Giambattista Vico Giambattista Vico (Napoli, 23 giugno 1668 – Napoli, 23 gennaio 1744) è stato un filosofo, storico e giurista italiano. Molte delle notizie riguardanti la vita di Giambattista Vico sono tratte dalla sua Autobiografia (1725-28) scritta sul modello letterario delle Confessioni di Agostino. Da quest'opera Vico cancellerà ogni riferimento ai suoi interessi giovanili per le dottrine atomistiche e per il pensiero cartesiano che avevano cominciato a diffondersi a Napoli ma subito repressi dalla censura delle autorità civili e religiose che le consideravano moralmente perniciose e in violazione dell'Indice dei libri proibiti.[1] Nato in una famiglia di modeste condizioni - il padre era un povero libraio con otto figli da mantenere - Vico fu un bambino molto vivace che per una grave caduta si procurò una frattura al cranio che gli impedì di frequentare la scuola per tre anni e che, pur non alterando le sue capacità mentali, tuttavia gli cambiò il carattere rendendolo introverso e melanconico.[2] Studiò filosofia nel collegio dei gesuiti di Napoli. Appassionato di studi giuridici, sempre considerati da lui di grande importanza, spronato dal padre nel 1684 si dedicò alla carriera forense seguendo di malavoglia delle lezioni private. Iscrittosi all'Università di Napoli, si laureò nel 1693 in utroque, cioè in diritto canonico e civile. Fondamentali per la sua formazione culturale furono gli anni tra il 1686 e il 1695 trascorsi, mentre si dedicava agli studi di diritto, come precettore dei figli del marchese Domenico Rocca nel castello di Vatolla nel Cilento: qui Vico usufruendo della grande biblioteca padronale, ebbe modo di leggere e studiare le opere di Platone, Aristotele, Agostino, Tacito, Dante e Petrarca , tenendosi anche aggiornato sul dibattito filosofico di quel tempo che si svolgeva attorno alla "discussione sul cartesianesimo" tra i sostenitori di Cartesio e i suoi critici. Di quel periodo di intenso studio da autodidatta ci è pervenuta una canzone da lui composta, dal titolo Affetti di un disperato, ispirata alla poesia di Lucrezio. Tornato a Napoli ottenne la modesta cattedra universitaria di eloquenza e retorica che mantenne sino al termine della sua vita assieme all'incarico, attribuitogli nel 1732 dal re Carlo III di Borbone, di storiografo regio. L'arrivo di Carlo III nella Napoli di Giambattista Vico. Dipinto di Antonio Joli (1700 ca.-1770) conservato nel Museo del Prado, Madrid Nell'ambiente culturale napoletano, molto interessato alle nuove dottrine filosofiche, Vico ebbe modo di entrare in rapporto con il pensiero di Cartesio, Malebranche, Gassendi, Hobbes e Leibniz anche se i suoi autori di riferimento risalivano piuttosto alle dottrine neoplatoniche, rielaborate dalla filosofia rinascimentale, aggiornate dalle moderne concezioni scientifiche di Francesco Bacone e Galileo Galilei e del pensiero giusnaturalistico. Questa varietà di interessi farebbe pensare alla formazione di un pensiero eclettico in Vico che invece giunse ad una originale sintesi con la formazione di una razionalità sperimentatrice con la tradizione platonica e religiosa. Tanto nuova era la sua dottrina che la cultura del tempo non poté apprezzarla: così che Vico rimase appartato e quasi del tutto sconosciuto negli ambienti intellettuali, dovendosi accontentare di una cattedra di secondaria importanza all'Università napoletana che lo manteneva inoltre in tali ristrettezze economiche che per pubblicare il suo capolavoro la Scienza Nuova dovette toglierne alcune parti in modo che risultasse meno costoso per la stampa.[3] A queste difficoltà economiche per la pubblicazione delle sue opere, che influirono certo negativamente sulla sua notorietà nel mondo accademico, va aggiunto il suo stile di scrittura poco lineare che rendeva difficile la lettura del suo pensiero.[4] Prima della Scienza Nuova Vico aveva scritto la prolusione inaugurale De nostri temporis studiorum ratione (1708), il De antiquissima Italorum sapientia, ex linguae latinae originibus eruenda (1710) ("L'antichissima sapienza delle popolazioni italiche, da rintracciare nelle origini della lingua latina") a cui si devono aggiungere le due Risposte al "Giornale dei letterati di Venezia" (1711 e 1712) che aveva criticato il suo pensiero, il De uno universi iuris principio et fine uno (1720) e il De costantia iurisprudentiae (1721). Nel 1725 vengono pubblicati i Principj di una Scienza Nuova intorno alla natura delle nazioni, più conosciuta con il titolo abbreviato di Scienza Nuova, opera a cui Vico lavorò per tutto il corso della sua vita, con una edizione integralmente riscritta nel 1730 anche a seguito delle critiche ricevute (cui rispose nelle Vici Vindiciae del 1729) e, infine, rivista completamente, senza grandi modifiche, per la terza edizione del 1744, pochi mesi prima della sua morte. [5]
