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PubblicatoAndrea Martino Modificato 8 anni fa
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Il Signore è il mio pastore». Forse questo è il salmo più famoso del salterio, cantato innumerevoli voli e nelle nostre celebrazioni, citato anche in libri e film, perché stupendo nella sua valenza letteraria e poetica, oltre che ricco di colorazioni teologiche e bibliche. È un salmo di fiducia in cui il salmista contempla l’agire di Dio nella sua vita con due quadretti soavi: un pastore che custodisce il suo gregge e un ospite che offre un banchetto.
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È un salmo applicato tra alla vita sacramentale: al battesimo, con il riferimento alle ‘acque tranquille’, sicure, cui il pastore conduce; e all’eucaristia, banchetto messianico in cui il Signore dona se stesso. Il credente, insieme al salmista, sa di essere custodito e guidato dal suo Signore; sa di trovare rifugio e sicurezza, cibo e calore nell’amore del suo Creatore: per questo non teme le valli oscure delle prove o l’assalto dei nemici, del tentatore che vuole rapirlo dal suo Dio.
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L’immagine del pastore è cara alla tradizione biblica: un popolo nomade come quello degli Ebrei, aveva ben chiara questa figura e Dio stesso nei profeti era spesso presentato come un pastore premuroso (cfr Is 40,11: «Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul seno e conduce pian piano le pecore madri».
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Gesù Cristo prenderà spunto da questa simbologia per parlare del suo ruolo di Buon Pastore che dà la vita perle pecore, che non sfrutta il gregge ma lo cura per condurlo all’ovile del Padre (cfr Gv 10). Pregando questo salmo siamo invitati a gustare nel cammino della nostra vita terrena la tenerezza di Dio per noi: raccontando al nostro cuore le opere della sua grazia, fatta di sollecitudine e di dolcezza, sapremo trovare conforto nelle avversità che ci possono essere lungo il tragitto che conduce all’ovile eterno.
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