Quando nel 1997 Michael Haneke realizzò Funny Games, ha dichiarato che il film si ispirava a un certo cinema americano traboccante di violenza gratuita.

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Transcript della presentazione:

Quando nel 1997 Michael Haneke realizzò Funny Games, ha dichiarato che il film si ispirava a un certo cinema americano traboccante di violenza gratuita. Haneke ha voluto mettere a disagio lo spettatore abituato alla brutalità televisiva e hollywoodiana

"Cerco di mostrare la violenza per come è davvero, qualcosa di difficile da mandar giù" ha dichiarato di recente. "Voglio mostrare la realtà della violenza, il dolore, le ferite inflitte da parte di un essere umano sull'altro. Per questo motivo mi hanno spesso accusato di violentare il pubblico con i miei film. La verità è che tutti i film assaltano lo spettatore in un modo o nell'altro.

Quando nei primi anni Novanta ho iniziato a pensare al primo Funny Games, pensavo soprattutto al pubblico americano. La mia era una reazione a un certo tipo di cinema americano, alla sua violenza, al suo essere naïf, al modo in cui gioca con gli esseri umani. In molti film americani la violenza è diventata un prodotto di consumo.

Galimberti nel suo ultimo libro L’ospite inquietante Galimberti nel suo ultimo libro L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani afferma che questo “ospite inquietante”, il nichilismo appunto, pervade ormai la vita dei giovani, confonde loro i sentimenti, inaridisce le passioni; questo disagio esistenziale, questa alienazione non ha una origine psicologica ma culturale. L’età della tecnica ha abolito lo scenario umanistico, in quanto parlare di tecnica vuol dire affrontare discorsi che non tendono ad uno scopo, non affondano le radici in nessun senso profondo, e non perché la tecnica non si sia abbastanza perfezionata,

ma per il semplice motivo che queste problematiche non appartengono alla sua dimensione; la tecnica funziona e basta. Ora, cosa accade quando il meccanismo che alimenta la tecnica investe tutti gli ambiti di vita? Accade che i concetti di persona, libertà, salvezza, senso, verità, logorati dal nichilismo e dominati dalla tecnica, finiscono sullo sfondo

Il soggetto vive anche l’età della tecno-scienza che, pur procedendo nella conoscenza della realtà circostante, getta l’uomo in una insolita forma di “ignoranza”, particolarmente pericolosa perché lo rende incapace di affrontare con maturità e convinzione quei problemi esistenziali che caratterizzano, ormai, l’attuale società del rischio. L’errore dell’individuo, allora, è quello di continuare a pensare che la tecnica sia uno strumento da dominare perché in mano all’uomo. Nei fatti, osserva Galimberti, la tecnica ha preso il posto della natura che circonda la persona diventando, oggi, ambiente vitale

Tutto ciò che finora ha guidato l’individuo nel corso della storia - sensazioni, percezioni, sentimenti, emozioni - è inadatto nel nuovo scenario cognitivo. Ciò di cui la persona ha bisogno oggi, è una estensione della dimensione psichica in grado di compensare l’attuale inadeguatezza nel percepire il futuro come prospettiva

La mancanza di una prospettiva futura rende carenti genitori e insegnanti dell’autorità di indicare la via da percorrere con la diretta conseguenza che tra adolescenti e adulti si viene ad instaurare un rapporto contrattualistico, con l’effetto che gli educatori si trovano nella condizione di dovere continuamente giustificare le loro scelte nei riguardi dei giovani, che accettano o meno ciò che viene loro proposto in un rapporto considerato tra pari.

In tale senso, il rapporto tra adolescenti e adulti non può e non deve essere un rapporto simmetrico altrimenti si corre il rischio formativo di non contenere più il giovane, lasciandolo solo di fronte alle proprie pulsioni e ansie.

L’enorme difficoltà di poter affrontare concretamente riflessioni su questa sorta di necessità di una vera e propria alfabetizzazione emotiva dei giovani, è percepibile in quella forma di solitudine che Galimberti ha definito come assenza di gravità i cui tratti caratteristici sono riconoscibili nell’incomunicabilità come “presa di posizione”, nella sovrabbondanza e nell’opulenza come “addormentatori sociali”;

tutto questo spinge il giovane a muoversi nel sociale come in una dimensione desueta, quasi dimenticata nel cui ambito “non è il caso di lanciare alcun messaggio, perché non c’è anima viva che lo raccolga e dove, se si dovesse gridare ‘aiuto’, ciò che ritorna sarebbe solo l’eco del proprio gesto”

Nell’universo giovanile, oggi, la follia sembra vestire i panni della freddezza e della razionalità, pronta ad esplodere negli ambiti più inaspettati e, soprattutto, appare essere una forma di follia legata all’imprevedibilità, nel senso che molti casi di crimini efferati compiuti da adolescenti, come ad esempio “i ragazzi del cavalcavia”, hanno a che fare con questa sorta di irreperibilità della causa, del movente;

“alla base c’è una mancata crescita emotiva, che ha reso il sentimento atrofico, inespressivo, non reattivo, per cui gli eventi della vita passano loro accanto senza una vera partecipazione, senza un’adeguata risposta di sentimento a quanto intorno accade”

“i ragazzi del cavalcavia” non hanno alcun movente, poiché gettare sassi da un ponte per uccidere qualcuno che non si conosce come se si vivesse in un video game, è una circostanza che non fa parte dalla logica dell’amore e dell’odio e, quindi, neppure tramite questi sentimenti umani si può raggiungere la loro mente e parlare la loro lingua straniera.

“Di questi ragazzi dobbiamo pensare che tra sé e l’angoscia di esistere non c’è alcuno spazio di mediazione, quello spazio che l’umanità ha sempre cercato di procurarsi e che, nelle sue forme più diverse, porta il nome di ‘cultura’, che non è solo un’educazione intellettuale, ma soprattutto educazione delle emozioni e quindi dei comportamenti”