LABORATORIO TEATRALE a.s. 2008/09

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LABORATORIO TEATRALE a.s. 2008/09 SALVATORE DI GIACOMO

LA BIOGRAFIA Nacque a Napoli il 13 marzo 1860. Dopo la licenza liceale incominciò per volere della famiglia gli studi di medicina, ma al terzo anno, dopo aver assistito ad una lezione di anatomia, abbandonò l'università per diventare redattore della pagina letteraria del Corriere del Mattino. Poi, come poeta, narratore e giornalista collaborò al "Pungolo", al "Corriere di Napoli" e ad altri quotidiani e riviste del tempo. Dal 1893 ricoprì l'incarico di bibliotecario presso varie istituzioni culturali cittadine (Biblioteca del Conservatorio di San Pietro a Maiella, Biblioteca universitaria, Biblioteca nazionale). Nel 1902 divenne direttore della Sezione autonoma Lucchesi-Palli della Biblioteca nazionale e dal 1925 al 1932 ricoprì la qualifica di bibliotecario capo. Fu nominato Accademico d'Italia nel 1929. Morì a Napoli il 5 aprile 1934.

La produzione I Sunette antiche in dialetto napoletano letterario furono pubblicati nel 1884; a questa prima raccolta seguirono 'O funneco verde (1886), 'O munasterio (1887), Zi' munacella (1888), A San Francisco (1895), Ariette e sunette (1898), Canzoni e ariette nove (1916), sino all'edizione definitiva delle Poesie del 1927. La sua produzione teatrale consiste in questi drammi: Malavita , pubblicata nel 1889 con il titolo "'O voto" e tratta dal racconto "Il voto", Assunta Spina (1909), Quand l'amour meurt (1911). I drammi sono ricavati da racconti o da un gruppo di sonetti, come A San Francisco. Alcune delle sue poesie, musicate da compositori dell’epoca, sono oggi capolavori indiscussi della canzone napoletana come Marechiaro, Era de maggio, Carulì, Palomma 'e notte.

MARECHIARE Quanno sponta la luna a Marechiare pure li pisce nce fanno a ll'ammore, se revoteno ll'onne de lu mare, pe la priezza cagneno culore, quanno sponta la luna a Marechiare... A Marechiare ce sta na fenesta, la passione mia ce tuzzulea, nu carofano addora 'int'a na testa, passa ll'acqua pe sotto e murmulea... a Marechiare ce sta na fenesta... Chi dice ca li stelle so' lucente nun sape st'uocchie ca tu tiene nfronte, sti doie stelle li saccio io sulamente, dint' a lu core ne tengo li pponte, chi dice ca li stelle so' lucente.... Scétete Caruli' ca ll'aria è doce, quanno maie tanto tiempo aggio aspettato? P'accunpagnà li suone cu la voce, stasera chitarra aggio purtata... Scé Caruli' ca ll'aria è doce!... Salvatore di Giacomo andò a Marechiaro solo molti anni dopo aver scritto la celeberrima canzone. In un articolo di giornale scrisse "In un giorno d'Aprile, con una piccola barca a vela sono stato per la prima volta laggiù, su quei lidi che, senza conoscerli, ho cantato e celebrato". Il poeta si recò in quel luogo per accompagnare una giovane studentessa inglese, sua ospite.

SALVATORE DI GIACOMO La vita, la poesia, le canzoni, la prosa ARTURO FRATTA SALVATORE DI GIACOMO La vita, la poesia, le canzoni, la prosa ROMA 1997 Salvatore Di Giacomo fa parte di quell’esiguo numero di scrittori che rinnovarono la poesia in Italia. L’uso del dialetto napoletano, che fu funzionale a questo rinnovamento, da un lato ne limitò la fortuna letteraria, dall’altro fu mezzo di una diffusione inaudita per un poeta del suo tempo: i suoi intramontabili versi d’ amore sono stati portati al di là degli oceani dalla musica di canzoni napoletane divenute celebri nel mondo. Questo non giustifica la qualifica riduttiva di poeta dialettale che gli fu subito data e che gli è rimasta appiccicata addosso, nonostante fin dall’inizio del secolo la critica ne abbia dichiarato l’universalità.