ETEROGENESI DEI FINI Rifarsi alla mente umana per comprendere la storia non è sufficiente: si vedrà, attraverso il corso degli avvenimenti storici, che la stessa mente dell'uomo è guidata da un principio superiore ad essa che la regola e la indirizza ai suoi fini che vanno al di là o contrastano con quelli che gli uomini si propongono di conseguire; così accade che, mentre l'umanità si dirige al perseguimento di intenti utilitaristici e individuali, si realizzino invece obiettivi di progresso e di giustizia secondo il principio della eterogenesi dei fini. « Pur gli uomini hanno essi fatto questo mondo di nazioni...ma egli è questo mondo, senza dubbio, uscito da una mente spesso diversa ed alle volte tutta contraria e sempre superiore ad essi fini particolari ch'essi uomini si avevan proposti » ( Giambattista Vico) La storia umana in quanto opera creatrice dell'uomo gli appartiene per la conoscenza e per la guida degli eventi storici ma nel medesimo tempo lo stesso uomo è guidato dalla Provvidenza che prepone alla storia divina.
STORICISMO Con il termine S. si indicano due cose distinte. La prima è un modo di atteggiarsi proprio delle scienze umane: queste, a differenza delle scienze della natura o delle scienze esatte, si basano, secondo questa prospettiva, sulla storia; comprenderle, comprendere un concetto che ne fa parte, significa dunque ricostruire un pezzo della loro storia. L'iniziatore di questo atteggiamento è Giovanbattista Vico (1668-1744), al quale appartiene l'affermazione secondo la quale "verum ipsum factum", cioè la verità di qualcosa è identica al modo in cui è stata fatta: la conseguenza è che possiamo davvero conoscere solo le cose che dipendono da un processo nel quale siamo implicati in quanto esseri umani. Ogni cosa che è possibile conoscere rimanda così al suo processo di formazione, a differenza delle scienze che non si basano su concetti di questo tipo, e non hanno bisogno della storia per essere comprese.
Filosofia della Storia La storia non è un succedersi di eventi slegati gli uni dagli altri, ma deve avere in sé un ordine fondamentale e delle leggi che la governano. La storia si muove nel tempo, ma sul fondamento di un ordine universale ed eterno, trascendente rispetto alla storia particolare delle singole nazioni. Tale "storia ideale eterna" costituisce la norma verso cui la storia concreta deve elevarsi. Essa è tripartita: a un'età degli dei, caratterizzata dai "bestioni" o uomini primitivi (privi di capacità riflessiva, ma dotati di forti sensi), seguono un'età degli eroi (caratterizzata dal predominio della fantasia sulla riflessione razionale) e un'età degli uomini, o della ragione dispiegata. La scansione di queste tre età rappresenta il ciclo dell'incivilimento dell'uomo.
Ciclicità storica L'incivilimento è l'esito di una eterogenesi dei fini, cioè della collaborazione di due menti, l'umana e la divina (sotto forma di Provvidenza), i cui fini diversi conducono al medesimo risultato. La ragione dispiegata, che è propria della terza età storica, è in grado di chiudersi e ribellarsi alla Provvidenza, ma in tal modo provoca l'arresto dell'incivilimento e la caduta nella barbarie della ragione. Il processo di incivilimento può assumere così un carattere ciclico, perché, quando una civiltà riprecipita nella barbarie, le forme mentali delle tre età storiche si ripresentano secondo la loro scansione. Questa dottrina dei ricorsi storici ci mostra come la civiltà raggiunta non debba mai essere considerata come una conquista definitiva.
Riferimenti bibliografici De antiquissima Italorum sapientia ex linguae latinae originibus eruenda (1710) De uno universi iuris principio et fine uno (1720), I Principi di scienza nuova intorno alla comune natura delle nazioni (editi in tre edizioni, nel 1725, nel 1730 e nel 1740).