LE FONTI DEL DIRITTO DEL LAVORO
LA COSTITUZIONE IL DIRITTO DEL LAVORO INTERNAZIONALE ED EUROPEO LA LEGGE STATALE LA LEGGE REGIONALE REGOLAMENTI LE AUTORITA’ INDIPENDENTI ILCONTRATTO COLLETTIVO
IL FONDAMENTO COSTITUZIONALE DEL DIRITTO DEL LAVORO La Costituzione repubblicana entra in vigore il 1° gennaio 1948, conferendo definitiva legittimità al diritto del lavoro nell’ambito dell’ordinamento giuridico: la legislazione del lavoro quale “diritto di attuazione costituzionale”; Nella Costituzione si rinvengo i riferimenti di valore sui quali si impernia il modello dell’economia sociale di mercato, in seno al quale devono convivere ed armonizzarsi i valori dell’efficienza e della coesione sociale: riconoscimento, pertanto, in aggiunta ai diritti civili (liberali) e politici (democratici), dei diritti “sociali”, aventi ad oggetto “la protezione o liberazione da una condizione materiale di dipendenza e/o di bisogno”; Tali diritti sociali, comprendono, in linea generale: diritti aventi ad oggetto la pretesa a prestazioni pubbliche erogate dallo Stato o da altri enti pubblici (es. istruzione, assistenza sanitaria, avviamento lavorativo in caso di disabilità, pensione; diritti a rilievo “orizzontale”, ossia afferenti ai “rapporti interprivati”, quale il rapporto di lavoro subordinato. Vi rientra, ad esempio, il diritto ad una retribuzione “sufficiente” garantito dall’art. 36, c.1, Cost., ai sensi del quale “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
L’articolo 1, comma 1, Cost.: “Fondata sul lavoro” Ai sensi dell’art. 1, comma 1, “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sula lavoro”: il principio laburista dello Stato viene accostato, persino, al principio democratico. L’articolo in commento sancisce più del mero “dovere di lavorare”, ossia del dovere di ciascun cittadino di contribuire al progresso materiale e spirituale della società, previsto dal successivo art. 4, comma 2, secondo cui “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. L’art. 1, comma 1, sancisce un quid pluris: il lavoro quale caposaldo fondamentale dello del modello statale delineato dalla Costituzione. Non la terra (aristocrazia), non il capitale (borghesia), bensì il lavoro, inteso quale apporto di energia che è nella potenzialità di ciascuna cellula dell’organismo sociale (popolo). Da qui l’innestarsi alla perfezione di tale principio con quello democratico, nella misura in cui il popolo, detentore, ai sensi dello stesso comma 2, della “sovranità” è anche il detentore della ricchezza/risorsa lavoro. Se la Repubblica è fondata sul lavoro, tutela primaria spetta ai principali agenti del progresso sociale, vale a dire i lavoratori. L’art. 1, comma 1, sancisce, pertanto, altresì, il principio dell’impegno sociale dello Stato costituzionale.
L’art. 2, Cost. ed i “diritti inviolabili” Ai sensi dell’articolo in commento “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo , sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si volge la sua personalità (…); viene sancita la garanzia dei diritti dell’uomo-lavoratore, in quanto una delle formazioni sociali più diffuse ed importanti è, certamente, l’impresa, ivi compreso lo Stato amministrazione: l’uomo soggetto di diritti non tanto nella sua asettica individualità di cittadino, bensì come soggetto qualificato dalla condizione sociale; (…) e richiede l’adempimento di doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. È la logica sociale che pervade la Carta: si pensi al dovere dell’imprenditore di occuparsi, a vari livelli, della condizione dei propri dipendenti, nonché quello di finanziare, attraverso il pagamento dei contributi obbligatori, i trattamenti previdenziali destinati ai lavoratori.
L’art. 3, comma 1, Cost. : “L’eguaglianza formale” Il principio di eguaglianza formale è sancito dall’art. 3, c. 1, della Costituzione, secondo il quale “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali dinanzi alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Il principio della pari dignità sociale implica, in particolare, che l’eguaglianza dinanzi alla legge deve prescindere dalle diverse condizioni sociali: non possono darsi, in altre parole, condizioni sociali privilegiate o viceversa di minorità da cui possano discendere differenze di trattamento. L’applicazione alla lettera di tale principio comporterebbe l’impossibilità di prevedere differenziazioni di trattamento, ossia una sorta di egualitarismo assoluto suscettivo di impedire qualsiasi differenziazione di trattamento: ogni differenza di trattamento costituirebbe una discriminazione giuridicamente illegittima. Ciò comporterebbe, tuttavia, l’impossibilità di tener conto delle diversità di fatto come base delle giustificazione di trattamenti diversificati: il legislatore sarebbe vincolato ad una cieca ed irrazionale eguaglianza dei trattamenti. La Corte Costituzionale, sul punto, ha, pertanto, da tempo adottato una lettura ponderata del principio de quo, c.d. concezione “valutativa” dell’eguaglianza, secondo la quale “a situazioni eguali debbono corrispondere trattamenti eguali ma a situazioni diverse trattamenti diversi”: è necessaria una corretta valutazione delle diversità in gioco, in guisa tale che la differenziazione di trattamento sia ragionevole. Alla luce di tali considerazioni, non si pongo in contrasto con il principio di eguaglianza formale leggi tese a favorire, ad esempio, meccanismi di assunzione obbligatoria, come l’avviamento al lavoro dei disabili, o il regime di lavoro delle lavoratrici madri.
