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La mafia: un fenomeno complesso tra continuità e trasformazione
La mafia è fatta di storie di sofferenza raccontate con il conforto di una frase, quella sussurrata da Paolo Borsellino alla vedova Schifani appena colpita dal lutto del marito:”Questa terra diventerà bellissima”. Morti, lacrime, timori, ma anche tanto coraggio e speranza per una terra, che un giorno, guardando al passato, ricorderà, imparerà, “diventerà bellissima”. Paolo Borsellino
La mafia è un’istituzione fortemente gerarchizzante e chi entra a far parte di questo cupo mondo perde irrimediabilmente la propria individualità per acquistare come contrappeso quella di gran lunga più forte in cui si inserisce. Le origini della mafia sono sconosciute. Ma si sono individuate quattro fasi importanti dello sviluppo mafioso: una lunga fase di incubazione, dal XVI secolo ai primi decenni del XIX secolo, in cui si parla di "fenomeni premafiosi" (attività delittuose regolarmente impunite di gruppi armati al servizio dei baroni; finalità accumulative di alcune forme delittuose, come i sequestri di persona, gli abigeati, le estorsioni); una fase agraria, dalla formazione dello Stato unitario agli anni '50 del XX secolo, con delle subfasi al suo interno; una fase urbano-imprenditoriale, negli anni '60; una fase finanziaria, dagli anni '70 a oggi. L’associazione mafiosa sorta in un orizzonte abbastanza limitato - le quattro province della Sicilia occidentale – si è esteso territorialmente e ha assunto la rilevanza attuale. Lo sviluppo del fenomeno mafioso si svolge durante i cambi sociali del feudalismo siciliano nel Risorgimento. I territori dei contadini che non erano più in possesso dei latifondisti, venivano affittati da questi per essere lavorati. Gli amministratori che affittavano i campi si chiamavano gabellutti.
Uccisione di Paolo Borsellino, Questi diventavano sempre più forti e alla fine hanno destituito i latifondisti, mentre i contadini sono rimasti poverissimi (perchè dovevano pagare affitti molto cari). Si è sviluppata fin d’allora una sub-cultura criminale – è nata la mafia! Voleva essere d’impedimento allo stato italiano nell’ottenere influenza nel sud, affinché la mafia potesse assicurare tutto il potere a sé. Infatti era l’unica autorità vera in molte parti di Sicilia, perchè soltanto la mafia poteva proteggere la gente bene. Ma questa protezione non era gratis, tanto la mobilità quanto i contadini dovevano pagare il cosiddetto pizzu. Durante la prima guerra mondiale gli uomini d’onore rafforzano il loro potere. Organizzarono il rifornimento dell’esercito italiano. Così diventavano anche molto ricchi e all’improvviso erano la nuova nobiltà e stimati da tante persone. Quando i fascisti hanno preso il potere nello stato, la mafia ha fatto un voltafaccia. Ha finanziato il partito fascista ed ha influenzato i deputati affinché votassero per Benito Mussolini. Uccisione di Paolo Borsellino, in via D’Amelio
Dopo la seconda guerra mondiale la mafia ha influenzato lo stato, la politica, l’economia e la cultura, costruendo contatti molto attillati con alcuni partiti politici e con rappresentanti di questi. La magistratura ha avviato molti processi che hanno svelato fino ad un certo punto il legami tra mafia e politica. Inoltre tali procedimenti legali hanno mostrato che la mafia pur essendo indipendente finanziariamente continua a rivolgersi ed influenzare la politica per svolgere i propri affari. Fino agli anni settanta poco si sapeva delle strutture interne della mafia, dei complicati rapporti sociali e del clima psicologico nei clan mafiosi. La legge anti-mafia e poi la sua applicazione conseguente, la regolazione dei testi principali nei processi anti-mafia e il lavoro delle iniziative civiche hanno approfondito le nostre conoscenze della mafia. La mafia oggi è diffusa in tutto il territorio italiano, con un'organizzazione operativa e finanziaria a livello internazionale, che ha quindi dimostrato una grande flessibilità e capacità di adattamento a nuove situazioni e ambienti, sviluppando anche nuove forme di crimine. Per fronteggiare la situazione numerose sono state le iniziative statali sia legislative sia esecutive. Strage di Capaci sull’autostrada Palermo-Trapani, dove perse la vita Giovanni Falcone e la sua scorta
Aforismi di Giovanni Falcone I giudici anti-mafia Giovanni Falcone e Paolo Borsellino che hanno combattuto per debellare questa piaga sociale dalla regione Sicilia, sono state le vittime più famose negli ultimi tempi. La consueta questione del rapporto causale sottosviluppo-mafia appare superata nelle indicazioni dei testimoni privilegiati, che delineano un modello di circolo vizioso che porta nel complesso ad un rafforzamento reciproco tra i due fenomeni. Viene ribadito con forza che la mafia non è necessariamente figlia del sottosviluppo, ma ne è comunque fattore di forte e strumentale mantenimento. E una simile dinamica di interdipendenza marca anche i rapporti mafia-politica da un lato, e mafia-società civile dall'altro. Nel 1995 in Sicilia sono state denunciate 538 estorsioni, per una media di 97,4 ogni milione di abitanti a fronte di una media nazionale di 57,6. Giovanni Falcone Aforismi di Giovanni Falcone «Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini.» «In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere.»
DONNE COLPITE DALLA MAFIA SAVERIA ANTIOCHIA Saveria Antiochia è la madre di Roberto Atiochia, l’agente di pubblica sicurezza, assassinato a Palermo dalla mafia. <Sapesse quante volte ho pensato a Roberto che era là che moriva da solo… Le donne a volte piangono e gridano. E’ una questione di carattere. Ma so che chi non piange e non grida muore dentro di dolore. Quando ti uccidono un figlio sparano anche su di te. Quando ti muore un figlio è una parte di te, ha le radici dentro di te, un figlio… Mi hanno tolto una cosa importante, perché il figlio me l’ero fatto io e lo volevo comporre io > RITA BORSELLINO Rita Borsellino è la sorella del giudice Paolo Borsellino, ucciso a Palermo dalla mafia. <In questi anni credo di aver capito che, attorno a ciascuno di noi, esistono almeno due Italie: quella che si è schierata e soffre e si batte per la legalità e l’altra che è prosperata e vive e si nutre di illegalità. Nel mezzo c’è una terza Italia quella degli indifferenti, dei neutrali, dei disinformati. E’ l’Italia decisiva che a volte lascia sola l’Italia che chiede giustizia.> MARIA CONSUELO SUAREZ ABRIEGO Maria Consuelo Suarez Abriego era un giudice di pace e di diritto in Colombia ed è stata assassinata dai mafiosi di Medellin. Claudio Fava ha fatto una ricostruzione della vicenda di questo giudice per un omaggio alle donne che, in tutto il mondo, si battono per la legalità e la democrazia.
