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PubblicatoMarilena Colombo Modificato 8 anni fa
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Lo straordinario percorso del pensiero moderno: valori e contraddizioni Anno Accademico 2013-2014 A cura del Prof. Renato Pilutti
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…heri dicebamus Ci siamo lasciati lo scorso anno con un impegno, quello di legare con attenzione gli spunti straordinari del tardo Rinascimento, la ricerca di una capacità tutta umana di comprendere le cose del mondo, la vita e il destino dell’uomo stesso, alla Rivoluzione filosofica e scientifica che si stava manifestando e sviluppando. Possiamo dire che da Copernico in poi (XV sec.) nulla è stato più come prima. La vittima più illustre del passato (che stentava a passare del tutto) è stata l’ultimo autore studiato nel precedente Anno Accademico, Giordano Bruno, ucciso dall’Inquisizione romana ai primi del 1600 (il 17 febbraio).
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Lo scetticismo tra XV e XVI secc. Le certezze del sapere tradizionale erano dunque messe in questione da un recupero della posizione scettica, che aveva avuto illustri rappresentanti anche nell’antichità, come Pirrone di Elide (360-270 a. C.) e Sesto Empirico (II-III sec. d. C.). Le grandi scuole platonica e aristotelica subivano dunque, si può dire, l’attacco delle nuove scienze empiriche e insieme quello di un pensiero complesso, intriso di fideismo, magia, dottrine alchemiche e astrologiche.
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Michel de Montaigne (1533-1592) Nato nei pressi di Bergerac, Michel, conte di Montaigne, viene educato secondo i migliori principi dell’umanesimo letterario e filosofico. Studia diritto avviandosi a una carriera politica che lo vede anche sindaco di Bordeaux. Diplomatico eccellente, amico di Enrico IV di Navarra, ma soprattutto pensoso ricercatore. Nel 1580 pubblica la prima edizione dei Saggi, per cui è giustamente famoso.
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Il pensiero Per questo autore, così interessante anche per i nostri tempi, lo scetticismo è da considerare un metodo conoscitivo adatto alla diversità degli spiriti, cioè delle menti umane. Egli confronta volentieri e con cura le tradizioni della grande cultura europea con i reportages dei primi grandi viaggiatori sui cosiddetti “popoli selvaggi”, e riscontra differenze radicali, che oggi definiremmo etnico-antropologiche. Da ciò trae la convinzione fondamentale che non possano darsi certezze assolute sui temi conoscitivi ed etici.
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Scetticismo e fideismo Se dunque il pensiero umano può essere così diversificato, solo Dio può dare al pensiero stesso quella logicità e veridicità necessaria a conoscere la verità delle varie realtà. In qualche modo, dunque, in Montaigne troviamo correlati lo scetticismo con una sorta di fideismo. In realtà il lascito di Montaigne, validissimo anche ai giorni nostri è un monito costante e sistematico contro ogni forma di dogmatismo, fanatismo e fondamentalismo. Quanto utile risulta il pensiero di Montaigne oggi, in una fase dove, accanto a straordinarie scoperte scientifiche, si mantengono atteggiamenti incapaci di ascoltare e di comprendere chi è diverso da noi!
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Francis Bacon (1561-1626) Francis Bacon, primo barone di Verulamio e visconte di St. Albans, figlio di Lord Nicholas Bacon, guardasigilli di Elisabetta I, studia diritto e filosofia al Trinity College di Cambridge. La sua vita è intensissima, e contribuisce, nell’Inghilterra delle scoperte geografiche e dei viaggi, della prima rivoluzione economica e mercantile, allo svecchiamento della vecchia cultura tradizionale, in favore di una ricerca sperimentale e pratica.
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Il pensiero Specialmente nelle opere Sul progresso del sapere umano e divino, e successivamente nel Novum organum e nel De dignitate et augmentis scientiarum, Bacon cerca di mostrare come ormai il sapere teoretico tradizionale, specialmente aristotelico, sia inadeguato ad esplorare la complessità e misteriosità della natura, per cui occorra un nuovo approccio (Novum organum). Altrettanto, Bacon se la prende con le scienze-non scienze approssimative come l’alchimia, l’astrologia e la magia tornate di moda negli ultimi due tre secoli in tutta Europa.
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La Nova Instauratio Un vera riforma del sapere, per Francis Bacon, può avvenire solo se si passa dalla teoresi logico-deduttiva dei sillogismi al metodo induttivo, per cui si cerca di capire come funziona la natura per via sperimentale. Egli vuole costituire una Nova Instauratio del sapere attraverso l’empiria e la dimostrazione pratica dei fenomeni naturali. Denuncia perciò una serie di pregiudizi che chiama “idoli”: ne individua quattro: gli idoli della tribù, gli idoli della spelonca, gli idoli del foro e gli idoli del teatro.
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Il superamento degli “idoli” Bacon sostiene che bisogna liberarsi da questi fantasmi- idoli. In che modo? Non credendo più che: a) l’uomo sia misura di tutte le cose, b) il singolo possieda la capacità soggettiva di comprendere le cose, c) il linguaggio e le relazioni non siano ingannevoli, d) le tradizioni filosofiche siano veritiere. Bacon crea, dunque, le premesse per un cambiamento molto radicale nel rapporto con la conoscenza, anche se non privo di ambiguità e di utilizzo di ”prestiti” argomentativi e concettuali della tradizione aristotelico- scolastica (vedi dottrina delle “forme”).
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L’induzione come metodo Per Bacon la conoscenza della natura avviene per induzione, che coglie la forma della natura che evolve e che predispone ad ulteriori evoluzioni. Potremmo dire che Bacon è un eracliteo bisognoso di Aristotele, anche se non lo ammette esplicitamente. Infatti, che cosa sono le “tavole”, cioè gli ordinamenti sistematici dei gradi della ricerca se non un’esigenza di classificazione, ancorché non ben definita? Anche Aristotele poneva l’esigenza di sistemare i vari gradi della realtà nelle categorie, o no?
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La storia naturale e sperimentale Per il conte di Verulamio occorre costruire una storia naturale e sperimentale. Essa deve essere strutturata secondo le tre facoltà dell’uomo: - la memoria, cui corrisponde la storia, - l’immaginazione, cui corrisponde la poesia, - la ragione, cui corrisponde la filosofia (a sua volta suddivisa in teologia, scienze della natura e scienze dell’uomo: fisica, metafisica, meccanica, magia (sic!), etc.. Bacon, noto per essere considerato l‘iniziatore del metodo scientifico, in realtà lo è certamente, ma di più nello spirito con cui operò, poiché altri lo furono molto più di lui, come il nostro Galileo, che stiamo per incontrare.
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Galileo Galilei (1564-1642) Una biografia articolata e faticosa quella del nostro immenso Galileo Galilei. A 21 anni lascia l’università di Pisa senza conseguire titoli accademici in arte e medicina, ma inizia lo studio delle matematiche con Ostilio Ricci, allievo di Nicolò Tartaglia. Nel 1589 gli affidano la cattedra di matematica a Pisa dove si dedica alla stesura del De motu. Nel 1592 si trasferisce all’università di Padova dove rimane fino al 1610, meglio trattato e considerato, e in quegli anni sviluppa studi di meccanica, ingegneria e matematica.
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Il Sidereus Nuncius Tra il 1592 e l’anno successivo scrive di architettura militare e fortificazioni e il trattato Le mecaniche. In quegli anni abbraccia definitivamente la teoria copernicana, scrivendo un Trattato sulla sfera e Operazioni del compasso geometrico e militare. Nel 1610 inizia la redazione del Sidereus nuncius, dove espone la scoperta dei quattro satelliti di Giove. In quell’anno torna a Pisa come matematico e fisico del granduca di Toscana e pubblica nel 1612 un Discorso sulle cose che stanno in su l’acqua e l’Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari nel 1613. subisce le prime denunce: è il padre Niccolò Lorini che tuona dal pulpito contro di lui dal monastero domenicano di San Marco (ahi ahi!). Nel 1615 lo stesso frate lo denunzia al Sant’Uffizio.
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Il Saggiatore Nel 1616 Galileo scrive la famosa lettera alla granduchessa Cristina di Lorena dove dice che “la scienza non insegna come si vadia in cielo, ma come vadia il cielo”. Siamo nel cuore della polemica scienza-teologia-fede. Il cardinale Bellarmino lo convoca a Roma intimandogli di abbandonare l’eliocentrismo. Galileo non prende una posizione netta, ma il Bellarmino non è proprio un fanatico. Nel 1623 pubblica Il Saggiatore e nel 1630 il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. Nel 1632 il libro viene sequestrato e Galileo convocato a Roma dall’Inquisizione.
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I Discorsi e Dimostrazioni matematiche Nel 1633 il processo si conclude con l’abiura di Galileo dalla teoria copernicana e la sua condanna al carcere, dopo pochi mesi tramutata in domicilio coatto, prima presso l’arcivescovo di Siena e poi presso la sua casa di Arcetri. Ivi lavora ai Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, che viene pubblicato con il suo consenso a Leyden nel 1638. Muore completamente cieco nella sua casa l’8 gennaio 1643. I suoi libri saranno resi fruibili dall’Indice dei libri proibiti solo nel 1757.
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La formazione Fondamentali sono stati gli studi delle opere di Euclide e Archimede. Si tratta di un incontro tra le antiche tradizioni scientifiche e la ricerca della nuova scienza. Un’attività molteplice che, in realtà, converge verso un solo obiettivo: la verifica e la critica sistematica dei postulati della scienza naturale del suo tempo sulla base di una nuova formulazione dell’idea di natura e dell’idea di esperienza. Una formazione dunque teorica e pratica molto composita, nello stile dei tempi rinascimentali, curiosi ed entusiasti dell’uomo e del mondo. L’invenzione del cannocchiale, falsamente attribuita a Galileo, ne è un po’ il simbolo.
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La scienza e la fede Per Galileo natura e Sacra scrittura procedono entrambe da Dio, e perciò hanno un significato importantissimo e complementare: se la Natura è “osservantissima esecutrice de gli ordini di Dio”, la Scrittura è “dettatura dello Spirito Santo”. Per ciò esse non sono in contrasto come lex naturae e lex divina: vanno solo applicate a due ambiti diversi, il primo nello studio del mondo, e il secondo nell’applicazione dei principi morali e della relazione dell’uomo con Dio e tra tutti gli uomini.
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Il “libro della natura” Il libro della natura, per Galileo, è un libro a caratteri matematici, dove i triangoli e le altre figure geometriche rappresentano il suo linguaggio, la sua grammatica. Nel Saggiatore Galileo spiega come i corpi siano conoscibili nelle loro qualità oggettive tramite il linguaggio matematico e geometrico, nella loro estensione, figura e moto. Le altre qualità dei corpi, invece, come il sapore, l’odore, il colore e il suono sono conoscibili solo tramite la relazione soggettiva con l’uomo, cioè con l’individuo conoscente. La natura quindi, per Galileo, è conoscibile solo mediante le sue manifestazioni fenomeniche, che son misurabili matematicamente, là dove si realizza il punto mediano tra la realtà oggettiva delle cose e la conoscenza soggettiva degli uomini. Cambia così la gnoseologia classica in una nuova filosofia della scienza.
