Le opere di misericordia PARROCCHIA MARIA SS. ADDOLORATA OPERA DON GUANELLA – BARI Le opere di misericordia ALLOGGIARE I PELLEGRINI Anno Pastorale 2015-2016
Introduzione L’espressione “alloggiare i pellegrini” rinvia alla pratica di dare ricovero a chi sta compiendo un pellegrinaggio.
Non a caso le opere di misericordia come: dare da mangiare agli affamati, dare da bere agli assetati, alloggiare i pellegrini, furono molto spesso raffigurate nelle chiese disposte lungo gli itinerari dei grandi pellegrinaggi per stimolare l’attiva carità nei confronti dei pellegrini.
La storia dei pellegrinaggi è anche la storia degli “ospizi” costruiti per dare riparo e ristoro ai pellegrini.
La Guida del pellegrino di Santiago (composta verso il 1140)1 parla di alcuni dei luoghi di accoglienza come di luoghi santi, casa di Dio, ristoro dei santi, riposo dei pellegrini, consolazione degli indigenti, salute degli infermi, soccorso dei morti come dei vivi2. 1. Viene così chiamato il quinto libro del Liber sancti Jacobi, che occupa i fogli 192-213 del Codex Calixtinus, conservato nella cattedrale di Santiago di Compostela. 2. “Loca sancta, domus Dei, refectio sanctorum, peregrinorum requies, egentium consolatio, infirmorum salus, mortuorum subsidium [pariter ac] vivorum” (Guida del pellegrino di Santiago 4).
In questi luoghi venivano accolti i pellegrini, curati i malati, ricevevano sepoltura coloro che erano morti per stenti o erano stati uccisi dai briganti.
In oriente fin dal IV secolo accanto ai monasteri basiliani sorgono dei luoghi di accoglienza di stranieri e pellegrini (chiamati xenodocheía) e l’ospitalità si caratterizza come ministero particolarmente caro a tutto il monachesimo.
Tuttavia, dietro all’espressione che parla di “alloggiare i pellegrini” vi è la parola evangelica sull’accoglienza del forestiero (xénos, Mt 25,35.43) e dunque la pratica dell’ospitalità.
Una pratica che oggi è drammaticamente interpellata dal massiccio fenomeno migratorio, che pone a contatto uomini e donne provenienti da paesi poveri o resi invivibili da guerre e violenze con gli abitanti della parte ricca del globo.
E oggi vi è bisogno del diffondersi e del radicarsi di una cultura dell’ospitalità in particolare nei confronti degli stranieri che premono alle porte dei nostri paesi. Ne va dell’umanità stessa dell’uomo.
In effetti, la civiltà ha fatto un passo decisivo, forse il passo decisivo, il giorno in cui lo straniero, da nemico (hostis) è divenuto ospite (hospes)3. 3. Jean Daniélou, Per una teologia della spiritualità, in La Vita Spirituale 367 (1951), P. 340.
Ma questo passaggio deve avvenire sempre e di nuovo, e ogni generazione deve essere educata a compiere questo passaggio e a non ricadere nelle mortifere logiche di contrapposizione tra “noi” e “loro”.
In un’epoca in cui l’insicurezza globale, mondiale, si traduce in ricerca ossessiva di sicurezza personale, difesa delle proprie case (sempre più recintate da muri invalicabili e da cancelli insormontabili, protette da telecamere a circuito chiuso, difese da polizie private) e in cui la società opulenta e consumistica ha provocato il declino della prassi dell’ospitalità, così attestata nella Bibbia, facendone un business e appaltandola a strutture alberghiere e hotel classificati in base al costo e accessibili solo a chi ne ha i mezzi economici, l’ospitalità diviene una vera sfida.
Non si può dimenticare che a pochi passi dagli alberghi più o meno costosi, sulle panchine dei parchi e sui marciapiedi delle strade si trovano le sempre più folte schiere dei “senza casa” che si riparano con un giornale o un cartone.
E sempre più spesso, oggi, le nostre città rifiutano loro anche questi spazi pubblici per sottrarli alla nostra vista e alla nostra coscienza.
