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PubblicatoEmilia Federici Modificato 9 anni fa
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DIONISO Un dio “epidemico” Alessandro Marocco Andrea Scarpelli
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Nel pantheon ellenico, Dioniso è di certo la divinità più affascinante e al contempo sfuggente che si possa incontrare. Amico intimo e peggior nemico, amante appassionato e assassino spietato, Dioniso ha affascinato poeti e filosofi di ogni epoca, e il suo culto è stato uno dei più sentiti della Grecia antica.
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La Nascita, infanzia e la giovinezza del dio Esistono numerose versioni sulla nascita di Dioniso, la più nota è quella che lo presenta come figlio di Zeus e di Semele, donna mortale, figlia del re di Tebe Cadmo. Zeus in un primo tempo frequenta la fanciulla sotto spoglie mortali e con lei concepisce un figlio. La donna però insiste perché il dio gli mostri la sua vera natura. Zeus sa benissimo che l’apparizione di un dio con le sue vere sembianze avrebbe un effetto fatale per un mortale, ma dopo ripetute suppliche acconsente a mostrarsi. La donna, folgorata, muore, ma Zeus riesce a salvare l’embrione di Dioniso, frutto del suo amore con Semele, e a proteggerlo alle insidie della gelosissima Era. Si pratica un’incisione nella coscia e vi nasconde il piccolo per custodirvelo fino al giorno della sua nascita. Il piccolo già presenta alcune sfaccettature della proverbiale doppiezza: è figlio di un dio e di una mortale, quindi contiene in sé una componente mortale ed una ultraterrena, e ha passato il tempo prima della sua nascita in parte nel ventre del padre e in parte nel ventre della madre e in parte nella coscia del padre.
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Il dio della doppiezza “Dioniso è sempre in bilico tra l’umano e l’oltreumano, con le contraddizioni sconcertanti della sua natura: è benevolo e ridente e nel contempo ironicamente crudele, capace di uccidere in modo efferato con la leggerezza e la giocosità di un bambino. (…) E’ il fantasma contro cui il re Penteo combatte e che crede di avere soggiogato, peraltro inutilmente. E’ vinto e vincitore, stretto in catene e condotto in carcere, e un momento dopo potenza distruttrice che abbatte il palazzo reale e libera nuovamente la furia invasata delle sue Baccanti.” Filippo Maria Pontani – Introduzione alle “Baccanti”, 1977
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Il dio “epidemico” Quando Dioniso fa il suo ingresso in una comunità a lui sconosciuta, immediatamente il suo culto dilaga a macchia d’olio, contagiando persone di ogni estrazione sociale, proprio come una malattia contagiosa. Perciò viene definito “Dio epidermico” ( Marcel Detienne - “Dioniso a cielo aperto”, Bari 1987) Una delle ragioni del suo successo sta proprio nell’atipicità del suo rapporto con ogni persona dedita alla sua venerazione, un rapporto intimo, complice, strettamente personale, che nello stesso tempo lo rende sfuggente, mai pienamente afferrabile. Sarebbe semplicistico definirlo al pari di altre divinità greche come Ares o Afrodite: Dioniso è: “ Contemporaneamente in tutte e in nessuna, presente e assente nello stesso istante” ( Jean-Pierre Vernant “L’universo, gli dei, gli uomini” - Milano 2000)
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Lo scontro con il potere costituito “Ah no, il figlio di Driante, il forte Licurgo non visse a lungo, egli che combattè con numi celesti; egli che le nutrici di Bacco delirio un giorno su per il sacro Niseo rincorse; e tutte a terra gettarono i tirsi, dal sanguinario Licurgo sospinte a furia dal pungolo; e spaventato Dioniso nei flutti del mare si immerse, Teti l’accolse in seno, atterrito; violento tremore lo prese alle grida dell’uomo. Ma si adirarono contro di lui gli dei che vivono giocondi, e cieco il figlio di Crono lo rese, né a lungo visse poiché era in odio a tutti i numi immortali” ( Omero “Iliade”, VI, 130-140) “Dopo che Dioniso scoprì la vite, Era gli gettò addosso la follia, e così andò vagando per l'Egitto e per la Siria. Il primo ad accoglierlo fu Proteo, re dell'Egitto; poi Dioniso arrivò a Cibela, in Frigia, dove Rea lo purificò, gli insegnò i riti di iniziazione, e gli diede il vestito; quindi attraversò la Tracia e si diresse in India. Licurgo, il figlio di Driante, re degli Edoni che abitano lungo il fiume Strimone, fu il primo a oltraggiare Dioniso e a cacciarlo fuori dal paese. Dioniso allora si rifugiò nel mare, presso Tetide, figlia di Nereo; ma le sue Baccanti vennero fatte prigioniere, insieme allo stuolo di Satiri del suo corteggio. Subito le Baccanti vennero liberate, e in Licurgo Dioniso in stillò la follia. Completamente pazzo, Licurgo, convinto di troncare un tralcio di vite, colpì con la scure suo figlio Driante, e lo uccise. Gli aveva già tagliato tutte le estremità, quando ritrovò la ragione. Tutto il paese divenne sterile, e il Dio profetizzò che la terra avrebbe di nuovo dato frutto solo se Licurgo fosse stato messo a morte. Sentito questo, gli Edoni lo portarono sul monte Pangeo e lo legarono, e poi, per volontà di Dioniso, fu fatto a pezzi dai cavalli.” ( Apollodoro “Biblioteca”, III, 51)
