Dai problemi di vita alla ricerca di una unità interiore

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Transcript della presentazione:

Dai problemi di vita alla ricerca di una unità interiore

L’annuncio del Vangelo è un compito troppo arduo e pesante. Sono molte le situazioni di cui si avverte sempre più il peso: Assunzione di maggiori responsabilità Durata eccessiva dell’orario di lavoro Isolamento Mancanza di autonomia

- Disconoscimento del valore del lavoro - Carattere urgente delle attività da svolgere - Risorse insufficienti - Mancanza di criteri per misurare l’efficacia dell’intervento - Richiesta eccessiva di produttività da parte dell’istituzione ecclesiale

I volontari rispondono alle diverse richieste dalla gente, vivendo appieno il loro rapporto di amore e di dedizione verso le persone che sono affidate alla loro cura pastorale. Se le attività si trasformano in vuoto attivismo, si corre il rischio di una sorta di “nevrosi pastorale” che brucia le energie e provoca danni per il singolo, per la gente, per l’associazione ecclesiale.

Disorientati dalle tante emergenze di una pastorale che li vuole sempre al meglio, i volontari avvertono spesso la fatica di non poter rispondere a tutto e a tutti, soprattutto quando non riescono a porre dei limiti nella loro dedizione a caro prezzo!

La stanchezza che ne deriva non è soltanto fisica, né solamente relazionale, ma è di tipo esistenziale, ed emerge con sempre più forza man mano che si atrofizza la chiarezza profetica della propria vocazione di volontariato.

Il volontario investe tante energie per un ideale dedicazionale, che però smarrisce quando si accorge che la realtà è diversa da come pensava, si trova ad affrontare una realtà frustrante e soprattutto non riesce a soddisfare le tante richieste che gli arrivano.

Da una forte carica iniziale, fatta di ideali umani e religiosi, il soggetto passa a una fase di stagnazione. Successivamente può passare a una fase di frustrazione. A questo punto può subentrare l’apatia con il ritiro emozionale dalla situazione e dal contatto affettivo con le persone. Come conseguenza di tutto questo il soggetto inizia a vivere le attività con uno stile ripetitivo, stereotipato e monotono.

Se perde di vista il motivo principale di tali fatiche pastorali e si rifugia in false aspettative, il volontario lascia aperta la porta alla delusione e al fallimento.

L’istituzione ecclesiale può avere delle aspettative per il lavoro da svolgere, che spingono il volontario a fare di più senza tener conto delle sue competenze, oppure a ottimizzare i mezzi che ha a disposizione, benché siano inadeguati.

Il rischio cresce quando lo squilibrio tra risorse e richieste istituzionali è accentuato: o ci sono troppe domande, a fronte delle quali le risorse sono insufficienti; o ci sono troppe risorse rispetto a ciò che chiede la gente.

Se si trova a gestire tutto con risorse insufficienti o inadeguate, il volontario tenderà a limitare il suo servizio non solo a livello quantitativo, ma anche a livello qualitativo. Ciò inaridisce l’entusiasmo e riduce il coinvolgimento creativo, fino a trasformare lo stile pastorale in uno sterile e noioso attivismo, privato della sua anima spirituale.

Quando questo senso di mediocrità diventa «normale» il volontario si rinchiude in se stesso, operando solo in una prospettiva autoreferenziale. A questo punto il suo affannarsi è particolarmente «stressante», poiché perde di vista il motivo principale per cui si dedica agli altri.

Anche le relazioni interpersonali possono essere fonte di stress, soprattutto quando si vengono a generare forti pressioni di gruppo, competitività, oppure quando i canali di comunicazione interna sono carenti. A questo contribuisce pure il rapporto con la leadership che c’è nel gruppo lavorativo o nell’istituzione ecclesiale.

Se l’istituzione ecclesiale non facilita la creazione di un clima di gruppo positivo, se non offre stimoli adeguati per alimentare questo metodo di lavoro, oppure se svaluta l’importanza del supporto reciproco, può aumentare il rischio di stress, per le tensioni che si creano dentro l’équipe di lavoro.

La “fraternità del volontariato” non si riferisce solo a una collaborazione funzionale che serve a rendere il lavoro più efficiente, ma riguarda un rapporto di comunione che caratterizza la motivazione stessa del servizio pastorale.

Scrive San Bernardo: «Il demonio teme poco coloro che digiunano, coloro che pregano anche di notte, coloro che sono casti, perché sa bene quanti di questi ne ha trascinati all’inferno. Il demonio teme coloro che sono concordi e che vivono nella casa di Dio con un cuore solo, uniti a Dio e fra di loro nell’amore: questi producono al demonio dolore, timore e rabbia. Questa unità della comunità non solo tormenta il nemico, ma ottiene la benevolenza di Dio»

«Prima di programmare iniziative concrete occorre promuovere una spiritualità della comunione, facendola emergere come principio educativo in tutti i luoghi dove si plasma l’uomo e il cristiano, dove si educano i ministri dell’altare, i consacrati, gli operatori pastorali, dove si costruiscono le famiglie e le comunità» (Novo Millennio Ineunte, n. 43).

Quando viene a mancare il senso relazionale che accomuna le persone attorno allo stesso ideale, il rischio della solitudine e dell’abbandono si riflette nello stato d’animo di tanti operatori pastorali, compresi i volontari, e ciò rafforza i loro comportamenti disfunzionali.