Chiediamoci allora: perché dare ospitalità? Perché l’ospitalità è stata ed è tuttora sentita in molte culture come un dovere sacro, un gesto di solidarietà a cui è semplicemente impensabile sottrarsi?
In radice, credo che la risposta sia semplice: perché si è uomini, per divenire uomini, per umanizzare la propria umanità e per rispettare e onorare l’umanità dell’altro.
Ogni uomo, in quanto venuto al mondo, è lui stesso ospite dell’umano che è in lui: noi diamo ospitalità perché sappiamo di essere ospitati a nostra volta.
Dare ospitalità è atto con cui un uomo risponde alla propria vocazione umana, realizza la propria umanità accogliendo l’umanità dell’altro.
Il considerarci ospiti dell’umano che è in noi, ospiti accolti e non padroni, può aiutarci ad aver cura dell’umano che è in noi e negli altri, a uscire dalla perversa indifferenza e dal rifiuto di quella virtù della compassione che ci conduce a comprometterci con l’altro nel suo bisogno.
Il povero, il senza tetto, il girovago, lo straniero, il barbone, colui la cui umanità è umiliata dal peso delle mancanze e delle privazioni, dei rifiuti e dell’abbandono, del disinteresse e dall’estraneità, comincia a essere accolto quando io comincio a sentire come mia la sua umiliazione, come mia la sua vergogna, quando comincio a sentire che la mortificazione della sua umanità è la mia stessa mortificazione.
Allora, senza inutili sensi di colpa e senza ipocriti buoni sentimenti, può iniziare la relazione di ospitalità che mi porta a fare tutto ciò che è nelle mie possibilità per l’altro.
Ma deve essere chiaro che l’ospitalità umanizza anzitutto colui che la esercita: Non ha ancora incominciato a essere un vero uomo chi non ha vissuto la pietà per l’umanità ferita e svilita nell’altro4. 4. Pierangelo Sequeri, L’umano alla prova. Soggetto, identità, limite, Vita e Pensiero, Milano 2002, p. 159.
In ascolto della Bibbia Se la Bibbia attesta la santità dell’ospite, il suo carattere rivelativo, perché in esso è Dio stesso che visita l’uomo (cfr. l’episodio dei tre uomini accolti da Abramo a Mamre in Genesi 18,1-15, ripreso dalla Lettera agli Ebrei 13,2: “Non dimenticate l’ospitalità, alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli”), anche l’antichità classica esprime con vigore la sacralità dell’ospite, soprattutto dello straniero che si trova, a causa dello sradicamento, in situazione di inferiorità e bisogno particolarmente grave:
Non si dimenticherà che le relazioni con gli stranieri sono atti di particolare sacralità, perché si può dire che non ci siano colpe ... di nostri cittadini a danno di stranieri che non soggiacciano alla vendetta di un dio, molto più che le ingiustizie commesse nei confronti dei concittadini. E questo è ovvio, perché lo straniero si trova a essere privo di amici e parenti, e quindi è affidato in modo particolare alla compassione degli dèi e degli uomini ... Un uomo che sia almeno un po’ assennato dovrà mettere ogni cura per giungere alla fine dei suoi giorni senza avere commesso errori nei rapporti con gli stranieri5. 5. Platone, Leggi 5,729e-73oa, in Id., Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2000, pp. 1545-1546.
Accogliere il viandante significa predisporre uno spazio, creare uno spazio per lui, come fa la donna di Sunem che predispone una stanza per l’ospite, cioè Eliseo: “Prepariamo per lui una piccola camera al piano di sopra, in muratura, mettiamoci un letto, un tavolo, una sedia e una lampada, sì che, venendo da noi, ci si possa ritirare”: (2Re 4,10).
Significa quantomeno aprire la propria casa all’altro (come Marta che accoglie Gesù “nella propria casa”: Lc 10,38), ma più in profondità significa fare di se stessi la casa, la dimora in cui l’altro viene accolto: accogliere è dare tempo e ascolto all’altro, e ascoltando scaviamo in noi uno spazio interiore per lui (come Maria che, “sedutasi ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola”: Lc 10,39).