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Lo scontro con il potere costituito “Suol di Tebe, a te giungo. Io son Dïòniso, generato da Giove, e da Semèle figlia diCadmo, a cui disciolse il grembo del folgore la fiamma. (…) E l'urlo eccitatore in Tebe, prima che in ogni altra città d'Ellade, alzai, e le addossai del daino il vello, e in pugno le posi il tirso, il giavellotto d'ellera, perché le suore di mia madre, quelle che meno lo dovean, disser che mai figlio non fu Dïòniso di Giove, e che Semèle, da un mortale incinta, a Giove attribuita avea la colpa, per consiglio di Cadmo: onde l'Iddio per le nozze mentite a lei die' morte. Però fuor dalle case io le cacciai in preda alla follia. Prive di senno han per dimora il monte; e le costrinsi ad indossar dell'orge mie le spoglie. E quante donne ha la città di Cadmo, fuor dalle case, a delirare, io spinsi; e donne insieme e giovinette corrono a ciel sereno sotto i verdi abeti. Voglia o non voglia, deve Tebe intendere che priva è ancor dei riti miei, che deve me per mia madre celebrar, ch'io sono figlio di Giove, e Nume apparvi agli uomini. Cadmo il regio poter diede a Pènteo che di sua figlia nacque, e ch'ora lotta contro la mia divinità, m'esclude dai sacrifici, e nelle preci oblia. Dunque, a lui mostrerò che Nume io sono, ed a tutti i Tebani. E stabilite qui tali cose, il piede volgerò ad altra terra, a rivelarmi. E se Tebe, salita in ira, le Baccanti tenti dal monte discacciar con l'armi, contro essa a pugna io guiderò le Mènadi.” ( Euripide “Baccanti” vv 1-110)
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In entrambi i casi il sistema di valori incarnato da Licurgo e da Penteo si contrappone a quello rivoluzionario di Dioniso e del dionisismo. I due sovrani sono il simbolo della familiarità con la propria terra, dotati di temperamento violento e intransigente, decisi a difendere il rigore dei costumi e la tradizione locale dalle spinte innovative provenienti dall’esterno, di cui Dioniso si fa rappresentante. Il dionisismo incarna infatti la sfera dell’irrazionale rappresentata dalla natura e dalla libera espressione delle pulsioni interiori; si oppone alla ragione e all’ordine, ossia i pilastri su cui si fonda la società delle poleis. Ma sarebbe scorretto vedere nel dionisismo una licenza dei sensi e, per così dire, una specie di “eretismo” afrodisiaco: “neppure in mezzo ad un’orgia una che è casta si corromperà” ( Euripide “Baccanti” vv. 317-318). Dioniso dunque non promette saggezza, ma neppure dissolutezza sfrenata, non forza la natura, ma piuttosto la spinge a manifestarsi nella sua originale e primitiva potenza.
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Chi sono le Baccanti? Le Baccanti, o Menadi, sono donne in preda alla frenesia estatica, invasate da Dioniso, che accompagnavano nei suoi viaggi e di cui costituiscono anche un reparto del suo esercito nel viaggio attraverso l’Asia. Segno particolari delle Baccanti è il Tirso ( bastone ricoperto di edera e pampini), le veste di animali e le corone d’edera. La predominante partecipazione femminile al culto dionisiaco può essere spiegata col carattere di estraneazione di quest’ultimo. Il delirio bacchico vede infatti la caduta delle barriere sociali che relegano la donna greca in un isolamento paragonabile a quello delle classe inferiori e degli schiavi. E’ profondo il legame tra Dioniso e il gentil sesso: dalla sua raffigurazione in forme androgine, alla sua infanzia trascorsa tra le donne e al travestimento come elemento culturale. Nelle “Baccanti”, Penteo viene indotto da Dioniso a travestirsi da donna per poter accedere al monte Citerone, dove le Baccanti stavano tenendo i loro riti. Sarebbe riduttivo spiegare la partecipazione delle donne ai rituali orgiastici dionisiaci solo col desiderio di evasione dagli obblighi sociali. Il rituale bacchico è infatti anche un’occasione di ritorno allo stato di natura e al ruolo della donna come procreatrice, un’esaltazione alla potenza materna che si ricollega al culto della Grande Madre, diffuso nella Grecia arcaica.
