks e continuiamo da soli. Magnani – anche Sacks lo sa – è un caso non solo clinicamente, ma molto più esteticamente e umanamente interessante. Abbiamo una problematica completamente indipendente da quella clinica, che certo può esservi correlata, e che si riferisce esclusivamente ai dati visibili, ai fenomeni. In questo seguiamo un’indicazione di van Gogh: “Credo che si pensi in modo ben più sano quando le idee sorgono dal contatto diretto con le cose, che quando ci si mette a guardare le cose con lo scopo di trovarci questa o quell’idea” (Lettere al fratello, 1882). La nostra questione riguarda il vero e il verosimile. George Braques, l’inventore del cubismo, aveva scritto: “Bisogna scegliere. Una cosa non può essere nello stesso tempo vera e verosimile” (cit. in Minkowska p. 11). Questa immagine mostra da che parte stia il “verosimile” e da che parte il “vero”. Salta agli occhi il “di più” che c’è nel quadro e non nella foto: il “supplemento d’anima”. L’espressività. Un questo caso è fatta dei due principali elementi della pittura di Magnani, che sono le pietre e la luce. Li ritroviamo in tutti i dipinti del primo periodo, quello succeduto alle visioni e anteriore alla mostra dell’87. C’è in tutti un’anima, verrebbe da dire: l’anima di ciò che è senz’anima. Senz’anima viva. Nessun personaggio. Una Pontito senza viventi. Fatta di pietre e di luce. Di pietre: cose mute ed eterne. Il dettaglio delle pietre dei muri, delle mezzane di cotto sul davanzale della finestra - una appena scheggiata - delle pietre dei lastricati. Luce: una luce perlacea, che riesce a rendere il silenzio alto, assoluto. Ma anche in qualche modo VIVO. Il silenzio delle pietre è vivo. Questo intendevo con “l’anima di ciò che è senz’anima”. Notate il particolare onnipresente – lo scorcio di strada. E il gioco delle ombre, che fa convergere lo sguardo su questo scorcio. Dove va questa strada? La questione che ci poniamo è: che cosa è il vero che è oggetto delle tele di Magnani, e tanto le distingue dalle fotografie? Che cosa è la vera Pontito che la sua pittura vuole salvare, per opposizione alla Pontito reale che si vede nelle fotografie?
La strada Eccola, la strada sempre lastricata di pietre e di luce. Qui si vede come sia quella che interessa a Magnani, anche più del cielo, che avrebbe potuto esserci e non c’è quasi: mentre la luce dal cielo passa completamente al lastricato della strada, che nella foto invece è in ombra. Qui l’ombra serve solo a esaltare la strada e a condurvi sopra lo sguardo, a far camminare lo sguardo sulla strada. Se riprendiamo in termini fenomenologici e non clinici quella tensione che Sacks aveva riscontrato fra ipermnesia e memoria involontaria di tipo epilettico, troviamo una pletora di opposizioni completamente indipendenti dalla clinica. Esse si riassumono forse in un’opposizione che troviamo già in Kant fra immaginazione riproduttiva e immaginazione produttiva – una distinzione su cui si basa buona parte dell’estetica romantica del secolo XIX, con il concetto che essa introdusse di fantasia creativa. La distinzione fra immaginazione riproduttiva e produttiva corrisponde alla strana tensione estetica che troviamo nel pittore di Pontito fra una memoria di tipo ipermnesiaco e una di tipo proustiano – e qui vediamo subito dove consiste l’enorme differenza fra le due, e la tensione che possono creare. E’ nel ruolo diverso che ha in esse il passato, o meglio nella natura del passato. In quella ipermnestica, neutra e indifferente, il passato è un semplice deposito di informazione percettiva. Quasi non ha importanza che sia il mio passato. Nella memoria di tipo proustiano invece il passato è sempre un pezzo di tempo perduto, di vita sepolta, di infanzia. Non è un deposito di informazione, ma è un pezzo perduto di me stesso. Che appare – da Agostino in poi, sempre – soffuso di un aura “beglueckend”, felice. Sono famose le pagine di Agostino sulla felicità che è nella memoria. Agostino si domanda come fa a conoscerla, la felicità che cerca: e fa l’ipotesi che sia per recordationem, che in latino suona “perché il cuore ne ha memoria”: è la proustiana intermittance du coeur, l’aura di felicità che si posa enigmaticamente sull’oggetto del ricordo involontario. E prosegue nell’ipotesi: se il cuore ne ha memoria, è perché “beati fuimus aliquando”, anche se nessuno ricorda dove e perché. Eva Brann, filosofa citata da Sacks, definisce la memoria “il magazzino dell’immaginazione”. Ma come lo è? In quali differenti modi? Come dipende l’immaginazione dalla memoria? La distinzione fra riproduttivo e creativo è già una risposta. La “memoria del cuore” reca con sé l’impulso di “salvare”, di “rivivere”, di “restituire” il tempo perduto – è questo il nesso fra arte e “salvezza” dell’anima, che tutti conoscono dopo Proust. L’altra memoria no. La memoria del cuore porta con sé tanto più di “ispirazione” quanto più è involontaria. “Restituzione” non è “riproduzione”: è questo il grande enigma dell’arte. E’ produzione nuova, creazione. Al limite della memoria puramente ipermnestica c’è la pura registrazione fotografica. Anzi più che fotografica. Sacks suggerisce: “olografica”. C’è una tendenza a riprodurre tutto. “Percezioni visive, uditive, tattili, olfattive sono per lui quasi inscindibili”. Ma non è questa tendenza quella che prevale nel primo periodo. Riocordiamoci che pittoricamente non c’è l’olografia, ma l’oleografia. Fra l’estremo oleografico e quello visionario (rispettivamente: il verisimile e il vero) il secondo prevale ancora.