Storie di donne “con” la mafia
Alcune ipotesi interpretative Renate Siebert vive da moltissimi anni in Calabria, dove ha insegnato da più di 20 al Dipartimento di Sociologia dell’Università. La sua ricerca si basa su un’indagine molto accurata del fenomeno mafioso dal punto di vista femminile, di quelle donne che sono nate e cresciute in ambienti mafiosi, sia di quelle estranee e che, loro malgrado, sono entrate in relazione con questa questione. Partendo dal presupposto che la mafia è un fenomeno prettamente maschile (anche la letteratura della mafia è stata prodotta prevalentemente da uomini) ,ciò ha ristretto la visuale di tale fenomeno agli aspetti economici, politici, storici, trascurando l’analisi dei sentimenti, degli affetti e dei ruoli sessuali. La mafia uccide “dentro” prima che “fuori”; uccide nei sentimenti, nella psiche, negli affetti, manipolando cinicamente il rapporto personale. (Joe Bonanno, boss italo - americano, usa la parola Famiglia con la F maiuscola quando si riferisce all’organizzazione di Cosa Nostra, ma quando parla della sua famiglia usa la f minuscola). Pertanto in tale contesto la donna è guardata con diffidenza dal mafioso, ma nello stesso tempo è considerata sua proprietà. L’uomo mafioso non può divorziare, ma può avere molte amanti; non può toccare la donna di un altro uomo mafioso, perchè minerebbe la compattezza dell’organizzazione; la donna tradita potrebbe parlare. L’uomo che esercita il comando, il potere deve autocontrollarsi, deve essere freddo, sempre presente a se stesso, senza essere dominato dal patos o dall’eros. Ecco perché l’uomo mafioso non sa, anzi non deve amare, perché ciò indebolirebbe la sua sfera intellettiva e dunque non sarebbe piu affidabile e diventerebbe pericoloso per l’organizzazione.
Pertanto il corpo femminile rappresenta una minaccia all’affidabilità dell’uomo mafioso. La diffidenza nei confronti delle donne nasce anche dalla loro poca affidabilità nel mestiere di uccidere. Meno sanno meglio è. Quando una donna viene colpita negli affetti più cari non ragiona più. Molti delitti d’onore sono stati provocati istigati o incoraggiati da donne. L’uomo mafioso deve tenerla all’oscuro per proteggerla, per salvarla, perché, se dovesse costituire un pericolo per l’organizzazione, dovrebbe essere eliminata. Da ciò nasce l’omofobia per tutto ciò che è femminile, ma soprattutto per quella parte femminile della psiche maschile. La scissione tra madri e donne, tra buone e cattive, tra madri-madonne-sante e donne– puttane, che è propria della nostra cultura occidentale, nella mentalità mafiosa è presente in modo manifesto. Per l’uomo mafioso l’unica donna veramente importante è la madre dei suoi figli. Tale importanza aumenta con la nascita del figlio maschio che concede alla donna, anche illusoriamente di conquistare una parte di superiorità all’interno dell’organizzazione.
Altra riflessione è l’alto valore simbolico che la mafia conferisce alla madre in termini di identità collettiva. Infatti, la mafia viene chiamata “mammasantissima”. Il trasferimento della funzione materna dalla madre reale al clan o alla Famiglia riveste un carattere difensivo. Identificare la mafia con la madre significa voler trovare in essa protezione, aiuto. Le donne,che vivono con questi uomini, oscillano tra estraneità e complicità. L’estraneità è propria dell’organizzazione tipicamente maschile, la complicità comporta un guadagno di status all’interno della comunità, ma sempre con caratteristiche subalterne e mai come individui-donne. Chi sceglie di vivere come individuo lo fa a rischio della propria vita: o viene ucciso o si uccide. Le donne, che entrano per scelta in questo ambiente, lo fanno credendo di realizzare il loro sogno d’amore, cercando fino in fondo di coniugare tale sogno con la propria coscienza. In questo ultimo periodo si è registrata una maggiore presenza femminile delinquenziale, soprattutto in relazione al traffico della droga. Tale presenza, sia a livello alto che basso, non riconosce alla donna un ruolo di effettivo potere che le permetta di svincolarsi dal suo ruolo passivo e subalterno. Ruolo che viene riconosciuto anche nei tribunali dove le donne non vengono perseguite perché non complici. Ma tali donne sanno , o perché origliano dietro la porta , o perché vengono edotte dai loro mariti.
Le donne della mafia Le donne della mafia sono le madri, le mogli, le sorelle, le figlie, persone che sono entrate nel circuito mafioso non per volontà individuale. La mafia ha aggravato la condizione di inferiorità in cui le donne meridionali già si trovavano a vivere. Ancora oggi la donna viene esclusa dall’organigramma della mafia. La mafia è una istituzione maschile e maschilista che impedisce alle donne di farvi parte, con la perdita della propria individualità. Il concetto di forza, di potenza, silenzio, violenza, morte poco si adatta alla psiche femminile, che è attratta e affascinata da questo mondo. Però, ad alcune donne vengono riconosciute particolari capacità intellettive che permettono loro di guadagnare una forma di collaborazione all’interno del clan, ma sempre rimanendo estranee all’organizzazione e alle decisioni della stessa. Nel 1983 i Giudici Palermitani assolsero due donne perché avevano agito in sudditanza. Oggi le cose sono cambiate e anche le donne vengono processate e condannate per favoreggiamento. Le donne della mafia sono donne provate che fanno la spola tra carceri, avvocati e tribunali. La sofferenze le rafforza , ma spesso le inaridisce fino al punto da considerare la logica mafiosa come unica logica che conoscono. Forse un metodo per combattere la mafia sarebbe quello di lavorare sulle donne agendo sulla loro mentalità, sul loro modo di educare i figli. In effetti, esiste una tacita complicità in queste donne che si trasforma in consapevolezza, che è il desiderio di riscatto da una condizione di subordinazione e schiavitù. Esistono varie tipologie di donne con la mafia. Donne completamente ignare dell’attività dei familiari, che non riescono a destreggiarsi all’interno dell’ambiente mafioso. Donne che hanno alle spalle una tradizione familiare di criminalità, che sono più consapevoli, pronte e capaci e lottano con ogni mezzo per aiutare i loro cari. Altre donne, non conoscendo altri valori che quelli mafiosi, non sono disposte a rinunciare ai vantaggi che il loro status comporta e spesso si dissociano dalle decisioni dei loro parenti, divenuti collaboratori di giustizia.