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Il copernicanesimo e la struttura del mondo Dopo avere messo in questione in maniera radicale l’epistemologia aristotelica, Galileo, nell’ambito delle dottrine fisiche e astronomiche, si muove sulla strada di un radicale copernicanesimo. Dal 1616, pur ammonito dal cardinale Bellarmino di proporre l’eliocentrismo solo come ipotesi fisico- matematica, Galileo non demorde e propone il testo fondamentale Dialogo sopra i due massimi sistemi tolemaico e copernicano. In realtà Galileo anche su questo terreno confuta totalmente il sistema aristotelico-tolemaico, affermando che le leggi del mondo fisico sono le stesse, sia sulla terra, sia nei corpi celesti.
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I nuovi progressi della fisica Dopo la condanna del 1633, Galilei, pur se isolato e sconfitto, scrive il suo capolavoro, i Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze. In tale opera ribadisce come la descrizione matematica riesca a spiegare le ragioni e le leggi che governano il moto dei gravi (pesanti o leggeri che siano), mediante il principio di inerzia, senza presupporre alcuna finalità al moto stesso, né alcuna tendenza a ricomporre traiettorie, se non per l’intervento di vettori causali esterni.
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Thomas Hobbes (1588-1679) Nato a Malmesbury, Thomas Hobbes studia a Oxford conseguendo il Bachelor of arts, e diventa subito precettore in casa del barone Cavendish, conte di Devonshire. Va in Francia con il figlio di questi, William, cominciando la pubblicazione delle sue prime opere. Successivamente è precettore del figlio di Sir Gervase Clifton, con il quale va in Francia e Germania. In Italia incontra e conosce Galilei, dopo di che pubblica Elementi di legge naturale e politica, ma fugge in Francia timoroso dei disordini inglesi. A Parigi compone le Obbiezioni alle Meditazioni cartesiane, finché nel 1651, tornato in Inghilterra riconciliato con Oliver Cromwell, compone The Leviathan, il suo capolavoro. Dopo aver pubblicato in tarda età il Decameron physiologicum, muore più che novantenne a Hardwicke.
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Meccanicismo e materialismo Con Hobbes si crea un collegamento forte, da un lato con la lezione di Francis Bacon e dall’altra con la cultura continentale europea del tempo: materialismo meccanicistico, dottrina della sensazione, teoria del moto, convenzionalismo delle scienze, concezione del diritto di natura e della sovranità, sono i capisaldi delle teorie hobbesiane. Per Hobbes tutto la filosofia naturale deriva dalla nozione di corpo e di moto, che si danno nello spazio e nel tempo; ma è soprattutto il moto la causa principale di ogni modificazione ed evoluzione: moto come luogo dell’incontro dei corpi fisici e delle stesse passioni umane. Contro Cartesio Hobbes sostiene l’identità dei processi fisico- materiali con quelli spirituali. Sentire e pensare sono lo stesso processo (!).
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La teoria della conoscenza La teoria della conoscenza (gnoseologia) di Hobbes si fonda conseguentemente sul senso, cioè sulla pressione che i corpi fisici esercitano sul soggetto conoscente (l’uomo): attraverso l’organo di senso, i nervi, il moto si trasmette al cervello, cosicché lì si forma l’immagine della cosa conosciuta, il cui ripetersi dà luogo alla memoria. Anche le alterazioni qualitative delle sensazioni (colori, sapori, odori, suoni, etc.), secondo Hobbes, sono dovute al riflesso sensoriale esercitato dalla cosa esterna sull’uomo conoscente, non possedendo, di per sé, alcuna reale esistenza. Ciò che conta nella conoscenza è dunque la pura esperienza. Hobbes è il caposcuola dell’empirismo.
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Il linguaggio e la scienza Per Hobbes il linguaggio è mera convenzione. Il nome delle cose non presuppone che dietro vi sia una realtà corrispondente. La natura ha un linguaggio diverso dalla scienza: non corrisponde mai a una descrizione razionale-mentale. Hobbes è dunque fautore di un rigido nominalismo: troviamo qualche autore studiato nel precedente Anno accademico, cui si potrebbe riferire? Forse Occam? Un nominalismo che, nutrendosi di un rigido empirismo materalistico, si pone come sapere completamente deduttivo, mentre la natura pone sempre problemi induttivi. In questo ambito ogni aspetto filosofico è estraneo alla dimensione teologica e teologale.
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La morale e la politica La morale umana si fonda, per Hobbes, sullo studio delle passioni: il suo punto di riferimento è senz’altro Epicuro (che abbiamo studiato nel primo Anno accademico): l’uomo tende all’autoconservazione, e pertanto deve seguire i moti che gli danno soddisfazione, ma sempre con la misura della razionalità, senza mai esagerare. L’altro aspetto che Hobbes sottolinea è la non-naturale- amicizia tra gli uomini: se per Aristotele l’uomo è animal rationale et politicus, e quindi socievole, per Hobbes l’uomo è lupus homini. Nello stato di natura vi è l’egoistica ricerca del proprio bene, cui l’uomo cede, appunto, per natura, suscitando la lotta e perfino la guerra. L’unica soluzione è quella della politica, che sostituisce la guerra ad alcune condizioni.
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Il patto sociale e il sovrano Per rimediare alla sua natura, per Hobbes, l’uomo deve stipulare nelle varie comunità un patto sociale, nel quale vi è una rinunzia a parte della propria libertà personale, che è affidata al sovrano. Il sovrano diventa quindi depositario di ogni potere che gli è delegato dal singolo uomo, il quale accetta che la morale e la giustizia vengano definiti e gestiti monarchicamente e unilateralmente dal sovrano. In Hobbes possiamo dunque trovare le radici teoretiche dell’assolutismo successivo (Francia, Russia zarista, ma anche delle dittature moderneetc.).
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René Descartes (Cartesio) (1596-1650) Nato a La Haye in Turenna, René Descartes (Cartesius), studia dai gesuiti di La Flèche grammatica, retorica e filosofia. All’università di Poitiers consegue il titolo accademico in filosofia e diritto. Giovanissimo si unisce alle armate di Maurizio di Nassau in Olanda, spostandosi poi in Germania (Francoforte e Ulm). In quel periodo scrive il Compendium musicae e successivamente, tornato a Parigi, mentore cardinale Bérulle, redige il trattato Regulae ad directionem ingenii. Stabilitosi in Olanda nel 1629 (salvo qualche rientro a Parigi), si dedica a quelle che saranno le sue opere maggiori: nel 1637 esce il Discorso sul metodo, e nei dieci anni successivi i Principia philosophiae e Le passioni dell’anima, che suscitano non poche polemiche e condanne da parte di teologi (Gisbert Voet) e Università (Utrecht e Leyden). Muore in Svezia a 54 anni, ospite della regina Cristina.
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Una scienza “meravigliosa” Che cosa sia stata questa improvvisa scoperta della “scienza meravigliosa”, non ci è dato precisamente sapere. Cartesio si trovava nei pressi di Ulm nell’armata del principe Massimiliano di Baviera: allora si stava dedicando con passione alla matematica e alla geometria, cercando una specie di minimo comun denominatore per le varie scienze. Gli pareva allora di intuire che una sola “catena di ragioni” avrebbe potuto aprirgli la porta per un rinnovamento generale del sapere cui si sentiva fortemente portato.
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Le “regole” Le sue prime asserzioni “nuove” fecero breccia come “Regole”, che egli poi riprese nel Discorso sul metodo. Per Cartesio assume valore primario la regola dell’evidenza, per cui “ogni scienza è conoscenza certa ed evidente”. Dall’evidenza si procede in seguito con la deduzione: l’intuizione dell’evidenza procede dunque con il movimento continuo della deduzione delle cose messe ordinatamente tra loro in connessione. Questo è il metodo. La prima delle cose naturali semplici è il “cogito”, il pensare soggettivo che dà certezza sull’esistenza dell’io pensante e quindi di Dio stesso.
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Dio, le verità eterne e la fisica I Se esiste il “cogito”, esistono l’io e Dio, come res cogitans: il mondo esterno è invece res extensa. Queste sono verità create da Dio nella mente umana e perciò sono eterne e immutabili. Abbandonando completamente la fisica aristotelico-scolastica, Cartesio ipotizza tre leggi generali: - “Ogni parte della materia conserva sempre lo stesso stato fino a quando le altre urtandola non la costringano a cambiarlo”; - “Quando un corpo ne spinge un altro non può trasmettere o sottrarre a esso alcun movimento senza perderne o acquistarne nello stesso tempo una certa quantità; - “Quando un corpo si muove tende sempre a continuare il proprio movimento in linea retta”.
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Dio, le verità eterne e la fisica II Cartesio individua dunque la fondamentale legge dell’inerzia, essendo il movimento uno stato delle cose. Il mondo è quindi retto da leggi matematiche ed è caratterizzato, sia nelle cose terrestri, sia in quelle celesti, dagli stessi principi ordinatori (come in Galileo!). La struttura quantitativa delle particelle che costituiscono i corpi determinano la loro diversità, mentre gli aspetti qualitativi, come i colori, gli odori, i sapori e la temperatura sono soggettivi e dipendono dalle percezioni di ciascuno.
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La macchina del corpo Dopo avere trattato il tema del “Mondo”, senza pubblicare il testo, Descartes si occupa dell’Uomo. Applica però anch’esso il suo meccanicismo sistematico. L’uomo è dunque per lui una sorta di bio-macchina che funziona meravigliosamente perché tutti gli organi concorrono in perfetta sincronia ai suoi bisogni: tutto però dipende dal cervello che tramite il sistema nervoso ordina il movimento, sia quello autonomo, neurovegetativo, sia quello volontario. Al centro del cervello, per Descartes, è posta la “ghiandola pineale” (conarium), preposta alla percezione dai sensi esterni, punto di contatto tra la res extensa e la res cogitans, cioè il pensiero. Si tratta in realtà dell’epifisi, posta nell’epitalamo, preposta alla produzione di serotonina e centro del ritmo circadiano sonno-veglia.
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Il “Discorso sul metodo” I Il “Discorso sul metodo” è una sorta di prefazione ai trattati su la “Diottrica”, le “Meteore” e la “Geometria”. Il suo primo assunto è quello di mostrare come sia possibile unificare il carattere composito delle scienze trovando un “metodo” capace di procedere fattivamente nella ricerca di ciascuna disciplina, e indica quattro regole fondamentali: - evidenza: “non accogliere mai come vera nessuna cosa che non conoscessi con evidenza esser tale”; - analisi: “dividi ognuna delle difficoltà che tu esamini in tante particelle quanto fosse possibile e richiesto per meglio risolverle”;
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Il “Discorso sul metodo” II - sintesi: “conduci per ordine i tuoi pensieri cominciando dagli oggetti più semplici e più facili a conoscere, per ascendere a poco a poco come per gradi alla conoscenza dei più composti”; - enumerazione: “fai dappertutto delle enumerazioni così complete e delle revisioni così generali da essere certo di nulla omettere”. Vi è dunque una matematica universale (mathesis universalis) che regola tutto. Descartes modifica anche il linguaggio matematico algebrico, che è quello ancora oggi in uso: x, y, z, con gli esponenti numerici.