Fedeltà e trasfigurazione Qui vediamo ancora una volta due tratti del “nuovo”, di una “restituzione” che non è “riproduzione” ma creazione e vita donata: Uno è l’eliminazione dei dettagli inessenziali, accidentali: quelli che eccedono il puro linguaggio pittorico di volume-forma e colore, che sono irrilevanti alla composizione di un “mondo”, di un tutto compiuto e assoluto. Via i cavi della luce,via gli infissi, le lampade…. L’altro è la messa in rilievo di un dato essenziale al mondo del pittore: la strada-gradinata, che ancora una volta campeggia al centro della composizione. Questo confronto ci mostra come nel pittore di Pontito, nonostante la sua relativa naiveté, sia presente, che lui lo sappia o no, tutto il senso della rivoluzione pittorica del XIX secolo. Che è consistita nel portare a coscienza esplicita una cosa che i pittori sapevano inconsapevolmente da sempre: il supporto della riproduzione è solo un supporto delle qualità estetiche del dipinto, che ne fanno una cosa nuova e indipendente (produzione), a differenza della fotografia, dalla cosa riprodotta (Von Hildebrand). Nell’arte di Magnani questo si traduce in una singolare tensione, di nuovo, fra fedeltà e trasfigurazione rispetto alla Pontito reale. Un’opposizione che si aggiunge a quella fra riproduttivo e produttivo, oleografico e visionario, registrazione e recordatio, verosimile e vero. La trasfigurazione è ciò che fa del dipinto un novum, e attesta una fedeltà non al verosimile ma al vero, che stiamo inseguendo. Cos’è, qual è il senso d’essere della Pontito “vera”, indipendente da quella reale e attuale? Ma quella strada, perché? Dove va? Dove porta?
Dove la strada diventa “metafisica” Qui si vede ulteriormente avanzare la riduzione all’essenziale, la riduzione eidetica del visibile che da sempre è compito della pittura, almeno occidentale. Guardate che intensità davvero “metafisica”, sia nel senso di De Chirico sia in quello di una vera “finestra su altri mondi” ha preso qui il tema della strada.
Fedeltà e trasfigurazione: un altro esempio Il lavoro della luce: di nuovo disegna una via. Da quella parte si sale alla casa natale del pittore.
Dove porta la strada? Quello di destra è un disegno, quello di sinistra una serie di riproduzioni fotografiche. Nel disegno bisogna notare soprattutto la maestria con cui il gioco della luce sulle pietre del lastricato disegna lo scorcio di una strada: questa volta una strada invisibile, ritagliata sul sagrato, e che prosegue con un intenso effetto di “ulteriorità”, un po’ come la siepe leopardiana, oltre la torre campanaria. (V. Bodei, Paesaggi sublimi, cap. II, il buio oltre la siepe). Ecco: non abbiamo ancora visto il meglio della produzione del “primo periodo”. Lo faremo. Ma per rispondere alla nostra domanda: Dove porta la strada? Che cosa è, quale è il senso d’essere della Pontito vera, che deve essere salvata? – bisogna che prima ascoltiamo il resto della storia: quello che succede dopo la mostra dell’87, e fino ad oggi. La storia ha un epilogo un po’ triste. Franco, di cui si è ormai sentito parlare, viene invitato a Pontito. Rinvia a lungo, infine cede all’invito. Resta esterrefatto per le proporzioni della Pontito reale: come quando rivediamo un luogo abitato da bambini, tutto sembra incredibilmente piccolo rispetto al ricordo che ne avevamo. Per il resto, le cose non sono granché cambiate. Eppure, questo ritorno sembra essere l’inizio di un declino nell’arte di Franco. Dopo il ritorno, il suo lavoro creativo subisce una battuta d’arresto – troppo forte è il conflitto fra la visione antica e la percezione recente. Non sa più “quale” dipingere. Torna ancora a Pontito, è ormai noto… infine si ristabilisce definitivamente nel suo garage-atelier, a San Francisco. La notorietà, l’affetto dei compatrioti, gli hanno certamente dato nuova energia e nuova speranza. La sua produzione è ripresa, si è anzi fatta frenetica. Ma qualcosa sembra cambiato: vediamolo con i nostri occhi.