Ruoli e funzioni delle donne nel sistema mafioso: aspetti psicosociali Credo sia molto utile focalizzare un dato di indiscussa evidenza: le donne della mafia non sono mai donne entrate nel circuito mafioso per volontà individuale. Quando si parla di donne in questo contesto si fa ovviamente riferimento alle madri, alle mogli, alle sorelle o alle figlie dei mafiosi. Non esistono altre donne in questa cornice, infatti, è il legame parentale che attrae a sè le donne. L’affiliato, con il suo ingresso presta un giuramento (non importa se formalizzato oppure no) che coinvolge se stesso ma anche i propri cari e soprattutto la sua donna la quale, per forza di cose, non può restare avulsa dalla società nella quale l’uomo si è inserito (dovrà dunque intrattenere buoni rapporti con le mogli di altri associanti, andare ai matrimoni dei mafiosi ecc…) Partendo dal presupposto che lo stereotipo di donne mafiose è caratterizzato da elementi di subalternità ed emarginazione, si vuole procedere a delineare quali siano i ruoli e le funzioni delle donne nel sistema mafioso. Lo studio sarà rivolto alle donne che appartengono a famiglie mafiose o per nascita o per matrimonio. Gli uomini d’onore diffidano delle donne e cercano di tenerle lontano dalle vicende della Famiglia, per proteggerle ma soprattutto per salvaguardare altri uomini d’onore. La donna, anche se ha sempre un ruolo subalterno, gode di rispetto. Rispetto che nasce dal fatto di essere depositaria della rispettabilità e del prestigio dell’uomo. La donna ha condiviso e fatto propri l’onore e la vendetta.
Da questo ruolo di donna di mafia, ella può trarre benefici di ordine materiale (denaro, beni di consumo), sia psicosociale (potere, considerazione, identità sociale) che per una donna siciliana o calabrese è molto importante. Tra le donne di mafia esistono varie tipologie: donne di mafia che sposano uomini mafiosi e donne non di mafia che sposano uomini d’onore; donne che aderiscono alle regole della Famiglia e donne che contribuiscono ad un progressivo allontanamento dal sistema mafioso.
Al primo gruppo appartengono le mogli di Nitto Santapaola e Totò Riina. Carmela Minniti in Santapaola non proveniva da una famiglia mafiosa. Incarna il ruolo di donna del boss: madre esemplare e fedele compagna, ma anche complice nella gestione del potere del marito. Viene uccisa il 1° settembre del 1996. E’ un delitto di mafia, pertanto le vengono riconosciuti un ruolo e una funzione all’interno del gruppo mafioso. Antonina Cagarella in Riina proviene da una famiglia mafiosa. E’ stata la prima ad essere accusata di essere mafiosa. Al secondo gruppo appartiene la moglie di Antonio Calderone. Margherita Gangemi in Calderone proviene da una famiglia borghese non mafiosa. La regola del silenzio, rispettata per anni, viene rotta quando marito e moglie intuiscono che l’organizzazione li vuole eliminare. Margherita prende in mano la situazione e organizza prima la fuga poi l’incontro con Falcone. Margherita non lascia mai il marito, lo segue nei suoi spostamenti carcerari,sempre confortandolo, incoraggiandolo, rendendolo partecipe della conduzione familiare. Nella logica mafiosa la donna del mafioso deve essere devota, discreta, riservata, custode dell’educazione dei figli, silenziosa. Le donne possono partecipare a titolo personale alle attività economiche e finanziare (spaccio e traffico di droga). Ma anche in questo caso non assumono mai un ruolo di primo piano: sono corriere, spacciatrici, pura manovalanza. Il più delle volte queste donne non sono legate ad uomini d’onore. Diversa è la modalità che coinvolge le donne che a pieno titolo appartengono alla Famiglia (madri, mogli, figlie). Queste sono mediatrici, intestatarie di beni, messaggere tra il carcere e l’esterno. La madre di un figlio maschio acquista più valore all’interno dell’organizzazione sia perchè compensa le inevitabili perdite, ma anche perché è lei che deve educare il figlio secondo le regole e i principi mafiosi. Anche per le figlie femmine vale il principio della buona condotta, che accresce il prestigio del padre. Le figlie sono utili per creare matrimoni che cementano le famiglie e operano nuovi spazi di profitti e di potere.
In conclusione, le donne rappresentano sia un punto di forza (come garanti della cultura mafiosa) sia un punto di crisi ( quando parlano). Tale crisi si evidenzia alla morte di una persona cara. Ecco che entra in gioco la vendetta che può essere o istigazione a fare giustizia o ricorso alla denuncia. Per una donna appartenere ad una famiglia mafiosa, appunto per il ruolo che a lei è istituzionalmente assegnato, riveste un’importanza fondamentale essere madre, a tal punto che è esemplificativo il caso, drammatico di Vicenza Marchese, che si è suicidata perchè non aveva figli. Ella, inoltre rimproverava il marito, il boss Leoluca Bagarella, addossandogli questa colpa come punizione divina per aver ordinato di uccidere il piccolo Di Matteo, figlio del pentito Santo Di Matteo. Secondo la descrizione di T.Buscetta, la moglie del mafioso è lo stampo del marito. Non parla,perché addestrata a tacere e a restare chiusa nel suo mondo; e non si sa fino a che punto è infelice. Le donne sono, però, apparse anche sulla scena pubblica per difendere l’onore dei loro cari. Emblematiche che di questo universo di donne sono le parole espresse dalle mogli di alcuni uomini d’ onore. L’evoluzione della donna nella società moderna, ha notevolmente influito sull’emancipazione della donna nell’organizzazione mafiosa. Infatti in origine, erano le madri, le sorelle, le figlie di una società patriarcale; già nei primi anni del Novecento, assumono una figura diversa; non sono più complici inconsapevoli, ma spesso diventano parte integrante dell’associazione mafiosa. Infatti nei processi alla fine degli anni ‘20, si trovano donne con imputazione come assistenza ai latitanti, riscossione dei pizzi e custodia del denaro. Mariella Teresi, moglie di Bontade, pochi giorni dopo la morte del marito: ”Ha letto cosa hanno scritto sui giornali? Ebbene, io sono orgogliosa di essere stata sposata a un simile grande uomo”.