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La regola della morale provvisoria Descartes non scrisse mai un trattato di “Morale”. Le sue riflessioni rimasero a livello di abbozzo, tant’è che le chiamò come nel titolo, dando loro il connotato di “provvisorietà”. In queste individuò tre momenti o princìpi: 1. obbedire alle leggi vigenti e alle consuetudini morali e religiose (egli temeva forse il rischio “rivoluzionario” del suo pensiero filosofico), 2. essere risoluti nelle proprie azioni una volta intrapresa una linea guida e una decisione, 3. proporsi di vincere se stessi, piuttosto che la fortuna o la sorte, con una forma di autodisciplina (di origine stoica).
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Il dubbio Descartes si pose il problema della conoscibilità del reale, dell’accesso alla verità in modo sistematico, con quello che fu chiamato il dubbio metodico. Un dubbio che concerne innanzitutto la conoscenza sensoriale, ma anche quella legata alla ricerca scientifica e matematica. Cartesio non si accontenta di nulla di meno che dell’evidenza, per poter ammettere che qualcosa è vero. Il suo è una specie di scetticismo metodico. Perfino Dio avrebbe potuto aver ingannato l’uomo sulle verità matematiche, ma ciò non è ammissibile perché Dio non può volere ciò che è tipico di una specie di “genio maligno”, non della bontà assoluta.
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“Cogito, ergo sum” “Je pense, donc je suis”, una specie di sillogismo o di entimema logico, che sta per: 1) il pensante è, 2) io penso, 3) dunque sono: cogito, ergo sum. Una prima obiezione che potremmo fare è la seguente: allora, ciò che non pensa non è? Ovvero, vi può esserci qualcosa che non pensa? Ecco che siamo nella diuturna diatriba tra realisti- oggettivisti (Aristotele e Tommaso d’Aquino) e soggettivisti (Agostino e Descartes). Chi ha ragione? Si può dare una ragione che prevalga sull’altra?
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Dal “Cogito“ a Dio Descartes, per superare la querelle, ritiene che occorra un fondamento: questo fondamento non è altro che Dio stesso, come causa dell’idea massima, quella di infinito. Ciò che conosco dipende dunque dalle idee chiare e distinte che io -conoscendo- acquisisco: Dio è causa delle idee e anche causa del mio stesso essere. Se è vero che le idee derivano da Dio e che Dio è causa prima, anche della mia esistenza, Dio è causa sui, come essere perfettissimo, incausato e incondizionato, eterno e infinito.
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Dio e la verità Il dilemma che si pone è dunque se sia Dio il garante della verità delle cose, o se l’autocoscienza, in quanto capace di concepire idee chiare e distinte, sia il momento e il luogo nel quale abbiamo, come esseri umani, l’idea di Dio. Vi è prima di tutto, quindi, Dio e le realtà create oppure il “cogito”, che mi permette di avere evidenza di me e del mondo, come creature di Dio? Su questo, in Cartesio, permane una certa ambiguità di fondo, che gli è stata rimproverata, sia dai contemporanei, sia successivamente.
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Il mondo esterno Per Descartes il mondo esterno può essere conosciuto solo nella sua estensione e nel movimento, di cui danno evidenza le scienze matematiche e geometriche. Tutte le altre qualità delle cose, suoni, colori, odori, calore e freddo, sono sottoposti al giudizio soggettivo degli esseri umani, e pertanto non possono avere caratteristiche di oggettività. La conoscenza è dunque possibile tramite i principi della matematica e della geometria, che sono veri come Dio stesso.
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“Res cogitans “ e “res extensa” Si dà alla conoscenza dell’uomo una prima dimensione che è detta “res cogitans”, cioè spiritualità, psichismo e senso morale; e poi una seconda dimensione, che è detta “res extensa”, cioè il mondo fisico, compreso il corpo umano. Si accentua in questo modo un dualismo netto tra le due dimensioni che Descartes cerca di comporre con la teoria di strutture sottili -gli spiriti- che collegherebbero le due dimensioni, mediante movimenti sottili dei nervi.
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L’errore Per il nostro l’intelligenza umana non può sbagliare nella concezione dell’idea di una cosa, bensì nel giudizio che di essa può dare: pertanto la possibilità dell’errore risiede nel libero arbitrio, cioè nella volontà, che è limitata dal fatto che esistono le passioni o inclinazioni naturali: Nulla, perciò, che derivi dalla res cogitans, dal puro intelletto, può essere oggetto di errore. Descartes è stato un vero e proprio spartiacque nella storia del pensiero occidentale: con lui inizia con maggior nettezza una fase nella quale il soggetto pensante e agente è posto al centro della riflessione filosofica.
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Dopo Cartesio Nulla dopo questo pensatore è stato come prima in ambito filosofico. Cartesio trova nel suo tempo e dopo, sia sostenitori sia avversari: tra questi indubbiamente Malebranche e Pierre Gassendi, che non trova nel cartesianesimo un vero superamento della metafisica classica: Gassendi, invece, propone una sorta di ritorno all’epicureismo atomistico attraverso il sensismo, in definitiva lo sperimentalismo di una scienza che trae dall’empiria la propria epistemologia e anche il proprio linguaggio.
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Blaise Pascal (1623-1662) La formazione di Pascal è scientifica e filosofica. Studi di geometria e matematica caratterizzano i primi anni della sua crescita. Ben presto, però, il giovane Pascal non si fa bastare lo studio della natura attraverso le scienze del numero e si rende conto che la conoscenza non può essere data dal solo esprit de geometrie, cioè dalla possibilità del calcolo razionale: all’uomo, infatti, sfugge senza possibilità di raggiungerlo, Dio stesso e la nozione di infinito e di eterno.
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L’affidamento e la scommessa Solo l’esprit de finesse, l’intuizione, può dare all’uomo la possibilità di intuire che vi è una dimensione, quella divina, in grado di dare la risposta definitiva. La “scommessa su Dio” (Dio c’è, e così vi è anche la prospettiva dell’infinito) maturata negli ambienti del giansenismo di Port Royal, dà a Pascal quello spirito di ricerca mistica e spirituale, che lo colloca in una linea di superamento, sia nel neonato cartesianesimo, che per lui era troppo razionalista, sia della tradizione aristotelico-scolastica: Pascal recupera così il filone più autentico dell’agostinismo etico-filosofico.
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Baruch Spinoza (1632-1677) Ebreo di origine portoghese, Spinoza nasce a Amsterdam, dove studia l’Antico Testamento e il Talmud nelle scuole ebraiche. Allievo di Franciscus van den Enden, professa una libertà di pensiero tale da essere espulso dalla comunità ebraica. Nel 1660 lascia Amsterdam per Rijnsburg, nei pressi di Leyden, dove termina il Breve trattato su Dio, l’uomo e la sua felicità, iniziando poi il Tractatus de intellectus emendatione, rimasto incompiuto. Successivamente pubblica il Renati Des Cartes principiorum philosophiae, Pars I et II more geometrico demonstratae, insieme al Cogitata metaphysica. Un ultimo trasferimento, a Voorburg presso l’Aia, gli permette di attendere al fondamentale Ethica ordine geometrico demonstrata, e al Tractatus theologico-politicus. Muore all’Aia.
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La “sostanza” Se Cartesio separa per primo la dimensione del mondo dalla dimensione del pensiero, legandolo però all’autoconsapevolezza del soggetto, Spinoza fa un passo deciso in tutt’altra direzione: colloca la sua ontologia ed epistemologia su una posizione decisamente monista, nettamente contraria al dualismo cartesiano. Per Spinoza, tutto ciò che è in sé concepito per sé è sostanza, la quale è -appunto- comprensibile in sé e per sé: cioè è causa sui, esistendo necessariamente, poiché non può non esistere. Tale sostanza coincide con Dio stesso: Deus sive Natura.
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Gli attributi della sostanza Si capisce come una tale concezione creasse problema, non solo negli ambienti ebraici, ma anche in quelli cristiani. Dio, però, non coincide in assoluto con la natura, perché questa si manifesta con caratteristiche, dette attributi, che sono praticamente infiniti. Gli attributi sono ciò che l’intelletto percepisce della sostanza come costitutivo della specifica essenza. Gli attributi sono la sostanza, ma noi ne conosciamo realmente due soli: il pensiero e l’estensione: due modi della sostanza stessa, che è infinita.
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I modi della sostanza Se gli attributi sono la sostanza stessa, i modi ne sono gli accidenti (cf. tradizione aristotelico-scolastica). Ad esempio,il movimento è un modo dell’estensione, mentre la nascita è un modo della generazione, ovvero la morte un modo della corruzione. I modi sono nel tempo, e quindi non necessariamente esistenti mentre la sostanza (che è Dio) è eterna. Alcuni modi, però sono intermedi tra la sostanza e i modi finiti: sono i modi infiniti, come il pensiero, che è immagine dell’intelletto infinito di Dio. La sostanza pensante e la sostanza estesa sono dunque la stessa cosa sotto due diversi punti di vista, perché ambedue sono causate da Dio.
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Natura naturans e natura naturata Tutto rinvia a Dio, unica infinita sostanza, causa immanente di tutta la realtà. Ogni essenza ed esistenza particolare, e anche il suo operare afferiscono al rapporto con Dio stesso, vale a dire tra natura naturans e natura naturata. La prima è ciò che in sé ed è concepito per sé, mentre la seconda concerne tutto ciò che afferisce agli attributi di Dio nelle cose, che comunque sono in Dio, perché altrimenti non potrebbero essere neppure nelle cose, come attributi e modi. La realtà molteplice è comunque, se vista dall’intelletto, una e unificata nella sostanza unica, che è Dio.
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Libertà e necessità Tutta la realtà delle cose, gli uomini e i gruppi umani, sono espressioni, modi e attributi di Dio, e quindi sono intrinsecamente connessi e necessari. Tutta la realtà è necessaria e quindi anche la visione etica a ciò si deve riferire. Se la mente riesce a cogliere l’unità del tutto, allora riesce a cogliere Dio in tutte le cose, e in esse vede la necessità che siano. Tale visione non crea pochi problemi a noi che siamo immersi nella cultura del libero arbitrio, anche se diversamente declinato.
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Le tre forme di conoscenza Per Spinoza vi è una scalarità delle forme di conoscenza: - la prima è l’immaginazione, che è conoscenza inadeguata, approssimativa, condizionata da ciò che esterno; - la seconda è la ragione, che è conoscenza atta a cogliere i nessi causali tra le cose e i loro rapporti con il tutto: - la terza concerne la conoscenza intuitiva, che è in grado di cogliere il tutto in modo non discorsivo, ma immediato.