L’articolo 3, comma 2, Cost.: “eguaglianza sostanziale” “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che limitando di fato la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”; Ci si spinge oltre l’eguaglianza formale: viene sancito il dovere dello Stato di intervenire attivamente al fine di promuovere una maggiore equità e di favorire l’inclusione sociale, in estrema sintesi, di promuovere un’eguaglianza sostanziale. Locuzione “di fatto”: è riferita a quella vasta gamma di situazioni economico sociali che impediscono il raggiungimento di un’eguaglianza reale, che renda possibile il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione dei lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese. Due possibili letture: un’eguaglianza redistributiva (il diritto del lavoro, quale strumento redistributivo della ricchezza, attraverso le leggi protettive, la contrattazione collettiva e la normativa previdenziale); un’eguaglianza delle opportunità (compito dello Stato deve essere in primis quello di portare tutti i cittadini, ed in particolari i lavoratori, al di sopra di una data soglia di soddisfacimento dei beni sociali essenziali, garantendo, pertanto, le condizioni per un’equa competizione degli individui).
“Il diritto al lavoro”: l’art. 4, comma 1, Cost. Si tratta di una norma programmatica e non precettiva, che vincola, cioè, lo Stato a perseguire una politica tendente alla piena occupazione: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto”. La suddetta norma è stata utilizzata per sostenere la non conformità alla Costituzione di una normativa lavoristica troppo rigida e protettiva, idonea a tutelare i già occupati (insider), ma tale da scoraggiare o persino impedire l’accesso la mercato del lavoro di nuovi occupati (outsider). È implicita, altresì, nella garanzia dell’art. in commento la libertà di scelta del lavoro; viene messa in discussione la legittimità di norme che frappongono barriere troppo rigide e corporative all’accesso a determinate professioni. Il comma 2, sancisce, invece, “il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Il progresso spirituale include, pertanto, anche il lavoro dell’intellettuale, compatibile con il principio costituzionale.
La tutela del lavoro L’articolo 35, comma1, della Costituzione, richiamando i principi di cui agli articoli 1 e 4, recita che “la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni”. La Costituzione fa riferimento alla tutela del lavoro nella sua più ampia accezione e dunque non solo alla tutela del (solo) lavoro subordinato, ma abbraccia il lavoro senza aggettivi, ivi compreso il lavoro autonomo.
La libertà di iniziativa economica e i suoi limiti L’art. 41, comma 1, della Costituzione, recita che l’iniziativa economica privata è libera, sancendo, pertanto, il carattere di mercato del sistema economico italiano, nonostante il principio lavoristico sia nettamente preponderante sulla libertà economica, attestato dallo scivolamento dell’art. 41, c. 1, nella parte dedicata ai rapporti economico-sociali. Una lettura attualizzata, tuttavia, della Carta Costituzionale – alla luce di un ordinamento europeo compiuto – non può non riconoscere alle libertà economiche un ruolo fondamentale. I limiti all’esercizio della libertà di iniziativa economica sono posti dal comma 2 dell’articolo in commento, ai sensi del quale essa “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana”: si rende necessaria, pertanto, una regolazione sociale dell’economia di mercato, in un contemperamento incessante tra la liberta di iniziativa economica e l’utilità sociale. Norma a carattere programmatico: il diritto del lavoro, pertanto, come attuazione, oltre che dei principi di tutela del lavoro e di eguaglianza sostanziale, anche della libertà di iniziativa economica. La Costituzione sancisce, altresì, ai sensi dell’art. 46, comma 1, come “ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione”, i lavoratori fossero chiamati a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende:
Il principio di buona amministrazione ex art. 97 Costituzione “I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizione di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione”. La riflessione su questa norma è tornata attuale da quando il legislatore ha ritenuto, col processo di privatizzazione della disciplina del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, che la finalizzazione pubblica dell’azione amministrativa potesse essere meglio realizzata sottoponendo i rapporti di lavoro pubblici alla logica, tipicamente privatistica, della contrattualità, soprattutto collettiva. L’art. 1, comma 1, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, ha ufficialmente dichiarato che gli obiettivi della riforma della privatizzazione (accrescere l’efficienza delle amministrazioni, razionalizzare il costo del lavoro pubblico) costituiscono una modalità di attuazione dell’art. 97 Cost.