La compagna del latitante Bernardo Provenzano, Saveria Palazzolo, in stato interessante, chiamata dai carabinieri per sapere dove fosse nascosto il marito rispose:”Ma scusate, i figli si fanno solo con i mariti?” Antonina Brusca, dopo l’arresto dei figli dichiarò ai giornalisti: ”Io i miei figli li ho tirati su bene, con la religione”. Come si può ben vedere da queste storie, nella famiglia mafiosa il senso di appartenenza ad una storia ed il compito di continuare a replicare la stessa trama si declinano secondo modalità fondamentaliste, intendiamo dire che la famiglia perpetua ed eternizza se stessa nella trasmissione di modelli identificatori a “nascenti” predisposti ad accoglierli, attraverso l’utilizzo del potere genitoriale. Una figura di spicco è stata Maria Grazia Genova, detta “Maragè” della provincia di Caltanissetta, morta in miseria, dopo aver collezionato una decina di denunce e ventidue arresti. Era la sorella del boss del paese di origine, Delia; già da ragazza fu arrestata per furto. Implicata nella faida in cui era coinvolta la sua famiglia, arrestata riuscì ad evadere. Si pensa che per aiutare la sua famiglia a pagare gli avvocati, chiedesse “contributi” a professionisti e commercianti del paese. Mandata al confino negli anni ’60; nel ’79, quasi ottantenne, venne nuovamente proposta per il soggiorno obbligatorio. Un’altra figura è Angela Russo, arrestata insieme a figli e nuore, all’età di 74 anni, perché sospettata di essere corriere di droga tra Palermo, Puglia e Nord Italia. Soprannominata “nonna eroina”, in effetti è stata l’organizzatrice del traffico. Infatti non ha riconosciuto il ruolo subalterno che le hanno dato i giudici, nel traffico di droga, lei che ha sempre comandato gli altri. In un’intervista, ha spiegato cosa fosse veramente la mafia ai tempi del padre, quando si trattava di un’organizzazione che non ammazzava nessuno se non era “sicurissima che bisognava farlo, che chi sbagliava doveva pagare, dopo avvertimento”.
Negli ultimi anni, a Calatabiano, in provincia di Catania, Maria Filippa Messina, moglie del boss Cinturino, dopo l’arresto del marito, si è messa alla guida della famiglia per “pulire la città” dalla cosca rivale, per ottenere il controllo del paese. Fu arrestata insieme ad altre persone, fra cui c’erano due donne. Una figura definita “compagna fedele” è Rosaria Castellana, moglie di Michele Greco, il”papa” di Cosa Nostra, mandante della strage Chinnici: la moglie ha sempre parlato del marito, latitante, come persona tranquilla e religiosa. Anche Antonietta Brusca ha dichiarato di avere educato i figli nel “timore di Dio”, di essere solo “casa e chiesa” ,anche se gestiva i conti dei figli dediti al traffico di droga e a traffici illeciti. Questi sono esempi di come le donne siano detentrici della cultura mafiosa presso i loro figli e quando rinnegano figli o mariti “pentiti”, lo fanno per un ruolo codificato. Le donne dei latitanti devono essere rispettate e protette; quelle che non si dissociano pubblicamente dal “pentito”, non meritano rispetto né protezione. Se si vogliono descrivere in sintesi le caratteristiche delle donne che vivono una realtà mafiosa, occorre tracciare almeno tre profili di esse, per la diversità dei loro atteggiamenti. -donna: che assolve il suo ruolo di madre, di moglie, di figlia di sorella; che si inserisce nel contesto mafioso,pur se tenuta in stato di subordinazione; che sa, tace e accetta quel tenore di vita. - donna: perfettamente inserita nel contesto mafioso, di cui conosce la condotta e i segreti; che partecipa attivamente all’attività criminosa, spesso assumendo ruoli importanti in seno al gruppo,facendo valere le proprie azioni di potere. - donna: che viene coinvolta nella rete della mafia, senza esserne cosciente, e rimane a lungo ignara dello stampo mafioso della sua nuova famiglia; all’apparire della nuova realtà o soccombe e segue la scia della devianza, pur soffrendone, o, se si ribella, viene soppressa.
Donne di mafia e pentitismo Una nota a parte merita il rapporto tra donne e pentitismo poiché il comportamento delle donne di fronte ai congiunti pentiti ha dato luogo a letture del ruolo delle donne che in buona parte ricalcano l’immaginario consueto. Molte hanno accettato di condividere la vita blindata dei loro congiunti, diventati collaboratori di giustizia. Ma tante, al contrario hanno preso le distanze anche in modo eclatante, pubblicizzandolo attraverso l’uso dei media. Di fronte ad un tale atteggiamento, molti hanno parlato di paura, di ritorsione, ma soprattutto di donne vittime, incapaci di sottrarsi ad un destino già segnato.
Nella decisione degli uomini di collaborare un ruolo preponderante spetta proprio alle donne. Sono state le donne spesso ad impedire all’ultimo momento la decisione di collaborare, sono state le donne a tacciare di infamia i propri figli o mariti che collaborano con lo stato. Sono state queste donne che di fronte all’infamia hanno optato per la morte. Il principale esempio è: Rosaria Basile, moglie del pentito Scarantino,che, il 2 Novembre 1995 al processo per la strage di via D'Amelio in corso a Caltanissetta, in aula ha ripetuto che le dichiarazioni del marito sono state frutto di pressioni degli inquirenti. Scarantino smentisce decisamente gridandole di essere manovrata dai mafiosi. Successivamente la stessa donna decide di ripudiare pubblicamente il marito rivelandone l’omosessualità.
Altre tipologie di donne simili sono: Rosa Vernengo, moglie di Marino Mannoia, che chiede la separazione dopo il pentimento del marito. Agata Di Filippo, sorella dei pentiti Pasquale ed Emanuele, la quale ha tentato di suicidarsi a causa della perdita dell’onore di donna di Cosa Nostra. Vincenza Marchese, suicidatasi per la vergogna di avere un fratello pentito
Donne e pentitismo Il fenomeno della collaborazione ha implicato anche donne che, essendo i loro uomini abbandonati, “posati” da Cosa Nostra, decidono di affidarsi all’unica istituzione alternativa alla Mafia, in grado di soddisfare il loro desiderio di vendetta: lo Stato. Soltanto alcune di loro si possono però chiamare “pentite” in senso stretto, secondo l’accezione usata per i mafiosi maschi, nel senso che la loro collaborazione riguarda le loro attività illecite. La maggior parte delle donne collaboratrici di giustizia sono vedove, orfane, madri a cui hanno ucciso i figli, che solo dopo un avvenimento traumatico, passano dal lutto privato alla testimonianza pubblica. Ma ce ne sono alcune che hanno trovato il coraggio di rompere con i loro parenti mafiosi non necessariamente in conseguenza di un lutto o di un provvedimento giudiziario. Le donne collaborano con motivazioni diverse che non sempre sono riportabili ad un calcolo opportunistico.
In alcuni casi, sono state le stesse donne ad aiutare uomini come Buscetta, Mannoia, Drago a collaborare con la giustizia.
