Leopardi e l’origine delle lingue Parte seconda. E se le lingue avessero invece un’origine naturale? La tesi di Epicuro di Samo (341?-270 a.C.): … neppure.

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Leopardi e l’origine delle lingue Parte seconda

E se le lingue avessero invece un’origine naturale? La tesi di Epicuro di Samo (341?-270 a.C.): … neppure l’origine del linguaggio derivò da convenzione, ma gli uomini stessi naturalmente, a seconda delle singole stirpi provando proprie affezioni e ricevendo speciali percezioni, emettevano l’aria in modo diverso conformata per l’impulso delle singole affezioni e percezioni, e a tale differenza contribuiva anche quella diversità delle stirpi ch’è prodotta dai vari luoghi abitati da esse (dalla Lettera a Erodoto)

La tesi naturalista nel ‘ G. W. Leibniz “De origine linguarum naturali” (1685?) E. B. de Condillac “Essai sur l’origine des connoissances humaines” (1746) J. G. Herder, “Abhandlung über den Ursprung der Sprache” (1772) Johann Gottfried Herder, vincitore del concorso dell’Accademia di Berlino (1769)

Leopardi si schiera dunque per l’origine naturale La differenza delle lingue non è una colpa né un’imperfezione ma un dato fisiologico; Essa comporta una spinta alla differenziazione dei linguaggi nel tempo (diacronia) e nello spazio (diatopia); Nessuna lingua resta immobile, perché segue inevitabilmente l’evoluzione e la storia della società parlante.

Cambiamento nello spazio (1) « Anche dalle osservazioni precedenti si può dedurre, che questa impossibilità naturale e positiva dello estendersi una lingua più che tanto, in paese, e in numero di parlatori (o provenga dal clima che diversifichi naturalmente le lingue, o da qualunque cagione), non è solamente dipendente dalla mescolanza di altre lingue che guastino quella tal lingua che si estende, a misura che trova occupato il posto da altre, e ne le caccia: ma che è un'impossibilità materiale, innata, assoluta, per cui, quando anche tutto il resto del mondo fosse vuoto, o muto, quella tal lingua, dilatandosi più che tanto, si dividerebbe appoco appoco in più lingue». (Zib. 934)

Cambiamento nello spazio (2) « Ma dentro i confini di un medesimo ed unico dialetto, non v'è città, il cui linguaggio non differisca più o meno, da quello medesimo della città più immediatamente vicina. Non differisca dico, nel tuono e inflessione e modulazione della pronunzia, nella inflessione e modificazione diversa delle [936] parole, e in alcune parole, frasi, maniere, intieramente sue proprie e particolari. Questo si vede nelle città di Toscana (tanto che il Varchi vuole perciò che la lingua scritta italiana, non solo non si chiami italiana, ma neppur toscana, bensì fiorentina), si vede nelle altre città di qualunque provincia italiana, e dappertutto. Di più in ciascuna città, il linguaggio cittadinesco è diverso dal campestre. Di più senza uscire dalla città medesima, è noto che nella stessa Firenze si parla più di un dialetto, secondo la diversità delle contrade: (e di ciò pure il Varchi). Così che una lingua non arriva ad essere strettamente conforme e comune, neppure ad una stessa città, s'ella è più che tanto estesa, e popolata. E così credo che avverrà pure in Parigi ec. »

Varietà radicale delle lingue « Dalle mie osservazioni sulla necessaria varietà delle lingue, risulta che non solo le lingue furono naturalmente molte e diverse anche da principio, per le [1066] impressioni che le medesime cose fanno ne' diversi uomini; le diverse facoltà imitative, o le diverse maniere d'imitazione usate da' primi creatori e inventori della favella; le diverse parti, forme, generi, accidenti di una medesima cosa, presi ad imitare e ad esprimere da' diversi uomini colla parola significante quella tal cosa; (vedi Scelta di Opuscoli interessanti, Milano. Vol. 4. p e p. 44. nota) ma eziandio che introdotta e stabilita una medesima favella, cioè un medesimo sistema di suoni significativi, uniformi e comuni in una medesima società; questa favella ancora, inevitabilmente si diversifica e divide appoco appoco in differenti favelle». (19. Maggio 1821).