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Il ritorno di Dioniso a Tebe: una metafora del rifiuto del diverso Albero genealogico della dinastia di Tebe. Armonia + Cadmo Spartoi ( Ctoino, Udeo, Peloro, Iperenore, Echione) Zeus + Semele Agave + Echione DIONISOPENTEO
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Il ritorno di Dioniso a Tebe: una metafora del rifiuto del diverso Secondo Jean-Pierre Vernant, la vicenda narrata nelle “Baccanti” è una metafora dello scontro tra tradizione e innovazione, fra una società chiusa ed autarchica e le spinte innovative provenienti dall’esterno. Quando una società rifiuta di sforzarsi di capire il diverso e l’altro e di cambiare, quindi anche di mettersi in discussione, precipita inevitabilmente “nell’alterità assoluta, nell’orrore e nel mostruoso”. Sperimenta su di sé l’efferatezza del proprio comportamento, proprio come accade a Penteo, detentore della civiltà che muore in modo orribile e selvaggio. “ (Dioniso) a Tebe ha anche un culto, ha conquistato la città, non per cacciarne le atre divinità, non per imporre la sua religione contro le altre, ma perché nel cuore della città siano rappresentati, attraverso il suo tempio, le feste, e il suo culto, anche l’emarginato, il vagabondo, lo straniero, il senza legge. Come se nella misura in cui un gruppo umano rifiuta di riconoscere l’altro, di fargli spazio, fosse questo gruppo a diventare mostruosamente l’altro.”
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Euripide e il Dionisismo Penteo: Hai tutto quello che occorre a un sapiente, e che sapiente! Solo che non lo sei quando dovresti. Dioniso: E’ proprio allora che la mia natura mi rivela il sapiente. Alcuni studiosi hanno avanzato l’ipotesi che Euripide, prima della stesura delle Baccanti, abbia subito il fascino dell’ebbrezza dionisiaca, intravedendovi la via di una insaniens sapientia, ossia una saggezza mediata dal furore e dall’ebrezza. L’uomo in fondo non sa quel che fa, chi è, dove va, e che senso ha la sua vita. E’ dunque inutile, oltre che empio pretendere di esercitare un dominio razionale della realtà, dato che la mente umana non ne sarebbe in grado. La trama dunque è una sottile polemica contro i sofismi e l’indagine. Meglio dunque assistere ai misteri e all’ebbrezza, scoprendo così segreti inaccessibili alle menti profane e razionalistiche e quietando per sempre il desiderio di capire i segreti dell’uomo e di dio, in uno stato di estasi e contemplazione offerto proprio dal culto dionisiaco. ( Euripide “Baccanti”,Terzo episodio vv 185-189)
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Il mito di Ampelo e l’origine del vino Ampelo era un giovane di grande bellezza e coetaneo di Dioniso. Il dio si innamorò perdutamente del giovane e, gelosissimo, temeva costantemente per la sua vita. I due erano anche abili cacciatori. Ampelo, pur essendo abile a trattare con gli animali, viene messo in guardia dall’amato di temere le corna del toro. Infatti poco dopo mentre il giovane stava montando un toro, l’animale lo disarciona trafiggendolo, e scagliatolo contro una roccia, lo uccide. Riassunto da: Roberto Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, Milano 1997
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“Dioniso ritrovò Ampelo insanguinato nella polvere, ma ancora bello. I Sileni in circolo, cominciarono il lamento. Ma Dioniso non poteva unirsi a loro. La sua natura non gli consentiva le lacrime. Pensava che avrebbe potuto seguire Ampelo nell’Ade, perché era immortale: si riprometteva di uccidere col tirso l’intera stirpe dei tori. Eros, che aveva preso l’aspetto di un irsuto Sileno, gli si avvicinò per consolarlo. Gli disse che il pungolo di un amore poteva essere guarito solo col pungolo di un altro amore. Perciò guardasse altrove. Quando un fiore è reciso, il giardiniere ne pianta un altro. Eppure Dioniso, ora piangeva per Ampelo. Era il segno di un evento che avrebbe cambiato la sua natura e la natura del mondo. A quel punto le ore si affrettarono verso la casa di Helios. Si preannunciava una scena nuova sulla ruota celeste. Occorreva consultare le tavole di Armonia, dove la mano primordiale di Fanes aveva inciso, nella loro sequenza, gli eventi del mondo. Helios le indicò, affisse a una parete della sua casa. Le Ore guardarono la quarta tavola: c’era il Leone e la Vergine, e Ganimede con una coppa in mano. Lessero l’immagine: Ampelo sarebbe stato la vite. Colui che aveva portato il pianto al dio che non piange avrebbe portato anche delizia al mondo. Allora Dioniso si riebbe. Quando l’uva, nata dal corpo di Ampelo, fu matura, staccò i primi grappoli, li spremette con dolcezza fra le mani con un gesto che sembrava conoscere da sempre e si guardò le dita macchiate di rosso. Poi le leccò. Pensava: Ampelo, la tua fine prova lo splendore del tuo corpo. Anche morto, non hai perso il tuo colore rosato. Nessun altro dio, non certo Atena col suo sobrio ulivo, e neppure Demetra col suo pane corroborante, avevano il loro potere qualcosa che si avvicinasse a quel liquore. Era appunto ciò che mancava alla vita, che la vita aspettava: L’ebbrezza.” Il mito di Ampelo e l’origine del vino Così Roberto Calasso racconta come dal corpo esanime di Ampelo nacque la vite:
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