Uno dei principali esempi di donne collaboratrici di giustizia fu Rita Atria, una ragazza siciliana, di Partanna, che a 17 anni diventò testimone di giustizia, scelta di grande responsabilità e coraggio, decisamente sorprendente per una ragazza così giovane. Quando Rita aveva solo 12 anni, suo padre e suo fratello rimasero uccisi per una guerra di mafia. Così iniziò a collaborare con il giudice Paolo Borsellino, che per lei diventerà un secondo padre. In lui Rita aveva trovato un punto di riferimento fondamentale per la scelta di sfidare la mafia del suo paese. Rita gli parlava spesso della madre che non voleva capire la sua scelta di collaborare con la giustizia.
La morte del giudice Paolo Borsellino, il 19 luglio 1992, nella strage di via D’Amelio, a Palermo, sconvolse la vita di Rita Atria: A una settimana esatta dalla morte di Paolo, il 26 luglio 1992, Rita si lancia nel vuoto dalla casa dove viveva, al settimo piano di viale Amelia 23 a Roma. Rita, pur appartenendo ad una famiglia mafiosa, aveva scelto con fiducia la legalità, affidandosi allo Stato. Una scelta che è suonata, per il contesto in cui Rita è cresciuta, come un affronto imperdonabile. Anche per questa ragione Rita è stata aggredita anche dopo la morte, frantumando la sua lapide ed oltraggiandola anche nel ricordo. Dopo 12 anni, nel piccolo cimitero di Partanna c’è una tomba senza nome, solo un volto incorniciato, il volto di Rita Atria.
Ecco alcune parole che Rita, Rituzza come la chiamava Paolo, scrisse il giorno della morte di Borsellino: “ Ora che è morto Borsellino nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita….. Prima di combattere la mafia devi fare un auto-esame di coscienza e poi, dopo avere sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è in giro. La mafia siamo noi e il nostro modo sbagliato di comportarci. Bisogna rendere coscienti i ragazzi che vivono nella mafia, che al di fuori c’è un altro mondo fatto di cose semplici ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei non perché sei figlio di quella persona o perché hai pagato per un favore. Forse un mondo onesto non ci sarà mai, ma se ognuno di noi prova a cambiare ce la faremo”.
Storia del movimento antimafia al femminile: donne “contro” la mafia si raccontano La componente femminile è presente in questo movimento fin dai primi anni '80, con la nascita dell'Associazione donne siciliane per la lotta contro la mafia, promossa da donne che hanno voluto continuare in modo diverso una militanza iniziata in partiti e movimenti politici e da vedove di magistrati e di altri funzionari dello Stato uccisi dalla mafia: frutto di una presa di coscienza e di una rielaborazione pubblica del lutto che ha come causa scatenante l'escalation della violenza mafiosa che, all'interno di una gara egemonica suscitata dall'incremento esponenziale dell'accumulazione illegale, colpisce esponenti delle istituzioni che si oppongono all'espansione del potere e degli interessi mafiosi.
Religiosissima è Filippa Inzerillo, autrice di un appello rivolto alle donne di mafia pubblicato dal "Giornale di Sicilia" il 2 Novembre del 1996. La Inzerillo è vedova di Salvatore, il capo di una delle più importanti famiglie mafiose, ucciso nel maggio del 1981, due settimane dopo l'omicidio di Stefano Bontate, all'inizio della guerra di mafia che causò centinaia di morti e portò al predominio dei cosiddetti "corleonesi". Della famiglia Inzerillo furono uccisi anche due fratelli di Salvatore, due zii, un cugino e il figlio di sedici anni, Giuseppe, che aveva dichiarato di voler vendicare la morte dei congiunti. La signora Inzerillo, che ora fa parte di un cenacolo di carismatici scrive: "Donne di mafia, ribellatevi. Rompete le catene, tornate alla vita. Sangue chiama sangue, vendetta chiama vendetta. Basta con questa spirale senza fine. Lasciate che Palermo rifiorisca sotto una nuova luce, nel segno dell'amore di Dio. Lasciate che i vostri figli crescano secondo principi sani, capaci di esaltare quanto di bello c'è nel mondo".
Le altre storie di vita sono quelle di Pietra Lo Verso e Michela Buscemi, donne del popolo palermitano costituitesi parti civili in processi di mafia, pubblicate nel volume "Sole contro la mafia" di Giovanna Terranova, vedova del magistrato e presidente dell'Associazione delle donne contro la mafia; di Maria Benigno, una donna anche lei di estrazione popolare, che ha avuto il coraggio di accusare gli assassini del fratello e del marito, i killer della famiglia Marchese, tra cui Leoluca Bagarella. Per tutte, la scelta di costituirsi parti civili è stata causa di isolamento nella famiglia, nella parentela, nel vicinato. Michela Buscemi, Piera Lo Verso, Vita Rugnetta hanno visto scomparire i clienti dai loro esercizi commerciali e sono state costrette a chiuderli andando incontro ad una grave situazione economica. Ma questo tipo di isolamento possiamo dire che fosse nel conto, in una Palermo che mentre diserta la macelleria di Piera Lo Verso, rea di essersi rivolta alla giustizia, ha continuato a servirsi della macelleria di Domenico Ganci, in pieno centro cittadino a due passi dalla casa di Giovanni Falcone, anche dopo il suo arresto e la sua incriminazione per la partecipazione a tanti delitti, tra cui la strage di Capaci.
Ma questo isolamento era prevedibile, quello che non era nel conto era l'isolamento di gran parte del movimento antimafia, derivante in primo luogo dello stereotipo secondo cui la mafia è solo un'associazione criminale contro cui lottano giudici e uomini delle forze dell'ordine etichettati come "servitori dello Stato", una guerra tra guardie e ladri. Ad aiutare queste donne nel momento di maggiore esposizione sono stati soltanto il Centro Impastato e l'Associazione donne contro la mafia e, per quanto riguarda la seconda, con qualche lacerazione al suo interno. Abbiamo aiutato queste donne non solo perchè le abbiamo sentite vicine umanamente ma anche perché abbiamo una concezione diversa della mafia e dell'antimafia.
