Per un'etica del morire umano. Prospettive dalla tradizione cattolica

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Per un'etica del morire umano. Prospettive dalla tradizione cattolica a cura di Pier Davide Guenzi a cura di Pier Davide Guenzi P. Gauguin, Da dove veniamo? Che cosa siamo? Dove andiamo?, 1897

La morte e il morire: «L’esperienza della morte è sempre culturalmente mediata. E perciò essa è da vivere» (Maurizio Chiodi)

2. Definire e valutare l’eutanasia «Per eutanasia in senso vero e proprio si deve intendere un’azione o un’omissione che di natura sua e nelle intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. L’eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati» (Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Evangelium vitae, 25 marzo 1995, n. 65; cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione sull’eutanasia Jura et bona, 5 maggio 1980: EV 7, n. 355; in forma di tesi: Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 2281-2283).

Scopo di una definizione Circoscrivere quella forma di agire umano che è eutanasia da altre forme Motivare un giudizio etico Offrire un modello di riferimento per interpretare il senso dell’agire medicale Tuttavia non deve essere dimenticato il limite insito ad ogni definizione di eutanasia: «Queste distinzioni dicono a loro modo la complessità simbolica e intenzionale dell’agire umano. Anche per la complessità delle situazioni e dei casi-limite, è inevitabile che in esse si rinvii alla decisione saggia nella situazione concreta» (M. Chiodi).

In riferimento all’importanza della attenzione alla volontà del paziente e alla sua autodeterminazione, il Comitato Nazionale per la Bioetica (1995), ha proposto di riservare in modo pertinente la qualifica di eutanasia alla: «uccisione diretta e volontaria di un paziente terminale in condizioni di grave sofferenza e su sua richiesta» Si evidenzia così la situazione problematica, oggetto di prese di posizioni etiche differenti nel dibattito contemporaneo.

Una grande convergenza di sensibilità etica sembra prodursi in altre situazioni non assimilabili a questa definizione di eutanasia: La non liceità di lasciar morire un malato sospendendogli intenzionalmente le cure “ordinarie” necessarie alla sua sopravvivenza e “proporzionate” alla sua condizione La non liceità di forme di soppressione della vita umana a scopo eugenetico; né di soppressione precoce di neonati con gravissime malformazioni o con esigue speranze di vita La non liceità dell’eutanasia attiva su paziente non consenziente La liceità della sospensione dall’accanimento terapeutico La liceità del rifiuto, libero, attuale e consapevole del paziente di sottoporsi ad una terapia da lui giudicata gravosa rispetto alla sua condizione e ai possibili benefici

II. Motivare un giudizio etico Le argomentazioni del Magistero cattolico: - La “sovranità di Dio” sulla vita dell’uomo: «un rifiuto della sovranità assoluta [“dominatum”]di Dio sulla vita e sulla morte» (EV, 66; ma in Dich. Eutanasia, 1980: «rifiuto della sovranità di Dio e del suo disegno d’amore). - Eutanasia come “negazione della naturale aspirazione alla vita” (Dich. Eutanasia, 1980, I, 3): «l’innata inclinazione di ognuno alla vita» (EV, 66). L’importanza di interpretare correttamente queste affermazioni…

Per una corretta comprensione del termine “sovranità di Dio”… Un’indicazione sintetica sul senso del vivere (e del morire) umano. Non si tratta di una affermazione pura e semplice della sovranità di Dio sulla vita e sulla morte, sul parametro di una concezione di Dio quale monarca assoluto, ma del fatto che la vita è per il credente un dono affidato all’uomo, la cui origine non è fino in fondo in suo possesso. L’affermazione della sovranità di Dio sulla vita dell’uomo ha un valore di apertura di senso per la vita dell’uomo, «quando ci decidiamo ad accoglierla da Dio e a considerarla come la possibilità di esprimere un mandato che al termine dell’esistenza dovrà essere rimesso al Creatore. Illustra l’atteggiamento cristiano della gratitudine di fronte a Dio e dell’abbandono fiducioso nelle sue mani» (E. Schokenhoff).

…e della tutela della naturale aspirazione alla vita Parlare per l’uomo di una “naturale aspirazione alla vita” e della necessità della sua tutela, non significa sacralizzare il dato biologico della vita o fare della continuazione della vita un imperativo, un assoluto da essere perseguito ad ogni costo. Piuttosto si vuole suggerire l’impegno a tutelare la persona nella sua globalità (“dignità”): la natura dell’uomo non è il semplice dato biologico. Così: «come per ogni uomo è assoluto il dovere di vivere una vita buona e non semplicemente di continuare a vivere, così per il medico il dovere principe non è di prolungare ogni vita ad ogni costo, ma di prolungare tutta la vita cui è possibile dare maggior senso umano, ossia quello di servire e curare la persona umana difendendo la sua vita nella modalità più rispettosa dello stile di quel soggetto e più fedele alla sua unità e cifra biografica». (P. Cattorini) L’aspirazione alla vita deve essere precisata come sapiente capacità di “amministrare la propria vita”, anche nella condizione della malattia terminale.

Un punto di vista per ampliare l’argomentazione circa una ragionevole regolamentazione dell’eutanasia volontaria in talune circostanze L’argomentazione a favore dell’eutanasia volontaria poggia su due presupposti che richiedono di essere ridiscussi: -il desiderio di essere aiutato a morire come ultima espressione della sua autoderminazione morale -l’appagamento di questo desiderio rappresenta per lui l’unico aiuto reale che gli può essere offerto nella sua dolorosa situazione -il suo desiderio non può essere una “comunicazione velata” che significa piuttosto di non essere abbandonato ed essere aiutato non tanto “a morire”, ma “nel morire”? -il riconoscimento dell’eutanasia non potrebbe sostituire progressivamente altre forme, umanamente ed economicamente meno vantaggiose, di cura del morente, nel rispetto della sua dignità umana come nel caso della medicina e delle cure palliative?