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La morale Spinoza è conseguente in tutto il suo pensiero. Circa gli aspetti etici, soprattutto con l’opera Ethica ordine geometrico demonstrata, si mantiene sullo stesso binario della sua metafisica della sostanza. L’amor Dei intellectualis, fa sì che ogni persona, nello sforzo vitale (conatus) si esprima mediante la volontà, o gli appetiti, concernenti tutto il proprio essere, fatto unitariamente di corpo e mente. Le stesse passioni sono dunque parti di questa ricerca in ognuno del proprio bene, che è l’utile, vale a dire ciò che conserva ed espande il soggetto stesso. Ma il massimo bene per l’uomo è la ragione intellettuale, che lo deve portare al governo delle passioni smodate, fomite della sofferenza e del conflitto con gli altri. Pertanto, la suprema virtù della mente è conoscere Dio.
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Diritto e Stato Se l’uomo, mediante la conquista del primato della ragione riesce ad effettuare una costante meditatio vitae, può anche accettare che la sostanza necessaria di Dio che si esprime nella natura, possa essere rappresentata anche dagli ordinamenti pubblici della società e dello stato. Il diritto naturale è, sia oggettivo, sia soggettivo, ma l’uomo, avendo bisogno di governare le passioni, decide per il suo bene di demandare a una struttura superiore (qualche eco di Hobbes?) il governo delle cose comuni. Allo Stato. Nel Patto sociale si esercita questa delega (cf. Tractatus theologico-politicus), nonché nella societas e nella civitas, dove si esercita una ragione collettiva per il Bene comune (in questo Spinoza si differenzia molto da Hobbes, che è fondamentalmente pessimista sulla natura umana).
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Gottfried Wilhelm Leibniz (1646- 1716) Leibniz nasce a Lipsia, dove studia i filosofi moderni sotto la guida di Jakob Thomasius: Bacone, Cardano, Campanella, Galilei, Keplero, Cartesio, Hobbes sono i suoi autori di formazione. Studia poi diritto e matematica a Jena e a Altdorf. Nel 1666 pubblica il trattato di logica De arte combinatoria. Legatosi al barone di Boineburg a Norimberga e presso l’Elettore di Magonza Giovanni Filippo, è consigliere della cancelleria, ove si occupa attivamente delle questioni politiche e culturali del suo tempo. Nel 1667 pubblica il trattato Hypothesis physica nova, poi va in missione diplomatica a Parigi, dove conosce Malebranche. A Londra incontra Newton con cui compete circa la scoperta del calcolo infinitesimale. In Olanda conosce Spinoza, ma poi ritorna ad Hannover riprendendo il suo lavoro diplomatico, protetto dalla duchessa Sofia. Fonda l’accademia delle scienze di Berlino e pubblica finalmente i principali trattati: Meditationes de cognitione, veritate atque ideis il Discorso di metafisica, il Nuovo sistema della natura, i Nuovi saggi sull’intelletto umano (letti quelli di Locke), il Nova methodus pro maximis et minimis rentalis usus, gli Elementa analyseos infinitorum etc., i Saggi di teodicea, i Principi di Filosofia o Monadologia e i Principi della natura e della grazia. Muore ad Hannover.
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La logica L’intento di Leibniz è quello di trovare una logica nuova rispetto a quella classica, più simile alla logica matematica o algebrica. La discussione (a volte infinita e defatigante) avrebbe potuto così diventare una specie di calcolo logico. Il suo intendimento è quello di costruire un linguaggio analitico condiviso, che sia in grado di superare le controversie tra le persone, tra i popoli e tra i dotti, che spesso derivano più da incomprensioni e travisamenti linguistici, che da reali differenze di opinione o di giudizio. È la sua un po’ una ripresa dell’ars combinatoria di Raimondo Lullo, che già nel secolo precedente a Leibniz era stata riconsiderata.
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Verità di ragione e verità di fatto Per Leibniz la logica si basa innanzitutto sui principi del reale, i cui due principali sono: a) il principio di non contraddizione o di identità e, b) il principio di ragion sufficiente, cui corrisponde la distinzione tra verità di ragione e verità di fatto. Nelle verità di ragione ciò che si predica coincide con il soggetto, e quindi esse sono incontrovertibili come i principi o assiomi matematici, apriori, mentre nelle verità di fatto il predicato aggiunge qualcosa, e pertanto esse sono opinabili, e dunque dimostrabili solo a posteriori.
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Conoscenza divina e libertà umana L’a-priori e l’a-posteriori hanno a che fare con le due conoscenze, quella divina e quella umana: se Dio, come creatore conosce tutto immediatamente, l’uomo ha invece bisogno di un processo discorsivo. Dio non necessita di chiarire a se stesso ciò che ha creato e che governa, mentre l’uomo ha continuamente bisogno di chiarire il processo conoscitivo delle cose, di sé e del mondo stesso. Le verità di ragione appartengono solo a Dio come gli assiomi matematici, mentre le verità di fatto appartengono all’opinione e al giudizio umani, che sono intrinsecamente limitati.
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La sostanza individuale Leibniz concepisce la sostanza in modo diverso da Spinoza e da Cartesio (la res extensa): egli la vede non come un qualcosa di esteso, ma come il punto immateriale, inesteso, metafisico, che chiama monade: cioè la sostanza semplice che entra nei composti in modo infinito. L’ispirazione per tale concetto gli deriva, sia dal calcolo infinitesimale, sia dalle recenti conquiste della biologia, che si può avvalere di strumenti come il microscopio. La monade, in quanto sostanza individuale, è indivisibile e imperitura, pura sostanza creata da Dio per comporre tutte le creature e le cose del mondo.
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I rapporti tra le monadi Le monadi sono sostanze autonome nelle quali si riflettono tutte le perfezioni divine. Ogni monade è diversa da tutte le altre come individua, indivisibile, come la persona umana. È indipendente e indiscernibile perché incomunicabile. Tra le monadi vi è un ordine gerarchico, per cui le strutture della realtà sono composte in un’armonia naturale. L’universo è un continuum di monadi, che si accordano nell’armonia prestabilita da Dio stesso.
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Il problema della materia Per Leibniz la materia costituisce un tema importante: se le monadi sono sostanze individuali indistruttibili, come si può dare la materia, i corpi fisici? Occorre una sorta di entelechia (di tipo aristotelico), cioè la possibilità che le strutture organiche siano organizzate da un principio naturale, da una forma, che è la natura stessa, Questa è dunque la monade dominante che può organizzare i corpi e tutte le cose della realtà umana e naturale.
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L’armonia prestabilita e la monade Per comprendere le modalità con le quali la realtà spirituale può esistere insieme a quella materiale, Leibniz ipotizza che Dio abbia fin dall’inizio predisposto una modalità per la quale ogni dimensione della realtà è adeguata all’altra, in una sorta di coerente concerto di partecipazione: l’armonia prestabilita. Un’armonia che ricorda un poco la nozione insita nell’albero di Porfirio e anche nella prova tommasiana dell’esistenza di Dio concernente la scalarità degli esseri e dell’essere, dai minerali, passando per i vegetali, gli animali senzienti e gli uomini provvisti di ragione argomentante. E fino a Dio stesso che costituisce la monade suprema.
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La conoscenza La gnoseologia di Leibniz ha a che fare con la tradizione platonica e cartesiana: Leibniz infatti concepisce la conoscenza come una continua ispirazione derivante da Dio stesso, muovendo dalle potenzialità intrinseche alla monade razionale presente nell’uomo. Se per Leibniz l’esperienza è importante (ma non come in Locke, come vedremo), resta prevalente e centrale il ruolo dell’intelletto, come dal detto scolastico “nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu, praeter intellectus ipse”. Cioè, l’intelletto viene prima, e qui siamo sulla linea platonico-agostiniano-cartesiana.
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Dio e la creazione “Dio, per Leibniz, è la ragione prima di tutte le cose”. Lo mostra il principio di causa o di ragion sufficiente: ogni cosa non può avere in se stessa la causa del proprio esistere, e pertanto bisogna risalire a una causa prima, perfetta, onnipotente, eterna, buona, cioè Dio stesso. Da Dio derivano le verità di ragione, gli assiomi matematici, gli enti creati e le loro essenze, che sono contenuti da sempre in mente Dei. E siccome ogni essenza, o monade, è nella mente di Dio, ciò che Dio fa esistere è ciò che di meglio possa essere: il migliore dei mondi possibili (perché in Dio tutto e possibile, ma Dio non può che volere solo il bene).
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L’ottimismo e il finalismo Dio è causa intelligente, libera e buona, e perciò bisogna guardare il mondo con un ottimismo razionale derivante da questa disposizione di Dio. Si pone a questo punto, anche in Leibniz, il quesito agostiniano sull’origine del male: da quello metafisico, a quello morale, a quello fisico: l’origine è nella stessa natura delle cose-monadi, poiché queste sono limitate dalla loro stessa sostanza, imperfetta così come è collocata nell’infinita scala della perfezione, che raggiunge il suo culmine in Dio solamente. Il male è quindi una nozione metafisica cui segue ogni sua manifestazione morale e fisica, necessitata dalle condizioni dell’essere delle cose del mondo. L’uomo, che è monade razionale, deve allora tendere con tutte le sue forze al bene, che la ragione e l’intelletto donatigli da Dio gli consentono, dominando le passioni per perseguire il vero Bene con Dio e in Dio.
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La rivoluzione scientifica La rivoluzione scientifica va di pari passo con quella filosofica: dal ‘600 la scienza non si occupa più di essenze e sostanze, ma di fenomeni misurabili matematicamente, come insegnava Galileo. Un meccanicismo generale permea il sapere scientifico, e in parte anche quello filosofico: basti pensare che Cartesio immaginava gli animali e le piante come bio-macchine. In ogni caso in quel secolo si registrano decisivi passi in avanti del sapere scientifico: 1) le leggi astronomiche di Keplero, 2) la meccanica di Galileo, 3) il sistema circolatorio di Harvey, 4) la geometria di Descartes, 6) la geologia di Stenone, 7) l’astronomia di Newton, etc..
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La “nuova scienza” “La natura è scritta in linguaggio matematico”, è la formula galileiana che troviamo nel Saggiatore del 1623. La natura è costituita dunque di fenomeni quantitativi. Il fenomeno diventa quindi oggetto di scienza, così come l’essere era stato fino ad allora l’oggetto principale della riflessione filosofica, mentre il fenomeno (letteralmente “ciò che appare”) era stato sempre oggetto della dòxa, cioè dell’opinione. Sulla natura del mondo si passa dal concetto di cosmo, ordinato e finito, al concetto di universo, luogo della complessità indefinibile (Cusano, Galileo, Bruno…).
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John Locke (1632-1704) Lo schematismo storiografico dei manuali colloca Locke insieme con Berkeley e Hume nel novero dell’empirismo inglese, ma, come sempre, le cose sono più complesse e intrecciate. In realtà, il richiamo all’esperienza si può far risalire addirittura a Occam e più recentemente a Bacon. Pertanto Locke è inserito in un processo molto ricco e articolato che ha a che fare con tutto il pensiero europeo del suo tempo. Locke nasce nei pressi di Bristol, e studia a Oxford scienze naturali (con Robert Boyle), medicina e filosofia (in particolare il pensiero di Gassendi, di Cartesio e dei libertini).