La strada smarrita Questo è uno dei quadri della produzione (enorme) successiva all’87, da cui sino state tratte anche stampe a tiratura limitata, cartoline, magliette e altri vari gadgets, acquistabili su internet. Come si vede, purtroppo, vira decisamenente verso l’oleografia. L’incanto delle tele precedenti è in buona parte perduto. In questo periodo, ancora per molto tempo Franco resta attaccato a Pontito – ma come disperatamente. Ecco come descrive la sua attività Sacks: “Franco sta anche sperimentando nuove forme di rappresentazione: modelli di Pontito fatti di cartone, che fabbrica con le sue mani agilissime, e videocassette dei suoi quadri (accompagnati da un commento musicale), che simulano una passeggiata in paese. Lo affascina l’idea di una simulazione computerizzata di Pontito – il pensiero di potersi mettere casco e guanti e di non doversi limitare a guardare, ma di potere anche toccare questa realtà virtuale”[1]. [1] Sacks (1995), p. 256
Pontito’s Stream N. 58 Anche peggio in questa nuova numerosa serie di pitture di ruscello a Pontito. Un nuovo elemento si è aggiunto – l’acqua. Ma niente resta dell’essenziale – un’affastellato coacervo di dettagli inutili. Franco ha forse perduto la via… di Pontito. Di quella “vera”. Cioè del valore misterioso e “felicitante” che ancora traluceva dai dipinti anteriori a questa svolta. Cercatela pure nelle opere successive. La strada che unificava le composizioni, non c’è più. Franco non ce l’ha più fatta, a rispondere adeguatamente a questa domanda di essere salvato che certamente era proprio dell’ineffabile senso salito dalla sua memoria, un senso d’essere che pure, con felicissima intuizione, gli si era donato nel visibile delle pietre – della loro dura eternità, e della luce. Anche il suo scopritore e ammiratore, Oliver Sacks, lo conferma. Ormai Franco “invece di penetrare l’interiorità, il “significato” profondo di Pontito, compie una vasta, addirittura infinita enumerazione di tutti i suoi aspetti esteriori – come se così potesse in qualche modo compensare il vuoto umano interiore”[2]. [1] D. Von Hildebrand, Estetica, a c. di V. Cicero, Bompiani, Milano 2006 [2] Sacks (1995), p.257
Space Cat N. 79 E perfino l’elemento cosmico sembra degenerato in un’aneddotica fumettistica in questo dipinto della serie Space paintings – i più cari, fra l’altro. La produzione di Franco del resto si è allargata. Non è più monotematica, ci sono altri paesaggi, la Pacific Coast, eccetera. Qui si vede particolarmente come l’antica memoria involontaria sia completamente ormai colonizzata dalla volontà costruttiva. Van Gogh avrebbe forse detto: che qui “ci si mette a guardare le cose con lo scopo di trovarci questa o quell’idea” invece di far sorgere le idee nel vivo contatto con le cose. Ma noi non vogliamo chiudere su questo declino. Perché l’artista forse si è smarrito, ma questo non toglie che c’è stato un momento perfetto, in cui la via del vero l’ha trovata, e la Pontito vera è stata davvero e per l’eternità salvata. Questo momento perfetto è rappresentato, a me pare, dalla penultima tela che vi sottopongo: che straordinariamente, invece, è una delle prime che Franco Magnani ha dipinto
Qui finalmente vediamo dove portava la strada: alla “casa natale” del pittore, e insieme oltre questa casa natale, verso l’infinito che sta oltre il muretto. E qui forse possiamo finalmente rispondere alla nostra questione: che cos’è la Pontito “vera”? Qual è il suo “senso d’essere”? Pontito, c’est moi. Le pietre di Pontito sono Franco. Questo dipinto, nella sua perfezione compositiva e cromatica assoluta, riesce a dirlo, dicendo insieme anche molto di più. La qualità felice – “felicitante” di questo dipinto mi pare salti agli occhi…. “beati fuimus aliquando”. C’è un tempo prima del tempo, in cui ci fu questa beatitudine. C’è una promessa che – racconta una sua sorella - Franco bambino fece alla madre dopo la fine della devastazione tedesca di Pontito: “La ricostruirò – ricreerò Pontito per te”. Questa infantile promessa può anche scadere nel