In memoria di ... .... Peppino Impastato Tutti pensano di cambiare il mondo, nessuno di cambiare se stesso. Peppino Impastato fu la prova che spesse volte ci sono eccezioni alla regola, infatti, quest' uomo rinnegò quella parte della sua famiglia che apparteneva alla mafia,decise di cambiare e non diventare lui stesso un mafioso. Vi si dedicò con tutte le sue forze perché sapeva come sarebbe stata la sua terra natia, la Sicilia,senza quella macchia di terrore che la dominava,sapeva bene che molti come lui ne subivano le conseguenze. Egli,non solo combatté fino all'ultimo per distruggerla,ma rifiutò di combattere anche con le loro stesse armi,quali la forza,la violenza,il ricatto e la vendetta. Per un periodo si credette che egli potesse sollevare la Sicilia da quest'incubo, ma venne ucciso,come una delle tante vittime della mafia,perché creava disturbo,perché in lui molte persone vedevano una via d'uscita e di salvezza,che li avrebbe liberati per sempre dalla mafia. Ancora oggi vivono in noi il suo ricordo, i suoi sacrifici e le sue vittorie, ed è grazie anche a lui che abbiamo oggi la presa di coscienza dei pericoli della mafia e della sua brutalità.
quella della giovinezza nutrita d'allegria di chi amava la vita Era un'anima quella della giovinezza nutrita d'allegria di chi amava la vita e tutto s'illuminava di mondo a questo amore e in quell'lmmensità c'era tutto un Universo come al centro di ogni storia la vita nella sua luce più piena la luce dell'Amore. A lungo uno ci crede finchè c'è dentro uno ci crede uno crede che dopo le amarezze e le vicissitudini la speranza torni a rinascere a sorridere nelle sale di un tempo colme di sogni ma c'è silenzio in un cuore rassegnato di Parole inghiottite mentre si sparge fra la luce filtrante di camere buie il suono di un canto come lo strillo di un bimbo o l'urlo straziante di una madre di tutto cíò che non trascorre mai non accenna a placarsi (Nicola Ronsisvalle)
Felicia Bartolotta Impastato contro la Mafia La morte di Felicia Quando, poco dopo le dieci di una mattinata 9 Dicembre 2004, a Cinisi, la bara ha varcato la soglia della sua casa, ad applaudire per l'ultima volta Felicia Impastato, la mamma di Peppino, e cioè la donna che ha avuto il coraggio di puntare l'indice contro il capo dei capi della mafia, ci sono poco più di 150 persone. La gran parte di loro è venuta da fuori, da Palermo: magistrati, qualche uomo politico, fotografi, giornalisti, cineoperatori, ragazzi e ragazze-scout, giovani comunisti, centri sociali, quelli del forum sociale contro la mafia. E poi naturalmente ci sono i vecchi compagni di Peppino. E la gente di Cinisi? Dov'è la gente di Cinisi? Non c'è. Chiusa in casa con le persiane sprangate.
Sono passati 26 anni da quel Maggio del 1978, quando la mafia del boss Tano Badalamenti uccise Peppino Impastato, facendolo esplodere con la dinamite dopo averlo legato ai binari della linea Palermo-Trapani, da quando ebbe fine l'esistenza di una donna siciliana succube della mentalità mafiosa che l'avrebbe voluta eternamente rassegnata e silenziosa, chiusa in un lutto privato e sterile. Il giorno in cui muore Felicia, l'aria che si respirava a Cinisi sembrava quella di allora, quella che intere generazioni di giovani, hanno imparato a conoscere leggendo i libri e le inchieste pubblicate dal centro di studi e documentazione "Peppino Impastato", o attraverso le immagini belle ed emozionanti del film "I cento passi". Ma quella era la Cinisi reale, un paese dove la mafia è forte, si fa sentire, vedere, respirare, toccare con mano. Qui Cosa Nostra ha sempre comandato e continua a comandare, anche se da qualche anno non ha bisogno di sparare. E stavolta ha dato l'ordine di non andare ai funerali di Felicia. In questa giornata piovosa si è visto allo specchio il significato profondo di tutta la vita di questa donna, il suo essere stata una donna scomoda, una mente libera e viva di questa comunità, diventata via via, in anni di lotte e denunce, un corpo estraneo.
Scena tratta dal film “I 100 passi” Il sindaco aveva indetto un giorno di lutto cittadino e, con un manifesto murale, aveva invitato la cittadinanza a partecipare ai funerali. Invece, bastava attraversare il corso principale per vedere che negozi e bar erano tutti aperti, non abbassavano le saracinesche neanche al passaggio del corteo funebre. Erano serrate invece le imposte di tutte le case, balconi e finestre, dietro alle quali si scorgevano corpi e volti di donne e uomini nascosti, che si ritraevano appena i fotografi alzavano i loro obiettivi, Non era un film della Sicilia degli anni '60, sulla vecchia mafia in coppola e lupara, con le donne avvolte in scialli neri: era Cinisi, una cittadina di oltre 10mila abitanti alle porte di Palermo, giovedì 9 Dicembre del 2004. Certo, la vita di Felicia Impastato è stata una vita scomoda, difficile, ma ricca e carica d'umanità. La racconta nel suo ultimo saluto Umberto Santino l'ispiratore e presidente del centro di documentazione intestato a Peppino: << Tu eri una donna siciliana chiusa nel lutto e nel silenzio. Ma quando, ai funerali di Peppino, hai visto Giovanni che alzava il pugno, hai capito che bisognava continuare. E hai detto: "Vogliamo giustizia non vendette">>. Scena tratta dal film “I 100 passi” Questa è stata la vera rivoluzione di Felicia, la donna minuta, ironica, sarcastica, sempre vestita di nero nel perdurare di un lutto insanabile. Un esempio. Con un solo gesto poteva dare il via ad una guerra di mafia per vendicare la morte di Peppino. I parenti americani, mafiosi anche loro, erano già pronti a scaricare il loro piombo sugli uomini di Badalamenti .Invece no.
La sua scelta di denuncia pubblica e di rottura con i codici e la cultura mafiosa, una scelta non violenta nel suo significato umano, culturale e politico più profondo, ha segnato la via di una nuova visione della lotta contro la mafia che ormai, attorno alla figura di Peppino Impastato, motiva migliaia di giovani e ragazze in tutta Italia. <<Ti eri data appuntamento con il capomafia in un'aula di tribunale -continua Santino- e ce l'hai fatta, quando col dito puntato contro il video della prigione americana, dove in teleconferenza stava Badalamenti, gli hai detto: "Tu sei l'assassino di mio figlio">>. Per anni questa verità, Felicia, Giovanni e i compagni di Peppino, l'hanno urlata ai quattro venti, mai ascoltati però da chi doveva dare giustizia e invece depistava indagini e processi. Ora anche la giustizia è arrivata e la verità è sancita da quella relazione della commissione parlamentare antimafia diventata atto ufficiale dell'intero parlamento. Non ci si sarebbe mai giunti se quella casa che ieri Felicia ha lasciato per l'ultima volta, una casa piccola e modesta, carica di dignità, a pochi metri-cento passi-dalla casa di don Tano Badalamenti, in questi quasi trenta anni non fosse diventata quella che Santino definisce<<un altare civile e un santuario laico>>. In quella casa in tutti questi anni ha vissuto Felicia, ha incontrato e parlato con tutti, ha chiesto e detto la sua in modo fermo, convinto, sempre tenace e mai rassegnata. Anche se le ultime volte diceva che qui, a Cinisi, non si muoveva più niente. La vita di Felicia è stata dura: moglie di un mafioso, amico di mafiosi e Badalamenti, ma anche madre di Peppino.
