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PubblicatoMatteo Simonetti Modificato 8 anni fa
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Autonomia e subordinazione
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Sin dalle origini il diritto del lavoro accorda tutela al lavoratore subordinato, ovvero a “chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell'impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore” (art. 2094 c.c.). Sotto il profilo semantico, la subordinazione evoca lo status di inferiorità e debolezza nel quale versa il prestatore di lavoro che è costretto ad alienare le proprie energie psico-fisiche ad un datore di lavoro che ne dispone secondo il proprio interesse. Ciò giustifica l’intervento del legislatore a tutela del contraente debole. Nell’evoluzione del diritto del lavoro la questione della subordinazione è sempre stata centrale, perché riguarda la ragion d’essere del diritto del lavoro ed individua l’ambito di applicazione della legislazione di protezione del contraente debole che dà senso e sostanza a questa disciplina giuridica.
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L’elaborazione giuridica della subordinazione è relativamente recente. In mancanza di una definizione legislativa, alla fine dell’Ottocento, dottrina e giurisprudenza si limitarono a richiamare la distinzione tra locatio operarum (lavoro subordinato) e locatio operis (lavoro autonomo). Locatio operarum – Il lavoratore-locatore offre il godimento delle opere prestate continuativamente al conduttore–imprenditore. Tale continuità si identifica nella messa a disposizione delle energie, e quindi dell’attività lavorativa, da parte del lavoratore. Locatio operis – Il lavoratore si obbliga al compimento dell’opera pattuita (cosa materiale o servizio) indipendentemente dalle energie lavorative impiegate.
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La nozione di subordinazione: il contributo della dottrina Barassi individua il nucleo della subordinazione nel concetto di etero-direzione, ovvero il potere del datore di lavoro di modificare unilateralmente il contenuto del contratto (potere direttivo). Francesco Santoro Passarelli evidenzia la necessità di assegnare il giusto rilievo all’“implicazione personale” del lavoratore nell’organizzazione produttiva del datore di lavoro. Giuseppe Federico Mancini attribuisce rilevanza all’organizzazione qualificandola come specificazione da parte del datore di lavoro degli obblighi inerenti al rapporto. Il risultato dell’organizzazione dipende dal datore di lavoro ed è pertanto estraneo all’obbligazione che sorge in capo al lavoratore. Mattia Persiani ritiene la funzione propria del contratto di lavoro subordinato sia l’organizzazione. Il datore di lavoro utilizza la collaborazione del lavoratore per soddisfare l’interesse all’organizzazione del lavoro e, quindi, alla produzione.
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Per Mengoni, ciò che caratterizza la subordinazione tipica del rapporto di lavoro è l’alienità del risultato (esclusiva destinazione ad altri del risultato in vista del quale la prestazione lavorativa viene utilizzata) e l’alienità dell’organizzazione produttiva in cui la prestazione lavorativa si inserisce. All’interno della corrente attenta al metodo di qualificazione che deve essere adottato dal giudice si distinguono due metodi: Sussuntivo: un rapporto può qualificarsi come subordinato solo se la fattispecie concreta risulta perfettamente riconducibile alla fattispecie astratta descritta dalla legge. Tipologico (*): ai fini della qualificazione in termini di subordinazione, è sufficiente che la fattispecie concreta assomigli alla fattispecie astratta, senza richiederne l’assoluta coincidenza. (*) Quest’ultimo ritenuto più adatto ad assecondare le istanze espansive del lavoro subordinato.
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La nozione di subordinazione: il contributo della giurisprudenza La giurisprudenza ha contribuito all’affermazione del principio secondo il quale “ogni attività economicamente rilevante può essere svolta sia in forma autonoma che subordinata”, elaborando una serie di indici sussidiari rispetto all’eterodirezione: inserimento nell’organizzazione continuità della prestazione collaborazione vincolo di orario alienità del risultato e dei mezzi di produzione retribuzione fissa assenza di rischio di risultato volontà delle parti NB. Si tratta di indici esterni rispetto al contenuto dell’obbligazione di lavoro, ma pur sempre idonei a compensare un’eventuale attenuazione dell’eterodirezione nel concreto svolgimento della prestazione lavorativa.
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Il lavoro autonomo Tradizionalmente il lavoro autonomo ha rappresentato l’unica categoria veramente alternativa al lavoro dipendente. In essa vi confluiscono tutte le prestazioni lavorative in cui “una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente” (art. 2222 c.c.). Per lungo tempo il legislatore, se si esclude la tutela previdenziale, non ha ritenuto necessario accordare al lavoro autonomo l’apparato di garanzie del lavoro subordinato, considerando sufficiente la disciplina contenuta nel Codice civile relativa al contratto d’opera (artt. 2222 c.c. e ss.). Tuttavia, la radicale trasformazione dei sistemi di produzione ha determinato una graduale emersione di modelli di collaborazione all’impresa che, seppur profondamente differenti dal prototipo standard di lavoratore subordinato, sono comunque funzionali alla realizzazione dell’interesse dell’impresa.
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Il lavoro autonomo parasubordinato Alla crisi della distinzione tra lavoro autonomo e subordinato si aggiunge la progressiva affermazione di una nuova categoria, la parasubordinazione, nella quale far confluire tutte le posizioni di quanti, pur collaborando all’impresa con attività “prevalentemente personale” (art. 2222 c.c.), non attingono alle stesse tutele riconosciute ai lavoratori subordinati. La graduale emersione di forme di lavoro autonome che comportano un’integrazione tra prestazione lavorativa e organizzazione aziendale tale da attenuare l’assoggettamento al potere datoriale, ha determinato la crisi della distinzione tra lavoro autonomo e subordinato e la progressiva affermazione di una nuova categoria, la parasubordinazione, nella quale far confluire tutte le posizioni di quanti, pur collaborando all’impresa con attività “prevalentemente personale” (art. 2222 c.c.), non attingono alle stesse tutele riconosciute ai lavoratori subordinati.
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Il lavoro autonomo parasubordinato Sul presupposto che, in assenza di un vincolo di subordinazione, la condizione di inferiorità economica rispetto all’imprenditore sia attenuata, se non addirittura eliminata, per lungo tempo il legislatore non ha ritenuto necessario accordare al lavoro autonomo l’apparato di garanzie del lavoro subordinato. Per un primo timido riconoscimento normativo di questi nuovi modelli di collaborazione, occorrerà attendere la legge n. 533 del 1973 che, riformando il processo del lavoro, ha novellato l’art. 409 c.p.c. ed ha esteso l’applicazione del rito del lavoro anche alle controversie relative a “rapporti di agenzia, di rappresentanza commerciale ed altri rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata, anche se non a carattere subordinato”.
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Il lavoro autonomo parasubordinato Solo verso la metà degli anni novanta del secolo scorso, anche in considerazione del crescente ricorso a forme di lavoro parasubordinato, il legislatore ha previsto per questi rapporti una specifica tutela previdenziale istituendo un’apposita gestione dell’INPS (cd. gestione separata) (art. 2, commi 26-31, legge n. 223 del 1995).
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