Il ruolo centrale del rifiuto dell’accanimento terapeutico La definizione di accanimento terapeutico offerta dal CNB appare esaustiva: “Un trattamento di documentata inefficacia in relazione all’obiettivo, a cui si aggiunga la presenza di un rischio elevato e/o una particolare gravosità per il paziente con un’ulteriore sofferenza, in cui l’eccezionalità dei mezzi adoperati risulta chiaramente sproporzionata agli obiettivi della condizione specifica”. “Persistenza nell’uso di procedure diagnostiche come pure di interventi terapeutici, allorché è comprovata la loro inefficacia e inutilità sul piano di un’evoluzione positiva e di un miglioramento del paziente, sia in termini clinici che di qualità di vita”.

Il criterio della proporzionalità “E’ lecito interrompere l’applicazione di mezzi quando i risultati deludono le speranze riposte in essi. Ma nel prendere una decisione del genere si dovrà tener conto del giusto desiderio dell’ammalato e dei suoi famigliari, nonché del parere di medici veramente competenti: costoro potranno senza dubbio giudicare meglio di ogni altro se l’investimento di strumenti e di personale è sproporzionato ai risultati prevedibili e se le tecniche messe in opera impongono al paziente sofferenze e disagi maggiori dei benefici che se ne possono trarre”. Tale giudizio di proporzionalità può essere formulato: “mettendo a confronto il tipo di terapia, il grado di difficoltà e il rischio che comporta, le spese necessarie e le possibilità di applicazione, con il risultato che ci si può aspettare, tenuto conto delle condizioni del malato e delle sue forze fisiche e morali” (Dichiarazione vaticana sull’eutanasia, 1980).

La “dichiarazione anticipata di trattamento” «Un documento con il quale una persona, dotata di piena capacità, esprime la sua volontà circa i trattamenti ai quali desidererebbe o non desidererebbe essere sottoposta nel caso in cui, nel decorso di una malattia o a causa di traumi improvvisi, non fosse più in grado di esprimere il proprio consenso o il proprio dissenso informato» (CNB, 18/12/2003)

Sul versante dell’operatore sanitario, le espressioni del paziente possono avere l’utilità di poter reperire in situazioni particolarmente compromesse elementi per l’interpretazione della “autentica” volontà del paziente (senza vincolarsi al parere di terzi). Consentono di prolungare il contesto fiduciale (“alleanza terapeutica”) di legame tra medico-paziente. In senso più ampio, trovano significato alla luce della crescente sensibilità nei confronti dell’accanimento terapeutico e dell’abbandono terapeutico.

Una valutazione etica Il problema per una valutazione di queste disposizioni risiede: nell’effettiva continuità di giudizio del paziente sul proprio trattamento all’interno dell’evento traumatico; nell’astrattezza o genericità di quanto regolamentato; nell’attenzione a non ridurre l’atto medico (e l’agire del medico che dispone di una propria “etica”) alla pura esecuzione della volontà del paziente

I contenuti delle Dichiarazioni anticipate: Non devono imporre pratiche inaccettabili in scienza e coscienza per il medico e in contrasto col diritto positivo (forme di eutanasia). Possono spingersi fino alla proposta di non attivare trattamenti di sostegno vitale ritenuti in una situazione concreta sproporzionati o ingiustificati. Il caso discusso della sospensione di alimentazione e idratazioni artificiali in particolare nello “stato vegetativo” o in alcune fasi finali di alcune patologie degenerative.

Alimentazione e idratazione La formulazione tipica del magistero cattolico: «la somministrazione di acqua e cibo, anche quando avvenisse per vie artificiali, rappresenti sempre un mezzo naturale di conservazione della vita, non un atto medico. Il suo uso pertanto sarà da considerarsi, in linea di principio, ordinario e proporzionato, e come tale moralmente obbligatorio, nella misura in cui e fino a quando esso dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che nella fattispecie consiste nel procurare nutrimento al paziente e lenimento delle sofferenze» (Giovani Paolo II, 20/03/2004)

Nell’affermare che la somministrazione di cibo e acqua è moralmente obbligatoria in linea di principio, la Congregazione della Dottrina della Fede non esclude che in qualche regione molto isolata o di estrema povertà l’alimentazione e l’idratazione artificiali possano non essere fisicamente possibili, e allora ad impossibilia nemo tenetur, sussistendo però l’obbligo di offrire le cure minimali disponibili e di procurarsi, se possibile, i mezzi necessari per un adeguato sostegno vitale. Non si esclude neppure che, per complicazioni sopraggiunte, il paziente possa non riuscire ad assimilare il cibo e i liquidi, diventando così del tutto inutile la loro somministrazione. Infine, non si scarta assolutamente la possibilità che in qualche raro caso l’alimentazione e l’idratazione artificiali possano comportare per il paziente un’eccessiva gravosità o un rilevante disagio fisico legato, per esempio, a complicanze nell’uso di ausili strumentali.

Conferenza Episcopale Tedesca e Consiglio delle Chiese Evangeliche (1995): «l’accompagnamento medico e l’assistenza accurata, devono in questi casi essere diretti all’alleviamento dei dolori, dell’agitazione e della paura […]. Io desidero poter morire in dignità e pace e, secondo le possibilità, con la presenza e a contatto dei miei parenti e delle persone che mi stanno vicino e nel mio ambiente familiare. […] Io rifiuto i mezzi dell’eutanasia “attiva”».

Grazie per l’attenzione