La madre che nello scontro tra il figlio e il marito e il mondo del marito scelse il figlio, l'altro mondo possibile, diremmo oggi, anche se allora era impossibile persino pensarlo. In questa rottura Felicia si è costituita in donna per sé con la sua consapevolezza, la sua cultura, la sua storia, la sua visione forte e partigiana delle cose del mondo. La sua era una coscienza politica vera, vissuta dentro un conflitto interiore e un conflitto sociale aspro con la sua realtà.
Corsi di formazione contro la mafia Donne uccise dalla mafia Emanuela Sansone fu la prima vittima di Mafia, uccisa nel 1896 A Catania un consistente elenco di azioni criminali realizzate dalla mafia, tra le più efferate, vede le donne vittime incolpevoli, uccise, quasi sempre, perché nei loro riguardi si è indirizzata una azione c.d. “trasversale” ovvero del rivale di un loro congiunto, che attraverso il sacrificio di un innocente mirava al raggiungimento dei propri scopi. Nutrito è l’elenco di donne. Nel settembre del 1995, a Catania, nella sua abitazione viene assassinata Minniti Carmela moglie di Santapaola Benedetto. La sentenza di condanna degli esecutori dell’omicidio accerterà che l’uccisione della donna avvenne perché l’omicida ha così inteso vendicare la morte di un proprio congiunto di cui riteneva responsabile il marito della vittima. Ovviamente nessun rapporto egli aveva con la Minniti, né riteneva che la stessa fosse responsabile di una condotta personale cui ricollegava il proprio gesto. Nella logica del suo esecutore l’omicidio voleva proprio essere il sacrificio di un innocente per colpire altri, affettivamente legati alla vittima. Corsi di formazione contro la mafia
Sempre in quegli anni nel cimitero di Catania, viene assassinata Santa Puglisi giovane vedova lì recatasi per far visita alla tomba del marito. Insieme a lei viene ucciso il piccolo Salvatore Botta di tredici anni che accompagnava la giovane donna. Anche in questo caso, la donna era assolutamente estranea alle dinamiche che determinarono l’omicidio che trae origine dalla volontà di eseguire una vendetta che non potendosi indirizzare nei confronti del padre della donna, sceglie questa proprio perché bersaglio più facilmente raggiungibile Al di là delle diverse causali che determinarono le azioni omicida, i fatti appena elencati sono accomunati da motivazioni simili: l’intento di perseguire un obbiettivo diverso da quello immediatamente ottenuto con la morte della donna; la facilità di bersaglio che la donna ha rappresentato per chi non ha inteso porre remore di ordine morale al proprio gesto; l’assenza, nelle condotte di vita delle vittime, di comportamenti cui può ricollegarsi la loro uccisione. Sotto tale profilo non può di certo ritenersi colpevole l’essere state congiunte di un mafioso dovendosi escludere che quella condizione personale costituisca motivo per escludere che le donne di cui si è detto siano state vittime della ferocia mafiosa. Liliana Caruso era sposata con Riccardo Messina, sicario e membro del clan Savasta. Dopo l’arresto del marito nel 1994 e la successiva decisione di quest’ultimo di collaborare con la giustizia, la moglie rifiutò di entrare nel programma di protezione. Venne impaurita con minacce di vario genere. Quando le riferì ai magistrati, Liliana Caruso venne uccisa davanti ai figli e a sua madre, Agata Zucchero. Morì il 10 luglio del 1994.
Margherita Clesceri, Vincenzina La Fata e Provvidenza Greco. Erano povere contadine radunate a celebrare la festa del lavoro, furono uccise il 5 maggio 1947 a pochi Km da Piana degli Albanesi a Palermo nella cosiddetta strage di “Portella della Ginestra”. Nella strage morirono dodici persone e ne furono ferite altre cinquanta. Dell’eccidio fu incriminato il bandito Luciano Liggio. I mandanti non furono mai individuati anche si fecero nomi eccellenti della politica. Francesca Citarda fu uccisa a Palermo il 10 settembre 1988, moglie di Giovanni Bontade e fratello di Stefano, da qui nacque la faida dei Corleonesi. Ida Castellucci, incinta di una bimba, fu uccisa, assieme al marito Antonio Agostino , poliziotto presso il Commissariato San Lorenzo di Palermo, a Villagrazia Carini il 5 agosto 1989. Per questo omicidio non sono mai stati individuati né colpevoli, né mandanti. Leonarda Cosentino madre di Francesco Marino Mannoia, Vincenza Marino Mannoia sorella di Francesco Marino Mannoia, e Lucia Cosentino zia di Francesco Marino Mannoia, morirono a Bagheria il 23 settembre 1989.
Francesca Morvillo anch’ella magistrato, era la moglie del giudice Falcone. Aveva scelto per compagno un uomo che poteva morire. Lei stessa sapeva di rischiare la vita, ma aveva deciso. È morta insieme al marito nell’attentato di Capaci del 23 maggio 1992, dilaniata da una bomba dell’antistato. Emanuela Loi, agente di pubblica sicurezza, faceva parte della scorta del giudice Borsellino e fu uccisa il 19 luglio 1992, quando la mafia fece saltare in aria una macchina di tritolo. Purtroppo, essendo la prima volta che faceva la scorta al giudice, si trovò nel posto sbagliato al momento sbagliato. Emanuela Setti Carraro, moglie del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, era crocerossina è completamente estranea all’attività del marito, muore a Palermo il 3 settembre 1982 , perché si trovava in auto al momento dell’agguato mafioso. Vincenzina Marchese, sorella del mafioso Pino Marchese, sposò nel 1991 il numero due del clan dei corleonesi, Leoluca Cagarella . Subito dopo il matrimonio, la coppia scomparve. Il fratello fu arrestato e nel 1992 divenne collaboratore di giustizia dopo essere stato tradito dal capo dei corleonesi Salvatore Riina. Bagarella fu arrestato nel 1994 , mentre della moglie si erano perse le tracce. Alcuni collaboratori di giustizia riferirono più tardi che si era suicidata . Il suo corpo non è mai stato ritrovato. Barbara Asta venne uccisa assieme ai figli perché , purtroppo, si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato, muore infatti il 2 aprile 1983 a Trapani , nell’attentato la cui vittima predestinata sarebbe dovuta essere il giudice Carlo Palermo.