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Un po’ di biografia Esercita la professione di medico e precettore, nell’entourage di Lord Ashley, conte di Shaftesbury, che diviene presidente del Consiglio del re. In disgrazia il Lord “protettore”, Locke va in Olanda, per tornare in Inghilterra, passata la buriana. Ivi fu nominato Consigliere per il commercio nelle colonie, come esponente liberale, aperto alle innovazioni che l’economia di mercato nascente suggeriva. Contradditorio è il suo atteggiamento nei confronti dei regimi di schiavitù in uso nel tempo. È in quel periodo che scrive l’importantissimo “Saggio sull’intelletto umano” (1690).
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Il pensiero Per Locke la questione principale è quella di una critica delle facoltà intellettuali, attento sia all’empirismo di Bacon, sia al razionalismo cartesiano. Giunge però ben presto alla conclusione che non vi può essere nel processo conoscitivo un dominio assoluto della ragione, ma un concerto di attività conoscitiva, che non può non partire se non dalla mente. Nella mente si trovano le idee che consentono di avviare e sviluppare l’attività conoscitiva di sé e del mondo.
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Il “Saggio sull’intelletto umano” Il testo in questione tratta: a) dell’origine delle idee, b) della certezza e dell’estensione della conoscenza umana, c) dei fondamenti della credenza, dell’opinione e dell’assenso. Per Locke non possono darsi (come in Platone, Cartesio e nei loro seguaci) idee innate: neppure i principi primi come quello di non contraddizione, o la stessa “idea di Dio”. Non si può dunque dire che l’uomo parte da un patrimonio iniziale comune e condiviso, ma che comincia a conoscere e procede nella conoscenza solo vivendo, solo sperimentando, sbagliando e correggendosi.
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L’empirismo di Locke Però, più che sulla linea di Aristotele o Tommaso d’Aquino, Locke si pone sulle tracce di Bacon e dei sensisti: egli infatti non crede alla possibilità di una conoscenza oggettiva del reale, ma sempre legata alla sperimentazione. Egli non credeva neppure alla possibilità di verità fisiche o matematiche incontrovertibili: nessun principio innatista, per Locke, è ammissibile, perché mezzo di affermazione del potere,indipendentemente dalla verifica sperimentale (critica dell’ipse dixit, comunque).
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I vari tipi di idee Per Locke vi sono: - le idee di sensazione, provenienti dall’esperienza, come i colori; - le idee di riflessione, concernenti gli atti interni della mente umana: il dubitare, il volere, etc.; - le idee semplici, cioè quelle costituite da elementi semplici, suddivise in: a) primarie, come l’estensione, la figura, il moto, etc.; b) secondarie (soggettive), come i colori, i suoni, gli odori, i sapori, etc.; - le idee complesse, vale a dire le idee derivanti dall’esperienza e prodotte dalla mente in termini di modo, di sostanza, e di relazioni, che altro non sono se non collazioni di idee semplici (mela che ha un colore e un sapore, non “sostanza” della mela…).
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Il linguaggio e la conoscenza Il linguaggio è una struttura convenzionale di nomi ed espressioni, che serve per la comunicazione e la trasmissione di dati, e come supporto per la sistematizzazione della conoscenza. Questa avviene in due modi: - per intuizione, quando si dà una conoscenza certa e incontrovertibile, immediata (la percezione di un triangolo!); - per dimostrazione, con la seguente scalarità: a) conoscenza intuitiva di se stessi; b) conoscenza dimostrativa dell’esistenza di Dio; c) conoscenza delle cose esterne per sensazione. Fuori di questo sistema esistono solo: a) la conoscenza probabile, b) la conoscenza per fede/fiducia e, c) l’opinione.
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Il liberalismo politico Per Locke, lo Stato deve garantire e accrescere i beni civili comuni. Da una posizione inizialmente autoritaria di tipo hobbesiano, Locke progressivamente si sposta verso posizioni liberali (Whig). Con i due Trattati sul Governo, Locke sostiene che tra gli uomini si realizza un patto sociale di reciproco vantaggio, nel quale ciascuno rinuncia a qualcosa in cambio di continuità e sicurezza. A differenza di Hobbes, Locke sostiene che agli uomini devono essere comunque garantiti i diritti soggettivi, civili e sociali, come quello alla vita, alla proprietà, alla libertà, all’uguaglianza… In Locke il Pactum Societatis è connesso con il Pactum Subjectionis (allo Stato), per conseguire i migliori fini della convivenza. In questa situazione devono essere armonicamente collaborativi anche i vari poteri, in ordine gerarchico: a) legislativo (supremo), b) esecutivo(il re e il suo governo), c) giudiziario, d) federativo. Se così non fosse il popolo potrebbe ribellarsi!!!
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La religione In A Letter Concerning Toleration (1685), Locke espone un pensiero concernente la religione naturale, che precede ogni religione storica, religione naturale che può essere “di tutti” (deismo). Lo Stato deve comunque essere a-confessionale, laico, e le strutture religiose tolleranti e rispettose delle diversità. Infine, per Locke Dio esiste perché esiste il mondo creato e perfettibile: un essere eterno è assolutamente ragionevole.
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George Berkeley (1685-1753) Nato a Kilkenny in Irlanda, Berkeley si laurea a Dublino in filosofia. La sua vita è un mix di ricerca e attività pratiche: idealista, si pone l’obiettivo di evangelizzare e “civilizzare” i “selvaggi” d’America. Ma si ferma a New Jork, per fare ritorno in Irlanda dove viene nominato vescovo di Cloyne. Scrive diversi testi molto interessanti e originali, tra i quali ricordiamo il “Trattato sui principi della conoscenza umana”, e diversi dialoghi.
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Il pensiero Berkeley è il più “estremista” degli empiristi inglesi, al punto da poter affermare che tutto ciò che è è solo e solamente in quanto percepito: “esse est percipi”, null’altro. Per lui tutto ciò che appare, è pura immaterialità, essendo reale solo in quanto è presente-alla-mente. Non vi sono sostanze, ma puri nomi che significano cose (nominalismo estremo, sulle tracce di Occam?). Le idee vengo impresse nell’uomo da Dio, il quale solo esiste, mentre tutto ciò che è, è in quanto appare all’essere e alla percezione.
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David Hume (1711-1776) Di Edimburgo, dove è nato e morto, Hume rappresenta uno snodo fondamentale della filosofia europea. Presentato come un campione di scetticismo metodico, si differenzia dai classici per una sua peculiare visione della conoscenza. Dagli studi di giurisprudenza passa ben presto agli studi filosofici e letterari classici, imbevendosi di cultura empirista. Non avendo avuto successo come avvocato (ma non gli piaceva), emigra in Francia dove di trattiene quattro anni. Lì scrive il Trattato sulla Natura umana, per poi tornare in patria, anche se non definitivamente, poiché ricopre vari incarichi diplomatici a Vienna e Torino. La sua carriera universitaria non decolla mai, se non come bibliotecario a Edimburgo forse perché l’invidia funzionava allora come ora. Ottiene alla fine un prestigioso incarico presso l’ambasciata inglese di Francia a Parigi dove conosce Voltaire, il barone d’Olbach, Diderot, D’Alembert, e Rousseau, che invita in Inghilterra, senza però stabilire un proficuo rapporto umano e scientifico, soprattutto per il carattere non facile del ginevrino.
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Metodo sperimentale e mondo dell’uomo Hume desidera applicare alla riflessione sull’uomo e la sua natura la metodologia empirio-scientifica newtoniana. I testi più importanti di questo progetto, dopo il “Trattato sull’intelletto umano” sono la “Ricerca sull’intelletto umano” e la “Ricerca sui principi della morale”. Newton e Locke sono i binari teoretici su cui si basa la sua ricerca: Hume, infatti, non intende assolutamente allontanarsi da un percorso conoscitivo che si distacchi dall’esperienza umana: ogni altra teoresi, di tipo metafisico o d’altro genere, per lui è non valida o addirittura fuorviante e pericolosa. Le percezioni sono la base di tutta la conoscenza.
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L’analisi empirica della conoscenza Per Hume tutta la conoscenza parte dalle impressioni, che comprendono le sensazioni, le passioni e le emozioni, così come appaiono alla mente umana. Le impressioni precedono sempre le idee e l’immaginazione, mentre non possono in alcun modo darsi idee astratte. Molto interessante è la posizione humeana circa la categorie di spazio e di tempo: lo spazio è l’associazione di idee contemporanee, mentre il tempo è l’associazione di idee successive.
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La relazione causa-effetto Hume mette in questione la classica ipotesi causale, per cui se due eventi collegati in rapida successione accadono, vi sarebbe un nesso di causalità necessario tra di essi. Egli invece propone la plausibilità della mera successione, ma privata del nesso di causalità. Per Hume, infatti, anche se a memoria d’uomo quanto creduto come principio di causalità si è sempre mostrato vero, ciò non significa che accadrà un tanto sempre e comunque. Lo scetticismo del filosofo inglese viene dunque applicato anche ai processi conoscitivi dati per maggiormente ovvi.
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La critica della credenza Anche sulle leggi fisiche, come quelle del moto dei pianeti e della gravità, Hume pose dei dubbi, circa la loro certa e necessaria ripetitività: nulla, infatti, può confermare con assoluta certezza che ciò che appare come vero oggi, sia sempre a accaduto e così continuerà ad accadere per sempre. Per Hume, dunque, non si può mai essere certi che le leggi fisiche e naturali finora date per certe e inconfutabili, non possano essere riviste. Si può dire che, storicamente, l’inglese ha avuto molte ragioni: basti pensare al cambiamento del pensiero sul moto dei pianeti, della terra e del sole, dall’aristotelismo-tolemaico, al copernicanesimo, a Galileo e infine a Einstein e alla fisica dei quanta.
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La critica della sostanza corporea e psichica Per Hume in nessun caso di può parlare di sostanza per definire qualcosa che è e che si percepisce: la percezione, infatti, concerne solo collezioni di qualità particolari, che la mente tende a unificare in un concetto rappresentativo di una realtà. Ciò è, se possibile, ancor più vero per l’io umano, talché l’io stesso, modificandosi quotidianamente e continuamente, è una realtà indefinibile in termini assoluti e netti. Siamo qui di fronte a una sorta di evoluzionismo filosofico estremo, anche se non radicalmente scettico, come nei maestri antichi, del genere di Pirrone o Sesto Empirico.
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Lo scetticismo di Hume Lo scetticismo di Hume non comporta, come nei classici, una sospensione del giudizio perché ritenuto impossibile a darsi, ma una sorta di razionalismo probabilistico, anche se proveniente dall’esperienza. Per lui solo le conoscenze matematiche, in quanto rappresentazione convenzionale della realtà, possono dirsi certe e incontrovertibili. Sulla strada tracciata da Hume si sarebbe poi rapidamente trovato Kant, con l’impostazione critica del suo pensiero, e in tempi più a noi vicini Bertrand Russell.