Napoli Il grande amore del poeta, il tema principale della sua produzione, fu senza dubbio Napoli. Quella città che ancora non conosceva gli orrori della Grande Guerra e che profumava dei suoi innumeri giardini, dei cibi saporosi delle antiche trattorie, nei vicoli sospesi tra cielo e mare, dove si ascoltavano le ‘voci’ gridate dei mestieri e i canti melanconici degli innamorati. E di Napoli l’artista vagheggiava nostalgicamente soprattutto il glorioso passato settecentesco, la sua pittura lussureggiante, le armonie musicali e il melodramma di Metastasio, il vivace teatro, negli anni in cui la città aveva il gran respiro di capitale europea, accanto a Parigi, Vienna, Londra. E' stato notato che in tutta la produzione di Di Giacomo la parola: NAPOLI ricorre soltanto tre volte: come se avesse voluto tacere il nome della sua amante preferita per profonda devozione ed infinito rispetto...e forse questo deve essere considerato il suo "lascito"... l'amore, l'infinito amore per la sua città e per gli uomini, che come Lui, ne hanno reso possibile la grandezza.

L’amore Elisa Avigliano, questo il nome, una ragazza «auta e brunetta» (alta e brunetta) più giovane di lui di 19 anni, che fra una frequentazione e l’altra accese tanto di passione il cuore dell’artista da diventare presto l’unico e tormentato amore della sua vita, che solo dopo 11 anni di fidanzamento fu coronato dal matrimonio, il 20 febbraio 1916. Fu una passione piena di sospetti e gelosie dall’una e dall’altra parte («a nera gelusia»), scossa da liti e minacce di separazione, ma sempre struggente e vitale nel cuore di un poeta che nella sua napoletanità fu anche fortemente meteoropatico e condizionato dal morboso affetto materno. «La mia anima» scriveva alla sua Elisa «è sempre come un cielo ora annuvolato, ora luminoso su cui rapidamente si avvicendano sole e nubi e devo ripeterti, ancora una volta, che il buono e il cattivo tempo lo fai unicamente tu», forse preludio alla successiva Marzo.

Marzo Marzo: nu poco chiove e n’ato ppoco stracqua torna a chiovere, schiove, ride ‘o sole cu ll’acqua. Mo nu cielo celeste, mo n’aria cupa e nera, mo d’’o vierno ‘e tempesta, mo n’aria ‘e Primmavera. N’ auciello freddigliuso aspetta ch’esce ‘o sole, ncopp’’o tturreno nfuso suspireno ‘e vviole. Catarì!…Che buo’ cchiù? Ntiénneme, core mio! Marzo, tu ‘o ssaie, si’ tu, e st’ auciello songo io.

Dicono di lui … Max Vajro nella sua prefazione alla raccolta di poesie digiacomiane edite da Fausto Fiorentino:"...Di Giacomo ha scritto di Napoli tutto quello che un poeta poteva, componendo il più affascinante e dolente ritratto della città: cronache di tribunale, scene di silenziosa miseria, amori furenti e abbandoni, rappresentazioni dell'amara vita dei fondaci,ricostruzioni di scene amabili del settecento; sonetti vivaci, talvolta maliziosi; canzoni divenute celeberrime ed emblematiche nel mondo, commedie e drammi, rievocazioni in prosa che hanno forza di poesia; ha narrato l'amore delle donne perdute e delle madri, da "Mese Mariano" ad "Assunta Spina"; la turpitudine della malavita; e l'eleganza della classicità napoletana che da secoli riaffiora ogni volta che parole di poesia la interroghino, come se le sembianze di una città marmorea emergessero al canto delle sirene. Ha composto un sacro libro che commuove chi ravvisa in esso luoghi e persone, tradizioni e sentimenti, ma che ogni lettore in ogni lingua può riconoscere come voce universale ed eterna di poesia. E che essa parli in napoletano, è un dato che si accresce - per noi napoletani - di un valore che è già assoluto: segno di amore di cui bisogna essere grati ad un poeta che fu un tremante groviglio di echi e sensazioni vissute per noi, dando alito a una città attraverso la sua voce. "...