Marina Spinelli fu uccisa per errore il 16 maggio 1946 a Favara in provincia di Agrigento nell’agguato a Gaetano Guarino; era solo un passante. Agata Azzolina, altra vittima innocente,aveva ricevuto minacce di morte per sé e la figlia, dopo che aveva fatto arrestare gli assassini del marito e del figlio, proprietari di una gioielleria a Niscemi provincia di Caltanissetta. Muore suicida il 23 maggio 1997. Graziella Campagna, era una ragazza semplice di Saponara, una famiglia numerosa la sua dove i genitori insegnano ai figli i principi della vita civile,i valori dell’onestà. ”Era una ragazza buona” dicono i familiari e tutti coloro che l’hanno conosciuta. ”una ragazza posata, riservata in società, una ragazza sincera, che parlava di tutto con la sua famiglia” . Il 12 dicembre 1985 è stata rapita è uccisa. Undici anni trascorsi senza che lo Stato le abbia riconosciuto il diritto alla verità e alla giustizia. Undici anni in cui le è stato negato il diritto alla memoria, ad essere riconosciuta vittima di un potere criminale troppo spesso sottovalutato nel messinese. Il 7 dicembre ’96 il Tribunale di Messina ha deciso di riaprire il caso Graziella Campagna. Un riconoscimento dell’impegno di coloro che non hanno voluto e non vogliono dimenticare. C’è da fare ancora tanta strada per riconciliare una comunità con la vita spezzata di Graziella. Bisogna stringersi a fianco dei familiari che hanno ritenuto giusto costituirsi a parte civile in sede processuale. C’è bisogno dell’impegno e dell’autorità statali e locali a collaborare affinché giustizia sia fatta e in fretta. C’è bisogno di uno sforzo delle nuove generazioni a comprendere che il sacrificio di Graziella non è stato invano se esso è servito a chiarire una volta per tutte che Messina non è periferia di mafia, bensì luogo strategico per i traffici di arma e droga e per il riciclaggio di denaro sporco. Alle giovani vittime di mafia è stato negato il diritto a crescere, socializzare, apprendere, amare. E sopratutto nelle scuole, in un salone, una palestra, una classe che può e deve essere ricordata Graziella. Perché viva. Perché non la si dimentichi. Perché non si dimentichi che anche a Messina a diciassette anni si muore. Di Mafia.
Un percorso di fede contro la mafia Suor Carolina è nata ad Aversa in Campania. E’ una semplice donna del sud, bruna, forte, di buon carattere arrivata a Palermo il 2 settembre del 1991, accogliendo l’invito di Padre Puglisi, parroco della chiesa di San Gaetano, che ha avuto anche il consenso del cardinale Pappalardo. Suor Carolina appartiene all’ordine delle Sorelle dei poveri di S. Caterina da Siena ed è la prima suora del suo ordine a mettere piede a Brancaccio. Ha quarant’anni e un incarico di insegnante di religione nella scuola media. Non ha mai vissuto nel lusso, ma è proprio lì a Brancaccio, che conosce la vera miseria, venendo a contatto giorno dopo giorno con la dura realtà di quel quartiere, soggetto al controllo minuzioso, ineludibile della mafia, che non ammetteva ogni altro potere, ogni interferenza, ogni autorità esterna e incontrollabile. Insieme con le altre suore, Suor Carolina andava in giro, con un furgoncino, a chiedere aiuto per la ricostruzione del Centro di accoglienza “Padre Nostro”. In queste sue peregrinazioni capisce che i bambini erano allevati in una cultura di sopraffazione, avevano una mentalità mafiosa, anche i più piccoli, erano ossessionati dal rispetto, covavano dentro un senso di distruzione, avevano carenze affettive e vivevano per strada.
Eppure bastava inserire nel videoregistratore una cassetta di cartoni animati e i piccoli di Brancaccio s’incantavano e diventavano bambini come gli altri. E suor Carolina e le altre consorelle si intenerivano nel vederli così quieti, seduti per terra, intorno al televisore a seguire le vicende della Sirenetta. L’incessante lavoro delle suore era, dunque, quello di cercare i bambini e con la lusinga dei biscotti e dei cartoni animati indurli a frequentare il centro, per insegnare loro le cose più semplici ed elementari, come entrare dalla porta e non dalla finestra, usare il campanello, dire grazie o prego. Anche per convincerli a lavarsi era necessario bandire una gara. Ogni piccola conquista era un vero successo. Suor Carolina si è recata anche negli appartamenti degli sfrattati, cioè di intere famiglie, deportate dal Comune nei condomini costruiti dai costruttori mafiosi; famiglie, che hanno portato dietro la loro miseria e volevano far soldi con ogni mezzo, arraffando, accumulando, scialando. La suora prova una gran pena, tanto sgomento, un dolore immenso. Altro compito di suor Carolina era quello di accompagnare i bambini a scuola, impresa ardua perché spesso questi scappavano.
Ogni giorno sono tante le piccole battaglie da affrontare e, quando anche una sola di queste è vinta , è veramente un miracolo; come quando suor Carolina è riuscita a far chieder scusa a un bambino per il suo gesto violento. Dietro a tutto ciò, e suor Carolina lo ha capito, c’è una grande carenza affettiva insieme con la voglia di distruggere tutto perché si è distrutti dentro. Ma aiutare significava anche conoscere le famiglie, l’ambiente in cui vivevano scoprire i bisogni reali di quella gente. Pertanto tutto veniva schedato attraverso un lavoro lungo, difficile, minuzioso, capillare. E toccava ancora a suor Carolina il compito di affrontare i giornalisti televisivi, che si recavano a Brancaccio per parlare del degrado di quel quartiere; tutti scappavano, si nascondevano, avevano paura. Il rendere pubblica tale situazione faceva aumentare l’ostilità degli abitanti nei confronti di suor Carolina, che era molto preoccupata per il tono violento e crudo con cui Padre Puglisi apostrofava suoi parrocchiani, ma capiva pure che quella era la strada che egli avrebbe percorso fino in fondo, perché era un prete che non accettava compromessi, mezze misure, “era pane al pane vino al vino”, non tollerava le ingiustizie, i soprusi, l’inganno, la mafiosità. Dopo la morte di padre Puglisi suor Carolina è rimasta ancora un anno a Brancaccio. Ma tutto era cambiato, l’atmosfera,gli sguardi, i rapporti con la gente, perché tutti si erano ritirati nella loro vecchia diffidenza, nella chiusura verso gli altri. Nessuno salutava più le suore del Centro di accoglienza, anche i bambini avevano paura. Andata via da Brancaccio, suor Carolina si è trasferita per qualche anno a Vittoria, nella provincia di Ragusa,e ha continuato a occuparsi di bambini e di ragazzi. Oggi vive in Calabria.
Reportage fotografico sugli episodi drammatici e delittuosi della mafia
E la storia continua … …