patetico, nella paccottiglia e nel materiale turistico per gli enti locali che organizzano le mostre. Ma c’è almeno questo quadro folgorante in cui questa promessa è mantenuta, e insieme è offerta (come in ogni vera opera d’arte) una specie di rivelazione. Questa “casa natale” dice il valore del puro esser nato, del puro esistere nel mondo – ma lo dice in un’altra lingua, una lingua di pietre e di luce. Le pietre di Pontito sono Franco: ma sono Franco in quello che c’è in lui di più dolente ma anche prezioso, in un certo senso divino, il suo silenzio. Sono il suo impietrito essere, trasfigurato e cioè ridonato nella sua essenza e nel suo valore. Quest’opera è un grazie reso alla fonte di quella beatitudine che era prima del tempo. Il vero, non il verosimile di Pontito chiede di essere salvato, e qui lo è. Quello che viene rivelato è l’ “essenza di ogni valore” che Franco deve aver intuito in quelle notti in cui Pontito si risvegliò in lui intatta. Uso questa difficile espressione di Max Scheler, Wertwesen, che dice appunto ciò che fa preziosa ogni cosa preziosa, e che Dante o Manzoni chiamano “lo massimo valor”. Un altro nome per questo “vero” è il deus absconditus, che in un grande dialogo di Niccolò da Cusa fa sciogliere in un pianto felice l’uomo che non ha più casa, che non ha più possesso. Né di sapere, né di certezza, né di stabilità. Che, come Franco, è un uomo d’esilio, senza ritorno. La pietra è muta, ma la luce sulla pietra fa il silenzio vivo. Vivo in altro e ineffabile modo, che non stupisce abbia in quelle notti sciolto in un pianto senza nome e in una promessa impossibile lo stesso interiore mutismo di Franco. Che lo abbia sciolto proprio come il deus absconditus, mai visto né altrimenti conosciuto – scioglie l’opposizione, la tensione, nella coincidenza degli opposti. Come il ben più grande Van Gogh disse identificando i notturni cipressi al loro “opposto ed equivalente”, i girasoli. Qui la pietra e la luce sono diventati una sola essenza, quasi l’essenza stessa di una strada. Solo la via di Pontito porta oltre Pontito. La pietra non ha vita, non ha pensiero. Ma attraverso la luce, qui questo non essere si trasfigura in puro essere: qui è tutto risolto, ogni no nel suo opposto, il deserto in paesaggio, il vuoto in infinito, il non essere nell’atto puro e assoluto di esistere, esistere soltanto. Sine addictione, senza dover essere e fare, pura grazia donata – e ricevuta. Qui la dura eternità della pietra appare come una via – una vita - interminabile eppure tutta raccolta: in un presente che sta, che non scorre, che non passa più. E’ salvo. E questo basterebbe forse a congedarci da Franco con gratitudine. Ma io credo sia più giusto accettare anche, dell’artista, lo smarrimento e il declino, perché anche questo può insegnare molto.
La strada spezzata In questo nostro tempo idolatra e letteralista, in questo nostro tempo ipermnestico e “tangibilista”, Franco, che ha ceduto all’invito del verosimile, ha perduto la via del vero. E in qualche modo lo sa. Anche Sacks è colpito da questo punto: che quello che ora affascina il pittore è “l’idea di una simulazione computerizzata di Pontito – il pensiero di potersi mettere casco e guanti e di non doversi limitare a guardare, ma di poter toccare anche questa realtà virtuale” (256). Alla salvezza del vero si sostituisce oggi il salvare ogni fesseria sull’infinita memoria dei nostri computers. Questo dipinto si trova già oltre il vertice della parabola, sulla via del declino. Vi si vede un frammento di Pontito, una scheggia, perduta nel cosmo. E’ però un giardino d’oro e verde, il giardino della chiesa. E’ un frammento, uno spezzone della “felicità di prima”, una scheggia alla deriva. Qui di nuovo gli opposti sono in tensione, e la tensione non si scioglie: fra l’oleografia e la visionarietà, il volontarismo della riproduzione e la magia della restituzione, fra l’idea fissa e la poesia, fra il verosimile e il vero. Ma al centro campeggia ancora, ormai spezzata, la strada. Questa immagine della ricerca di ognuno.