Se non vengono integrati i fattori che fondano lo spirito dell’impegno pastorale (la comunione in Cristo, la visione unitaria del carisma vocazionale…) con i fattori socio-affettivi che alimentano e sostengono la rete intersoggettiva dei valori comuni, il rischio è che emergano delle difficoltà psichiche che indeboliscono lo spirito autentico della carità pastorale, riducendo il lavoro a uno stile di vita ambiguo e poco evangelico.

La condizione di stanchezza pastorale si insidia quando l’attività di dedizione è svuotata della sua essenza spirituale, del suo carattere carismatico. Quando il volontario perde di vista il motivo della sua dedizione, quando sente la sua fede inaridirsi, quando avverte che gli ideali della sua vocazione sono frustrati, la sua diventa una crisi di senso.

Se ha una storia psichica di vulnerabilità e di disagio, attiverà dei meccanismi nevrotici particolarmente negativi, che interferiscono con il normale funzionamento nella vita relazionale quotidiana, creando problemi a sé e agli altri: aggressività, facile irritabilità, senso di negativismo cronico, forme più gravi di affettività immatura e deviante.

A volte si tratta di situazioni relazionali apparentemente innocue, incomprensioni, gelosie, antipatie, senso di competizione, che però confermano alcune rigide convinzioni o pregiudizi che il soggetto ha interiorizzato, su di sé, sugli altri e sul mondo, e ne influenzano fortemente i comportamenti.

senso di persecuzione (“ce l’hanno tutti con me”), Alcune delle convinzioni più preoccupanti sono: senso di persecuzione (“ce l’hanno tutti con me”), senso di colpa diffuso (“io sono la causa di tutto”), ripiegamento e ritiro su se stessi (“è meglio non parlare con nessuno per evitare problemi”), catastrofismo (“in questa parrocchia non c’è nulla che funzioni”).

Quando i comportamenti altruistici sono associati a dei benefici e a degli interessi personalistici, il soggetto rischia di correre invano fino a svuotarsi emozionalmente e a disaffezionarsi dalle persone, riducendo il suo zelo a uno stile di vita e a un lavoro pastorale mediocre e superficiale.

Vigilare sulla propria storia vuol dire custodire l’atteggiamento di gratitudine verso Colui che chiama al servizio dell’amore pastorale, cogliendo le tante opportunità di crescita umana e spirituale. Vuol dire anche saper guardare alle proprie difficoltà pastorali con un’ottica di crescita e di maturazione, prendendo sul serio la propria storia vocazionale, per assumersi la responsabilità delle proprie scelte di vita, liberi da false illusioni e coerenti con il progetto vocazionale.

Il primo livello di prevenzione è quello individuale, dove la persona impara a prendersi cura di sé oltre che degli altri, riscoprendo nel proprio cammino di fede non solo l’entusiasmo della sua chiamata vocazionale ma anche e soprattutto la centralità di una dimensione spirituale che sia coerente con il proprio stile di vita.

È importante che il volontario sappia riconoscere i propri limiti e accettare che non può essere il salvatore di tutti, adattandosi a distribuire le proprie energie nelle cose da fare con un atteggiamento più equilibrato e collaborativo.

Occorre anche prestare attenzione allo stile di vita concreto nella propria abitazione, intesa come luogo dove ritrovare se stessi e dove ritornare volentieri. Se la propria dimora è sporca, disordinata o malcurata, sarà difficile sentirsi a casa propria.

È importante il modo di curare la propria alimentazione: se il volontario ha l’abitudine di mangiare da solo, in modo frugale, di fretta e male, difficilmente avrà tempo per prendersene cura. Non meno importante è il modo di vestire, inteso non solo come bisogno esteriore di coprirsi, ma come attenzione a come ci si presenta, rifuggendo l’eleganza e la ricercatezza, ma anche la sciatteria e la negligenza.

Il secondo livello della prevenzione è relativo all’ambiente socio-affettivo, nel quale si inserisce il supporto della comunità, sia dei singoli volontari che del contesto associativo, poiché è con gli altri che il volontario può regolare il suo coinvolgimento, senza lasciarsi completamente assorbire.

Il terzo livello è quello somatico, e fa riferimento a quando l’organismo reagisce alle condizioni di stress con comportamenti decisamente disadattivi, con sintomi psico-somatici, difficili da curare proprio perché non sempre si trova una medicina adeguata. Anche in questo caso è importante che il volontario sia consapevole del malessere fisico, e si prenda la responsabilità di reagire ad esso cercando di curarsi o di farsi aiutare in maniera appropriata.

In ognuno di questi livelli, l’accento non è posto su una “guarigione” da ottenere, ma su un atteggiamento di vigilanza e di consapevolezza costante, che serve a risvegliare dentro di sé il bisogno di attingere al mistero di Cristo, «sorgente di santità e appello alla santificazione» (Pastores dabo vobis, n. 24).

Solo così il volontario potrà essere fedele alla propria chiamata e rimettere in moto tutte quelle risorse individuali e interpersonali che lo aiutano a vivere il proprio servizio come una risposta di amore da condividere con le persone che sono affidate alla sua cura pastorale.