La nascita del pensiero politico nell’Islam

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La nascita del pensiero politico nell’Islam
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La nascita del pensiero politico nell’Islam

Le origini del linguaggio politico islamico vanno ricercate nel Corano, nelle Tradizioni del Profeta (gli hadīth), nelle elaborazioni dei primi fuqahā’ (giurisperiti, plurale di faqīh) dell’età classica della storia islamica (secc. VII-XIII). Per comprendere la lingua del discorso politico nel mondo musulmano bisogna tornare alle origini della cultura giuridica islamica dei primi secoli per analizzarne le categorie fondamentali e originali e per decifrarne la lingua e i suoi codici.

La cultura politica islamica si è formata non solo sull’insegnamento tratto dal Corano e dalla Sunna del Profeta, ma anche grazie al contatto con le culture degli imperi conquistati: quello romano-bizantino e quello persiano-sasanide innanzitutto. Traduzione in arabo dei trattati di filosofia greca, dei manuali persiani sull’arte di governare e sull’etichetta di corte; prestiti linguistici dalle lingue latina, persiana, turca. Da questo patrimonio inestimabile, già nell’XI secolo il mondo islamico aveva saputo creare una vigorosa cultura politica espressa in lingua araba.

Principio fondamentale della tradizione giuridica e politica islamica è la non distinzione fra Chiesa e Stato, fra sacerdotium e regnum, fra spirituale e temporale  islam: dīn, dunya wa dawla (religione, società, Stato). Le fonti religiose sono fonti del diritto (fiqh) alla base della elaborazione della sharī‘a (legge sacra) L’Islam è religione di Stato in praticamente tutti i Paesi musulmani ed è la base dell’autorità, anche se interpretato in maniera differente.

Per il pensiero politico islamico tradizionale l’autorità politica è un beneficio divino, non un male. Dio è coinvolto nelle vicende dell’uomo poiché tramite l’uomo Egli conferma la sua volontà e la sua supremazia. Il potere temporale è un segno della benevolenza di Dio e il califfo (o comunque colui che governa) lo fa in nome di Dio se rispetta la sua Legge (sharī‘a). La civiltà islamica ha avuto origine con un evento trionfante, con l’ascesa rapida di un grande impero, che dalla penisola arabica si è diffuso rapidamente su Nordafrica e Medioriente. L’autorità del sovrano è voluta da Dio, in qualunque modo essa sia stata ottenuta o sia esercitata.

Il fiqh Il primo documento politico della storia islamica è la cosiddetta Costituzione di Medina (anno 1 dell’Egira), in cui si stabiliscono per la prima volta le regole di convivenza con i non musulmani (ebrei). Si comincia ad elaborare il mito della Comunità perfetta (umma) retta da norme superiori volute da Dio. La religione irrompe nella politica.

Il califfato, la prima forma di autorità politica Il califfo (vicario del Profeta Muhammad) è l’autorità centrale suprema della umma dei fedeli e il suo potere si diffonde in tutta la dār al-islām e fra tutti i componenti della umma. Il califfo benguidato‘Umar (634-644) coniò l’epressione amīr al-mu’minīn (principe dei credenti), ancora oggi utilizzata in particolare dalla dinastia sceriffiana (da sharīf, discendente del Profeta) al potere in Marocco. Il califfato è per definizione unico, ma nella storia dell’Islam, in epoca abbaside, ci furono almeno due “anticaliffati”, quello fatimide (sciita ismailita) del Cairo e quello omayyade di Spagna, entrambi del X secolo.

La suprema autorità politica è designata con il termine imāma, che significa “carica e funzione dell’imām” (l’imām è colui che conduce la preghiera, dunque, per traslato, colui che guida la comunità, il capo religioso e politico). Per i sunniti* l’imāma è sinonimo di khilāfa (califfato), e l’imām si identifica nella figura del califfo (khalīfa). L’istituzione del califfato è durata fino al 1258, con la caduta della capitale Baghdad in mano ai Mongoli, ma poi è stata riesumata dall’ottomano Selim I nel 1517. Sarà Mustafa Kemal Ataturk, padre della moderna Turchia, ad abolire il califfato nel 1924 con una decisione che traumatizzerà l’intero mondo musulmano dell’epoca. * Diversamente che per gli sciiti, per i quali a capo della comunità stanno gli Imām (della catena di dodici o di sette) della dottrina sciita duodecimana o settimana/ismailita.

Lo Stato islamico Uno Stato islamico non è mai esistito se non all’epoca del Profeta. Le prime teorie sullo Stato sono in realtà elaborazioni filosofiche, fra le quali emerge quella di al-Farabi (IX-X secolo), che ipotizza un modello di Stato ideale su basi filosofiche, ove religione e filosofia sono in pieno equilibrio ed armonia, grazie alla scienza politica. Ma sarà al-Mawardi (XI secolo) a teorizzare per primo un modello islamico di Stato, formulando una dottrina organica del califfato, nel suo “I princìpi del potere”. Egli vive in un’epoca di crisi irreversibile del califfato. Per lui il califfo deve essere un ‘alīm che applica la sharī‘a e questo è sufficiente alla buona gestione del potere politico.