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Morale e libero arbitrio La morale, per Hume, non è un sapere astratto, ma concreto, per cui il giudizio sulla bontà o malvagità di un’azione non può essere condizionato, né da una dottrina filosofica, né da una dottrina religiosa, ma deve essere definito indipendentemente dal premio o dalla punizione. Hume, comunque, critica, per quanto riguarda la libertà umana, sia la visione del libero arbitrio, sia il determinismo e l’ipotesi della causalità, sostenendo che non si può dare in ogni caso, ma che è indecidibile.
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Filosofia della religione Il tema religioso interessa molto Hume, sempre nello stesso spirito critico-scettico. Per lui la religione nasce dal timore umano per l’ignoto che si trova dopo la morte, per cui l’affidamento a Dio è l’unica speranza di salvezza. Egli descrive il processo storico che ha portato le credenze religiose dal politeismo al monoteismo. In quest’’ultima versione della religiosità, Hume intravede il rischio dell’assolutismo e del fanatismo (quanta ragione ha avuto!), raccomandando, alla fine, di “ripararsi felicemente nelle regioni della filosofia, oscure ma tranquille”.
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Giambattista Vico (1668-1744) Napoletano, Vico studia, dapprima un poco disordinatamente, teologia, metafisica e filosofia, e poi con sempre maggiore metodo e presso validi magistri, fino a laurearsi a Salerno in diritto. Nel 1699 l’Università di Napoli gli affida la cattedra di eloquenza. Vico è appassionato dei classici, di Platone, Agostino, Tacito, ma anche dei “moderni”, che legge e studia avidamente, in particolare Bacon, Descartes (che successivamente critica con grande metodo e acribia), e Hugo de Groot (Grozio), dal quale trae molto delle sue dottrine giusnaturalistiche e storiografiche.
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Le opere e il pensiero I suoi scritti sono numerosi e complessi, a partire dalle sette orazioni inaugurali degli Anni accademici universitari, tra le quali è importante la De nostri temporis studiorum ratione; sono da ricordare anche le opere successive di carattere giurisprudenziale, come il De universi iuri uno principio et fine uno, e il De constantia iurisprudentis. Il suo pensiero critico comincia a delinearsi, infine, con le consecutive opere Principi di una scienza nuova intorno alla natura delle nazioni, i Cinque libri de’ principi di una scienza nuova intorno alla comune natura delle nazioni, e la Scienza nuova terza, pubblicata poco prima della morte. Con queste ultime opere Vico delinea un pensiero sistematico sulla storia del mondo, delle nazioni e degli uomini, in una visione laica, ma non priva di uno spirito escatologico (l’influenza di Tacito e di Agostino si fa sentire).
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La polemica anticartesiana In sostanza, Vico, pur apprezzando lo sforzo dei moderni di comprendere la realtà tutta, applicando forme e metodi di carattere scientifico (Descartes in primis), ne nega una validità assoluta, ritenendo che il deduttivismo non possa riuscire a comprendere tutta l’infinità e variegata realtà delle cose del mondo e delle cose umane. In altre parole, il Vico ritiene che non si debbano abbandonare gli strumenti narrativi e conoscitivi classici della filologia e della filosofia per costruire una epistemologia completa, soprattutto nelle cose che non sono quantificabili e misurabili come gli atti umani e delle nazioni, nel tempo. Per Vico che cosa è la realtà se non come un continuum di infiniti punti (elementi leibniziani?) che si sviluppano fino a realizzare tutto ciò che è e che accade, mediante sforzi (conatus) e tentativi?
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Il criterio della verità Per Vico, Descartes, con la sua ipotesi conoscitiva delle idee chiare e distinte, nascenti dall’autoconsapevolezza, non tiene conto che la verità non può che essere colta nei fatti sperimentati: per Vico verum et factum reciprocantur seu convertuntur, vale a dire il vero e il fatto si danno reciprocamente. L’uomo, comunque, non può conoscere l’intima struttura delle cose (che è accessibile a Dio solo, in quanto Creatore e Signore del tutto), bensì solamente i fatti che compie e ciò che conosce per evidenza o comunicazione di notizia da parte di persone fededegne od esperte (viaggiatori e scienziati). Le cose conosciute dall’uomo, lo sono mediante una denominazione, che viene data per esigenze di chiarezza e di classificazione. Solo le matematiche, in quanto scritte per convenzioni, sono veritative, certe e incontrovertibili.
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Il mondo dell’uomo: la storia La storia è il “mondo dell’uomo”, che può essere conosciuto perché costituito dai fatti. Il mondo umano può essere conosciuto di più e meglio del mondo della natura, i cui elementi costituitivi restano in grande parte inaccessibili, perché noti solo a Dio. Per Vico, dunque, la filosofia si deve interessare essenzialmente della storia umana, cercando di trarne le regole generali, mentre la “filologia”, nella sua accezione, deve dare il contributo analitico sui fatti storici accaduti, i nomi dati alle cose, e via dicendo. Ognuna delle due scienze deve integrarsi con l’altra per il fine della conoscenza di ciò che l’uomo è in quanto autore.
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Senso, fantasia, ragione Vico paragona queste tre dimensioni conoscitive, quella dei sensi, quella dell’immaginazione (o fantasia) e quella della ragione a tre età della storia umana, in ciascuna delle quali ha prevalso una di esse: a) alla dimensione sensoriale l’età degli dei, b) alla dimensione della fantasia l’età degli eroi, c) alla dimensione razionale l’età degli uomini, successivamente. Al di sopra di tutto il processo evolutivo della Storia, per Vico, comunque, c’è il Disegno provvidenziale di Dio, il quale ha stabilito un percorso, che nel tempo porterà tutti gli esseri umani a una vita migliore.
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Linguaggio, poesia e mito Per il filosofo napoletano, il percorso che porta gli uomini dall’età degli dei a quella della ragione, è un percorso evolutivo, che prescinde da supposte e irragionevoli “età dell’oro”, antichissime, vagheggiate da sognatori e cantastorie: in realtà l’evoluzione dell’uomo e delle civiltà è lenta e non priva di contraddizioni: se vi è una linea che segna indefettibilmente questa evoluzione, è quella della nascita e dello sviluppo del linguaggio, che dal mito e dalla poesia, giunge ad essere il mezzo condiviso della riflessione, della filosofia e della scienza.
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Corsi e ricorsi storici Se per Vico in generale si possono intravedere i tre stadi dello sviluppo umano sopra detti, ciò non significa che nel tempo non possano esserci di nuovo arretramenti, deviazioni, nuove stagioni di barbarie e ripiegamento… D’altra parte che cosa si può pensare del ‘900, il XX secolo, il secolo breve, con le sue insuperabili stragi di esseri umani e di indicibili crudeltà? E, se vogliamo, della stessa crisi economico-finanziaria epocale che stiamo vivendo in questi anni in tutto il mondo? … magari che Vico aveva qualche ragione.
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L’illuminismo Nel nostro lungo percorso siamo giunti alla stagione dell’illuminismo, cioè al tempo nel quale la ragione ha acquisito tutta la sua centralità nella storia del pensiero umano occidentale. La Francia è il luogo nel quale si è particolarmente sviluppata questa linea di pensiero. Ma non solo. Abbiamo già visto i prodromi di questo pensiero studiando gli autori del ‘600 e del primo ‘700, ma possiamo dire che le origini remote di un recupero della centralità conoscitiva della ragione sussistono anche in periodi e autori precedenti, attivi fin dal X o XI secolo, come Abelardo. Origini antiche, dunque.
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In Francia e in Europa La cultura e la società francese è il luogo dove si sviluppa maggiormente il pensiero illuminista, anche se un notevole contributo lo dà anche la cultura e il pensiero inglese del secolo precedente (soprattutto con la scuola empirista). A sua volta l’illuminismo francese si diffonde nelle alte sfere della politica e del potere, ma anche nei circoli intellettuali, verso la Germania (Federico II di Prussia), l’Italia (a Milano, Torino, Firenze…), l’Austria (Maria Teresa e Giuseppe II), e, anche se in misura minore, verso la stessa Russia (Caterina II).
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Montesquieu Charles Louis de Secondat barone de Montesquieu (1689-1755) opera da erudito, moralista, giurista, politico, viaggiatore cosmopolita. Egli studia la storia e gli atti umani, applicando lo spirito del tempo, sperimentalista e ottimista, e credendo in una possibile progressiva perfettibilità dell’umana convivenza. Soprattutto nelle opere “Lettere persiane” e “Lo spirito delle leggi”, Montesquieu, mette in questione i vizi dei potenti del tempo ponendo al centro le leggi di uno stato, che deve garantire ai cittadini giustizia e libertà, sviluppando una sorta di “natural socievolezza” (contro le teorie di Hobbes). In definitiva, le leggi altro non sono che l’applicazione della ragione umana ai casi particolari che si danno nel tempo e nello spazio della vita. Fondamentale la sua distinzione dei tre poteri che regolano la vita politica, indipendenti e reciprocamente equilibrantisi: a) legislativo,b) esecutivo, c) giudiziario, ancora oggi in discussione in questa nostra Italia.
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Voltaire François Marie Arouet detto Voltaire (1694-1778), è il più noto dei pensatori illuministi. Intelligenza duttile e inquieta, Voltaire si sottrae a ogni classificazione di scuola, e si presenta come difensore della libertà e dei diritti soggettivi, in questo senso modernissimo. Voltaire combatte ogni dogmatismo del tempo, sia religioso, sia politico, in ciò ponendosi come baluardo di un sapere empirico e ragionevole. In definitiva, con i suoi pamphlet e il suo situazionismo critico, egli contribuì, nonostante le accuse di empietà e di mancanza di sistematicità riflessiva, ad avviare il lungo processo critico che ha portato alla modernità e al rispetto delle diversità antropologiche e culturali. Voltaire si pone come un pensatore sensibile e aperto, moralista senza bigottismo, in ricerca di verità locali, come possibili.
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Condillac Etienne Bonnot de Condillac (1715-1780) è un classico pensatore illuminista, sensista ed empirista, philosophe metodico e sistematico, egli vuole consolidare il tema della conoscenza come derivazione dalle sensazioni. Sia nel Saggio sull’origine delle conoscenze umane, sia nel Trattato delle sensazioni, Condillac sottolinea la centralità dell’origine materiale e sensitiva di ogni sapere umano: addirittura egli pone, tra i sensi, il tatto nella posizione principale, come senso della scoperta del mondo, che si manifesta fin dalla primissima infanzia nei bambini, e attraverso di esso si forma una conoscenza via via affinata dagli altri sensi, e successivamente dal linguaggio che si acquisisce e dalla capacità di ragionamento, sempre più evoluta con la crescita.