Scrive Ghirelli:" Chino sul foglio bianco come un grande artigiano don Salvatore si isola dal frastuono delle gazzette e dei salotti, dedicandosi piuttosto a portare ad estrema perfezione uno strumento personale che non somiglia a nessun altro, il vernacolo, mediato si dalla realtà popolare ma filtrato attraverso esperienze altamente sofisticate, che vanno dai lirici greci dell'epoca di Saffo, all'opera buffa dell'epoca di Paisiello, passando per la narrativa del Cortese e del Basile. La fusione che egli realizza tra la struttura colta del suo dialetto e la tradizione parlata attinge la perfezione nei versi delle Ariette e delle Canzoni nuove, dove la parola si libera " in un aere musicale "e appare" disposta a vivere per ritmi e metri in una trepidantissima aura di suggerimenti ".

Con Salvatore di Giacomo, come scrive Vincenzo Valente, la canzone "fu un miracolo di compatibilità fra urgenza di canto e purificazione dalle scorie del facile verseggiare" .. Il Croce lo considera:... "uno dei rari poeti schietti dei tempi nostri... Temperamento amoroso, malinconico, triste ed anche passionale, amaro e tragico"....e Pasquale Scialò: ..."Di Giacomo rappresenta il ceto intellettuale che cerca nel vernacolo una verginità espressiva diversa da quella dei moduli stantii degli accademici. Non a caso infatti l' Accademia dei - filopadriti - lo attacca per le sue innovazioni all'interno del dialetto napoletano. Il poeta nei versi per la canzone sfodera spesso una carica popolaresca e insieme colta, di grande impatto. E' impossibile elencare i versi delle oltre 250 canzoni fino ad ora accertate, musicate in un arco di tempo che va dal 1882, con" e ghiammoncenne mè !" su musica di Mario Costa, fino al 1978 con  " Addio canzone " su musica di Jacopo Napoli. I suoi versi per la musica mostrano sempre una disponibilità ai vari generi legati alla canzone: da quello lirico a quello più popolare dai cupi toni drammatici, fino ad arrivare a quella sonorità delle ariette nelle quali egli tende a un superamento della forma stessa della canzone". Infine Vittorio Viviani scrive :"La produzione di S. Di Giacomo era tesa a perseguire soggettivamente quell'ideale che purifica e corregge mediante la forma il reale con una di tendenza verso l'infinito e l'universale".

Confronti Pianefforte 'e notte Nu pianefforte 'e notte sona luntanamente, e 'a museca se sente pe ll'aria suspirà. È ll'una: dorme 'o vico ncopp' a nonna nonna 'e nu mutivo antico 'e tanto tiempo fa. Dio, quanta stelle 'n cielo! Che luna! e c'aria doce! Quanto na della voce vurria sentì cantà! Ma sulitario e lento more 'o mutivo antico; se fa cchiù cupo 'o vico dint'a ll'oscurità.. Ll'anema mia surtanto rummane a sta fenesta. Aspetta ancora. E resta, ncantannese, a pensà Confronti E’interessante fare uno studio comparativo fra l'opera poetica digiacomiana e quella di alcuni poeti europei dello stesso periodo. C'é, per esempio, una singolare affinità fra le " Ariette e sunette " del poeta napoletano e le " Arias tristes " di Juan Jimenez. In molti casi le Ariette hanno in comune con le Arias i bellissimi settenari della metrica e, talvolta, temi ed immagin: " Y sonarà ese piano/ como en esta noche placida/ yo no tendrà quien lo escuche/ pensativo, en mi ventana./ Viene una musica, languida/ no sé de donde, en el aire ". ( E suonerà quel piano/ come in questa notte placida/ e non avrà chi lo ascolti/ pensoso, alla mia finestra/ Viene una musica languida, non so da dove, nell'aria ).

FINE