L’idea di uno Stato islamico si è prodotta nel tempo, a seguito di vicissitudini storiche, ma non è insita nei fondamenti dell’Islam. Il termine per indicare Stato e sistema politico si modifica nel corso del tempo: all’epoca della salita al potere degli Abbasidi cominciò ad essere utilizzato il termine dawla, che indica “alternanza, successione, dinastia”. Più recente è l’uso del termine hukūma, che si differenzia gradualmente dal generico Stato per andare a definire dalla metà del XIX secolo il termine “governo”. Infine, il termine watan traduce il nostro “nazione”, assumendo una colorazione più patriottica e nazionalistica (XIX-XX secolo), sulla base di un’idea nuova per l’Islam, quella di lealtà a un paese e a una nazione, non più a una comunità o a una dinastia.

Lo Stato islamico non è uno Stato teocratico se si intende con tale termine uno Stato governato dalla Chiesa, poiché non vi è nell’Islam né chiesa né sacerdozio. È uno Stato teocentrico, se si intende con ciò uno Stato governato dalla Legge di Dio. Nella tradizione politica islamica Dio è il sovrano supremo, la massima fonte di legittimità dell’autorità politica, il perno attorno al quale ruota tutta la vita del cosmo e dell’uomo Il principio fondamentale del buon governo, tratto direttamente dal Corano è “comandare il bene e negare il male”: una responsabilità condivisa dal sovrano e dal suddito, cioè dallo Stato e dal cittadino. Nella tradizione del pensiero politico islamico non è contemplata la fattispecie di Stato dittatoriale, poiché il diritto islamico non ha mai concesso potere assoluto al sovrano e raramente il sovrano ha potuto esercitare una forma assoluta di potere (controllo e veto degli ‘ulamā’).

Il governante musulmano è dunque un autocrate, ma non un despota perché le sue prerogative sono stabilite e regolamentate per legge. Il dovere di obbedienza al governante è un obbligo religioso, fondato sulle parole del Corano e dalla sharī‘a. Ma se il sovrano non rispetta il patto, l’obbedienza non è più dovuta. Tuttavia, la maggior parte dei giuristi o giurisperiti (fuqahā’) dell’epoca classica sostenne la tradizione autoritaria, conservatrice e quietista, ma nella storia dell’islam vi fu da sempre un’altra corrente di pensiero politico, più attivista e radicale, di opposizione politica e, inevitabilmente, religiosa. Entrambi le correnti di pensiero usano le vicende della vita del Profeta come paradigma del giusto comportamento del musulmano, sia esso governante o governato.

Nella storia dell’islam ci sono stati molti momenti di crisi politica e di rottura (dawla, fitna, thawra). Tuttavia la paura dell’anarchia, della disgregazione e della debolezza politica di fronte alle minacce esterne (dalle invasione mongole alle Crociate, dalla Reconquista spagnola alla colonizzazione europea) portò i giuristi a prediligere, nei vari secoli, una versione quietista della vita della comunità in favore della coesione sociale di fronte ai pericoli esterni. La tirannide (istibdād) è comunque preferibile, nel momento del pericolo, alla rottura, alla ribellione, all’anarchia politica (fitna).

La decadenza L’epoca di apogeo dell’Islam si può estendere fino al XVI secolo (decimo secolo dell’Egira), coincidente con il primo millennio della storia musulmana. Il primo millennio della storia musulmana si conclude nell’anno 1591 del calendario gregoriano, in un’epoca in cui comincia a farsi pressante l’esigenza di un rinnovamento (tajdīd). Nonostante sia l’epoca dei grandi imperi sovranazionali che si spartirono le terre dell’Islam, è un’epoca di ripiegamento e crisi. Il tentativo di arginare la decadenza e di modernizzarsi si concilia con l’affermazione di una visione involutiva della storia, in cui si guarda al passato come ad un’epoca d’oro: utopia retrospettiva.

L’età moderna nel mondo musulmano L’impero ottomano comincia già nel secolo XVII la sua lunghissima agonia, perdendo ampi territori. Il 1798 è considerato l’anno dell’entrata nella modernità del mondo islamico, con la spedizione di Napoleone Bonaparte in Egitto, che si concluderà politicamente con un nulla di fatto ma avrà una enorme importanza sul piano socio-culturale per il mondo musulmano (e per l’Occidente). Si inaugurano le scienze orientalistiche, si comincia a parlare di question d’Orient, i musulmani scoprono un altro ordine culturale.