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I materialisti: La Mettrie, Helvétius, d’Holbach Le conseguenze più estreme del sensismo e dell’empirismo settecentesco sono tratte da alcuni pensatori decisamente “materialisti”. Il medico Julien Offray de La Mettrie (1709-1751) porta alle estreme conseguenze la tradizione lockiana sintetizzando il suo pensiero così “io sono corpo e penso”. Anche Claude-Adrien Helvétius (1715-1771)conferma con qualche ambiguità il pensiero di La Mettrie e di Condillac, così come fa più conseguentemente anche Paul Heinrich Dietrich, barone d’Holbach (1723-1789), il quale afferma che “l’uomo è il prodotto della natura”, non essendoci nessun “Dio” e neanche alcun “orologiaio” newtoniano.
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L’enciclopedia: Diderot e d’Alembert Denis Diderot (1713-1784) e Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert (1717-1783) sono i principali autori de l’Enciclopedia o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri, assieme a un notevole numero di altri studiosi e pensatori. Con l’opera enciclopedica essi si pongono l’obiettivo di sistematizzare la conoscenza del tempo alla luce dei principi empiristico-lockiani del tempo, superando ogni dipendenza dalla tradizione metafisica e teologica, a partire dalla costruzione di un ordine e di una connessione delle conoscenze. Con l’Enciclopedia si consegue un obiettivo conoscitivo che parte dalle impostazioni tardo rinascimentali di Bacon giungendo ad un primo compendio universale dei saperi.
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Jean Jacques Rousseau (1712-1778) Nato da famiglia calvinista ginevrina Rousseau vagabonda per la Francia e l’Europa, inquieto e discontinuamente attratto da salotti e incarichi di segretariato o come precettore. I suoi studi sono irregolari e discontinui, ma ciononostante, le sue frequentazioni (con Diderot, Condillac e lo stesso Hume) gli permettono di farsi un notevole bagaglio culturale, che traspare dagli scritti, alcuni dei quali di notevole importanza: in particolare vanno ricordati il Contratto Sociale, l’Emilio, la Nuova Eloisa e le Confessioni. Rousseau è un uomo strano e difficile, forse per certi aspetti sopravvalutato, come pensatore.
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La critica del progresso In Rousseau si possono notare i primi “afflati del romanticismo”, poiché il suo pensiero fin da subito si distacca dalla considerazione, tipicamente empirista e illuminista, di una ragione come elemento essenziale della conoscenza. Egli individua l’origine del male nel mondo in un luogo assolutamente originale rispetto al pensiero corrente: nella società degli uomini. Non più dunque, per Rousseau, la teodicea o storia della salvezza, e il foro interno, ma la responsabilità dei contesti politici e sociali che si sviluppano nel tempo e nella storia.
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L’origine della disuguaglianza Nel Discorso sui fondamenti e l’origine della disuguaglianza tra gli uomini, Rousseau sostiene che la fonte delle ingiustizie sociali, va ricercata nell’abbandono di ciò che di buono l’uomo aveva saputo costruire quando era uscito dallo stato di ferinità iniziale: al tempo dei patriarchi l’uomo era riuscito a costruire una condizione equilibrata, sia nelle relazioni interpersonali, sia nelle relazioni tra i gruppi e le popolazioni, dopodiché lo sviluppo organizzativo, la fondazione delle città e degli ordinamenti ha creato le pre-condizioni per le attuali (del tempo di Rousseau!) ingiustizie, diseguaglianze e disumanità, che devono essere riformate. Questa visione rousseauiana resta piuttosto utopisticamente generosa, largamente implausibile.
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Il “Contratto sociale” Al fine dunque di rimediare a questo stato di conflitto tra gli uomini, deve essere costituito un “Contratto sociale”, con il quale si possa riconoscere l’uguaglianza tra tutti gli uomini, per consentire quello stato di equilibrio e di felicità che gli spetta come diritto di natura. Il diritto di natura che deve ispirare il Contratto sociale non può ispirarsi come in Hobbes al Pactum Subiectionis, ma al Pactum unionis, liberamente stipulato tra gli uomini. Non si tratta dunque di ripristinare lo stato di natura ma di rappresentare nella società civile una sorta di Volontà generale, che non privilegia nessuno in particolare e si occupa del bene di tutti.
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Lo Stato La volontà generale si rappresenta dunque nell’organizzazione dello Stato, il quale ha il compito di garantire il diritto di uguaglianza tra tutti gli uomini: con queste dottrine Rousseau si pone in una posizione dottrinaria che lo ha fatto ritenere da alcuni come il paladino della democrazia, se si sottolinea il valore dell’uguaglianza, ma altri lo hanno ritenuto intrinsecamente paladino di uno stato etico, se si sottolinea il valore dei uno “stato” che realizza la volontà generale, a qualsiasi costo e anche a scapito dei singoli. Questa ambiguità non è peregrina, come si vedrà successivamente con gli eventi della Rivoluzione francese e delle Rivoluzioni successive dell’Ottocento e del Novecento.
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L’educazione di Emilio L’Emilio è il trattato dell’educazione del singolo essere umano, che deve riuscire a crescere per diventare un buon cittadino nello stato degli “eguali”. Ma Rousseau non crede nell’educazione e nella formazione tradizionale, fatta con libri e scuole, ma propone una modalità di autoformazione che sorga dall’esperienza e dal fare concreto. L’Emilio è l’altro corno dell’utopia rousseuiana, frutto di una visione già ottimisticamente romantica, interessante, epperò foriera di non poche deformazioni successive.
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La religione Anche la religione, per Rousseau, si pone in una prospettiva naturale, di sentimento originario: Dio stesso non può essere percepito o compreso con la ragione, bensì con il sentimento. La religione naturale non ha bisogno di apparati e di schemi liturgici, essa si può basare sul Vangelo, sulla lezione di bontà e giustizia che ivi si legge e si impara. Gli uomini devono poi aderire alla “religione civile” che ispira i comportamenti rispettosi dello Stato e delle sue leggi. Anche su questo aspetto restano, in Rousseau, contraddizioni e difficoltà di comprensione.
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L’illuminismo tedesco Diversamente da quello francese l’illuminismo tedesco non si pone quasi completamente “di traverso” alla società del tempo, ma, basandosi sulla profonda tradizione filosofica recente (Leibniz), cerca di influenzare il potere per un rinnovamento del pensiero e degli assetti sociali. L’interlocutore di maggior spessore risulta esser il re Federico II di Prussia, che accoglie a corte Voltaire. Massoneria e pietismo accompagnano lo sviluppo di un rinnovamento culturale che trova in Lessing e Winckelmann i suoi maggiori mentori.
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Religione e storia: Lessing Nato nel 1729 (1781) Gotthold Ephraim Lessing, è stato un intellettuale eclettico: scrittore, drammaturgo, polemista, filosofo. I suoi studi, abbastanza regolari, e lo spirito di curiosità lo mettono nelle condizioni di essere sempre al centro della vita culturale tedesca del suo tempo. Lavora come precettore e segretario di uomini potenti, come il principe Leopoldo di Braunschweig. La sua ricerca si concentra sugli aspetti filosofici ed estetici della ricerca della verità, che egli non pensa accessibile all’uomo, se non in forme intuitive e sentimentali (pre- romantico?), come nell’adesione religiosa, che egli ritiene fondamentale.
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Immanuel Kant (1724-1804) Kant è il campione, il capitolo finale e il superamento dell’Illuminismo, diversissimo dai francesi e dagli inglesi, ma variamente loro debitore. Professore universitario per tutta la vita, Kant è riuscito a sistematizzare molto del pensiero precedente, dai classici in poi, ripensando diversamente le diverse declinazioni della filosofia, da quella teoretica, a quella morale, e perfino alla metafisica, che pareva in un primo momento voler demistificare definitivamente come sapere non scientifico, ma solo fantastico. Le opere principali: la Critica della Ragion pura, la Critica della Ragion pratica, la Critica del Giudizio, i Prolegomeni ad ogni Metafisica futura, Una Religione nell’ambito della pura ragione, etc...
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Il criticismo: fisica e metafisica La sua impostazione è “critica” in quanto egli ritiene che sia necessario delineare precisi limiti alla stessa ragione, che non può essere ritenuta quasi onnisciente come nel razionalismo cartesiano. Il “criticismo” diventa allora il filtro attraverso il quale passa il sapere filosofico. Se la matematica e la fisica, sulle tracce di Newton sono saperi incontrovertibili (sappiamo che così non è), la metafisica deve essere intesa come ontologia della conoscenza fenomenica, cioè di ciò-che-appare-alla- conoscenza. Newtoniano in fisica e ancora leibniziano in gnoseologia, Kant supera entrambi, anche se non senza alcune ambiguità, ad esempio con la sua nozione “mista” sulla categorie dello spazio e del tempo.
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Giudizi analitici e giudizi sintetici Per Kant, se lo spazio e il tempo sono le forme della sensibilità immediata di percezione della realtà, le categorie (12) sono le forme dell’intelletto. Ciò che viene concepito in base alla sensibilità è a- priori, mentre ciò che viene elaborato mediante le forme che l’intelletto dà alla conoscenza, con le categorie, è a-posteriori. La conoscenza categoriale, propria dell’intelletto può anche essere detta trascendentale, mutuando il termine dall’antica tradizione “scolastica”.
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La sensibilità: spazio e tempo Lo spazio e il tempo sono i “contenitori” (trascendentali) di tutta la realtà, sono dimensioni gnoseologiche assolute che l’uomo percepisce immediatamente con i sensi. Se lo spazio è il luogo in cui stanno le cose, il tempo è il flusso nel quale accadono, e ambedue sono interiormente percepiti come assoluti, intuizioni pure a-priori. Kant, si può dire, pur derivando in parte da Leibniz e in parte da Newton le nozioni di spazio e di tempo, pare conservare un’idea ancora più antica, che si può far risalire ai classici, a Platone, Aristotele, e perfino ad Agostino, con la nozione greca di kairòs (il tempo opportuno, interiore).
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L’intelletto e le categorie Per Kant l’intelletto è la funzione che permette di accedere a una categorizzazione della conoscenza tramite uno schema ben strutturato in 4 dimensioni di giudizio e categoriali: a) quantità, b) qualità, c) relazione, e d) modalità. Nel dettaglio: a) presuppone la quantità come unità, pluralità e particolarità; b) presuppone la qualità come realtà, negazione e limitazione; c) presuppone la relazione come inerenza e sussistenza (substantia e accidens), causalità e dipendenza (causa ed effetto), comunanza (azione reciproca tra agente e paziente); d) presuppone la modalità come possibilità-impossibilità, esistenza-inesistenza, necessità-contingenza. Tutte le diverse categorie e i giudizi sono, per Kant, unificate nella funzione “io penso”: nell’io-penso, che non è sostanziale, o noumenico, ma fenomenico, perché appare, si riscontra lo snodo della conoscenza umana. L’io-penso è l’appercezione trascendentale.