Il ripiegamento dell’Islam su se stesso Nello stesso periodo della spedizione napoleonica, nelle remote aree della penisola arabica nasce un movimento di pensiero puritano e intransigente, che si rifaceva alla scuola giuridica sunnita hanbalita, la più chiusa: il Wahhabismo, dal nome del suo eponimo Muhammad ibn ‘Abd al-Wahhab (1703-1792). Esso riesce, grazie all’alleanza politica (1744) con la famiglia Sa‘ud, che governava la regione della penisola arabica denominata Najd, a divenire il nerbo di un forte Stato che sarebbe diventato, nel 1932, lo Stato dell’Arabia Saudita, che ancora oggi ha il Wahhabismo come sua ideologia ufficiale. Il Wahhabismo condanna anche la religiosità delle confraternite (turuq o tariqāt) sufi, che avevano una grande importanza all’epoca ed esprimevano la religiosità popolare; tuttavia esso rappresenta, proprio come il sufismo, una forma di ripiegamento dell’islam su se stesso. pp. 4-5 su al-Wahhab (P. Ménoret) p. 9 su riformisti indiani (Bredi)

Un nuovo pensiero politico islamico Nei secoli delle conquiste e dello splendore politico, il pensiero politico islamico si poneva il problema del trattamento dello straniero in terra d’Islam e non del musulmano nella dār al-harb (territori non musulmani). Ma con la colonizzazione europea, la questione dei musulmani che vivevano sotto il dominio di cristiani impose ai giuristi nuovi quesiti e la ricerca di inedite soluzioni. In risposta alla colonizzazione, in particolare, il pensiero politico islamico fu costretto ad adottare nuove categorie concettuali e un nuovo lessico: i regimi contro cui si lottava non erano più infedeli da conquistare ma stranieri colonizzatori.

Bisognava combattere non solo in nome della religione, ma per l’indipendenza politica dei propri territori, quindi in nome del nazionalismo (wataniyya), concetto assolutamente nuovo per il pensiero islamico. Alla fine del XVIII secolo fanno la loro comparsa i termini “libertà” (hurriyya), “indipendenza” (istiqlāl), “imperialismo” (imbiriāliyya). Vengono promulgate le prime Costituzioni (molte delle quali effimere) nel mondo musulmano: nel 1861 in Tunisia, nel 1876 in Turchia, nel 1882 in Egitto, nel 1906 in Persia. 1798 Napoleone Bonaparte lo usa per la prima volta

I principi della dottrina classica occidentale - il carattere contrattuale ed elettivo di poteri sovrani, il principio della legittimità e della limitazione dei poteri, i valori di giustizia e libertà - emersero come temi fondamentali nel pensiero politico islamico, fondendosi (a volte faticosamente) con le categorie concettuali il pensiero tradizionale. Accanto alla sharī‘a emerse il termine qanūn, quel sistema di leggi e regolamenti emanati dallo Stato, più consoni alle esigenze della modernità. Da allora il fiqh islamico ha trovato forme di convivenza più o meno armoniche con sistemi giuridici laicizzati.

Qualche decennio dopo, nel cuore dell’impero ottomano e nel Vicino Oriente, nell’epoca seguente lo sbarco napoleonico, si assiste ad una ventata di riformismo occidentalizzante. Riforme sotto il califfo ottomano Mahmud II (1808-1839) e soprattutto le Tanzīmāt sotto suoi successori ‘Abd al-Mejid (1839-1861) e ‘Abd al-Hamid II (1876-1909). La definizione della cittadinanza in senso moderno prende il posto dell’obsoleta distinzione fra musulmani e dhimmi. Anche il riformismo musulmano (islāh) condanna le forme mistiche dell’Islam come retrograde e le accusa di mantenere la religione in uno stato di arretratezza e ignoranza. È l’epoca della irruzione della modernità, ma anche del colonialismo, e delle contraddittorie risposte che ad essa la cultura islamica cercò di dare per rispondere ad una sfida epocale destinata a perdurare fino ai nostri giorni.

Nonostante le aspettative e gli entusiasmi, i governi emersi dalle lotte di indipendenza, nella seconda metà del XX secolo e dopo la seconda guerra mondiale, non furono all’altezza delle aspettative. La situazione sociale ed economica in tutti i Paesi musulmani andò peggiorando, la libertà e la democrazia, il rispetto dei diritti umani e della dignità dell’uomo rimasero buoni principi sulla carta. Un numero sempre più alto di musulmani si rifugiò, dagli anni Trenta del XX secolo, in una mitica “età dell’oro”, quella della grandezza dell’islam  nascita del pensiero fondamentalista (o integralista o, meglio, radicalista). Il linguaggio politico dell’Islam tradizionale acquista una nuova valenza e un nuovo significato, nel tentativo di realizzare quella che è stata chiamata “l’utopia dello Stato islamico”, la realizzazione di società moderne basate su legislazioni sciaraitiche.