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La “rivoluzione copernicana” Kant opera una sorta di rivoluzione copernicana nella filosofia, o meglio la completa, dopo il percorso iniziato nel ‘600 da Descartes. La conoscenza non è dunque possibile da parte dell’uomo della realtà in sé, tema che aveva affaticato i pensatori occidentali per duemila anni, ma della realtà per come e per quanto appare ai sensi e all’intelletto umani: l’uomo può dunque conoscere solo i fenomeni (ciò che si manifesta), non i noùmeni (le cose in sé). Tutti i fenomeni, però, si danno all’interno dello spazio e del tempo come intuizioni a-priori, e si manifestano secondo i criteri del pensiero umano.
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La ragione e le idee La ragione, dunque, per Kant, è in grado di formulare concetti e dedurre ipotesi di conoscenza veridica sulla realtà, mediante l’uso della tavola dei Giudizi e della tavola delle Categorie, che corrispondono nel numero di 12. è chiaro che le Categorie operano nei Giudizi e in questi sono applicabili alla realtà delle cose. Es. la proposizione “L’uomo è un animale” è plausibile sotto tutti e 4 i punti di vista del Giudizio, se vogliamo. Le idee, invece, sono giudizi sintetici a-priori, vale a dire che le possiedo già nel mio intelletto, permettendomi così esse di dare forma alla conoscenza categoriale nel giudizio. Ad es. io so prima di provare a mettere la mano sul fuoco, che il fuoco brucia…
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La morale: l’imperativo categorico Per Kant la ragione pratica si occupa della vita spirituale, dei fini e dei giudizi morali. Si occupa dunque di fatti e scelte dell’uomo che non sono conoscibili con gli strumenti dell’intuizione e dell’intelletto meramente razionale. Il mondo dell’etica o morale è il mondo nel quale l’agire umano deve obbedire a degli imperativi, quello ipotetico, che regola la convenienza razionale, ma soprattutto a quello categorico, che individua il bene in sé di una scelta moralmente corretta e giusta. “Fai in modo che la massima del tuo agire possa costituire legislazione universale”, e “Non trattare l’uomo mai come un mezzo ma sempre come un fine”, sono i due precetti kantiani che meglio riassumono l’imperativo morale dettato dalla ragion pratica, che governa la dimensione etica della vita umana. Con Kant è dunque finita la morale delle prescrizioni e legalistica, per assurgere a una morale dove la ragione determina il “devo” disinteressato a premi o punizioni, attento solo alla moralità dell’agire.
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I postulati della ragione pratica Se si può dare una ragione pratica che governa l’agire libero, e dunque moralmente rilevante, dell’uomo, e siccome l’agire umano è sempre imperfetto e perfettibile, si deve necessariamente dare la possibilità che questo perfezionamento prosegua, non solo durante la vita umana, ma oltre: ciò presuppone l’esistenza dell’anima immortale e, di conseguenza, anche di Dio, che rappresenta la Volontà santa e perfetta cui ogni essere umano deve riferirsi. In Kant, dunque, l’esistenza di Dio si evince non dalla teoresi sistematica, bensì dal sapere etico, che rende necessaria la presenza di un Essere sommamente giusto.
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Religione e storia Kant attribuisce alla religione un grande compito: quello di indicare i principi morali degni di una vita eticamente fondata. Religione e storia umana sono collegate, perché, come nell’evoluzione storica l’uomo ha portato al progresso dei tempi attuali (di Kant, beninteso), così la storia delle religioni spiega come si sia arrivati dai politeismi arcaici, al monoteismo, e, in particolare al Cristianesimo, che per il filosofo di Königsberg, rappresenta la massima evoluzione del sentimento religioso.
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Il sentimento estetico e la natura Se il Kant teoretico e il Kant moralista sono essenzialmente “illuministi”, il Kant che si occupa di arte e di giudizio estetico, è mosso da ragionamenti che appartengono già, in qualche modo, allo spirito romantico che si stava diffondendo in tutta Europa. Si muove dunque un nuovo percorso che avrebbe avuto straordinari sviluppi nei decenni successivi con l’idealismo, e poi con Schopenhauer e Nietzsche: Kant ritiene che il giudizio estetico e quello teleologico hanno a che vedere con la Natura e la sua ragion d’essere, armoniosa e necessaria.
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Il giudizio estetico Per Kant il senso del bello risiede nel gusto, che deve essere buono ed esercitato: contrariamente a pensatori precedenti, come Leibniz, il bello non è necessariamente correlato al bene, al buono e al vero, cioè ai trascendentali della scolastica, ma vive di vita autonoma. Più potente del bello è il sublime, che insiste all’interno dell’anima umana, ed è la capacità di godere intensamente e in modo personale e originale delle opere d’arte, facendo percepire all’uomo il proprio limite e finitezza, con sentimenti di meraviglia e perfino di sgomento (qui echeggia forse un poco il futuro pensiero di Rudolf Otto!)
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Il giudizio teleologico Infine, in Kant troviamo una sensibilità nuova per una ipotesi di finalismo insito nel giudizio teleologico. Vi sarebbe, infatti, una istanza di razionalità oggettiva in tutto ciò che esiste, nell’uomo e nella natura. Non vi può essere -infatti- un dominio del caso in tutta l’armonia percepibile nel movimento cosmico, nella natura terrestre, e nell’uomo stesso, che evolve verso un fine, specie se ascolta e osserva la ragione naturale, e tutto ciò che spiritualmente rende sempre più “umano” l’agire libero.
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Introduzione all’idealismo tedesco Vi è una grande varietà di motivi nella stagione culturale che introduce la fase detta dell’idealismo tedesco: elementi illuministi, pre-romantici o romantici tout court si intrecciano e vivono in una temperie straordinaria di scambi, polemiche e nuove sistemazioni gnoseologiche, etiche e politiche. I tre grandi pensatori dell’idealismo Fichte, Schelling e Hegel, sono circondati da un profluvio di temi che intellettuali variamente attivi, nell’accademia e al di fuori di essa, propongono continuamente. I fratelli Schlegel, Hamann, Herder, Jacobi, Schiller, Goethe, von Humboldt e altri intellettuali, portano continuamente nuovi stimoli di carattere culturale sui temi letterari, dell’origine del linguaggio, della filosofia, della politica e della religione.
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Il Romanticismo Si respira nel mondo germanico come una specie di ansia, quasi,tesa a costruire ancora una nuova filosofia dell’umanità, dopo che la lezione kantiana, pur avendo fatto molta chiarezza sul piano teoretico, aveva lasciato molti spiriti inquieti e insoddisfatti di una prospettiva ancora troppo razionalistica. La dimensione del sentimento, messa già al centro dell’attenzione da Rousseau, prende corpo nella riflessione filosofica, così come nelle manifestazioni artistiche, letterarie, e, forse, soprattutto musicali, con l’esperienza gigantesca dei sommi autori di cultura e area germanica, a partire da Mozart, Haydn, Beethoven, Schubert, Schumann (che riscopre Bach), Mendelssohn, e poi Chopin, Bruckner, Wagner, Brahms…
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Friedrich Schleiermacher Uno degli intellettuali più significativi del tempo e di quella temperie è senza dubbio il parroco luterano filosofo e teologo Friedrich Schleiermacher (1768-1834), professore all’università di Berlino. Egli, da filosofo delle religioni ritiene che la religione stessa sia un sapere molto più elevato della metafisica e della morale, poiché essa coglie l’unità del tutto tramite l’intuizione (einfühlung), e inoltre individua nella natura dell’uomo e nella natura del mondo una sorta di scheggia di divino, di infinito nel finito, e così giunge al cuore della conoscenza del reale. Siamo già distanti anni luce dal cartesianesimo e anche dal criticismo kantiano. Il romanticismo propone una specie di ritorno al misticismo antico e medievale, quasi per superare d’un balzo le aporie e le difficoltà conoscitive del razionalismo, se pure variamente declinato.
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Johann G. Fichte (1762-1814) Si può dire che Fichte fu uno studente lavoratore ante litteram (come mi ci riconosco!). Infatti, prima studia filosofia e teologia a Jena, Wittenberg e Lipsia, ma poi deve accettare un lavoro come precettore a Zurigo. Ornato in Germania riprende gli studi e conosce personalmente Kant cui porta uno scritto che gli darà immediata fama: Saggio di una critica di ogni Rivelazione. Viene chiamato ad insegnare all’università di Jena, e inizia pubblicare lavori che consolidano bene presto la sua fama di studioso, come I fondamenti della libertà di pensiero. Ben presto attende alla redazione della sua opera principale, che supera il kantismo sul versante di una sottolineatura dell’Io come contrapposizione a ogni Non-Io. Il tema è trattato nell’opera Fondamenti dell’intera dottrina della scienza (1794), cui seguiranno La missione del dotto, I fondamenti del diritto naturale (1796) e il Sistema della dottrina morale (1798). Dopo alcuni conflitti a Jena, Fichte si trasferisce a Berlino dove conosce gli F. Schlegel e Schleiermacher. Colà scrive La missione dell’uomo (1800), molto importante, I tratti caratteristici del tempo presente (1806), la Guida alla vita beata (1806) e i Discorsi alla nazione tedesca (1807). È il primo rettore della neo-fondata università di Berlino.
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Una “filosofia della libertà” La filosofia di Fichte sin pone come inizio radicale della libertà e assolutezza dell’io. L’io idealista non è più solo il cogito, res cogitans, ma l’unica rappresentazione della realtà, nella dimensione trascendentale. L’io trascendentale è l’evoluzione dell’io-penso kantiano, ma liberato da ogni orpello legato alla domanda sulla plausibilità della “cosa-in-sé”, che ha interpellato per duemila anni e passa l’intera filosofia occidentale.
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Il porsi dell’io Se il soggetto pensante e l’oggetto pensato sono la stessa cosa, tutta la realtà si risolve nell’Io assoluto. Se la logica classica si fondava sul principio di non contraddizione e lo stesso pensiero kantiano sul principio di identità, per Fichte, il principio stesso ha origine in maniera assoluta dall’io, che solo non è posto in relazione ad alcunché, perché si auto- fonda. Se nella metafisica classica si diceva “operari sequitur esse”, Fichte rovescia la formula così “esse sequitur operari”. Una specie di Idealismo radicale.
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L’io e il non-io Come Spinoza, Fichte afferma che “omnis determinatio est negatio”, in quanto l’io, ponendo se stesso, nel contempo pone tutto ciò che io non è, il non-io. Ma l’io deve darsi in modo diverso per potere entrare in dialettica con il non-io: infatti, se l’Io assoluto ricomprende in sé ogni realtà, l’io divisibile, soggettivo, entra in relazione con il non-io dialettizzando la possibilità di un’attività pratica. L’Io assoluto, dunque, presiede all’attività teoretica, mentre l’io divisibile presiede a quella pratica.
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L’attività conoscitiva Fichte rovescia il principio conoscitivo del realismo classico (aristelico-tomista in particolare), partendo nell’attività conoscitiva dall’io, ma concependolo come una realtà inconscia già data: pertanto, secondo Fichte l’idealismo si presta maggiormente del realismo a conoscere la realtà, perché è in grado di ricomprendere nell’io la realtà intera; al contrario, il realismo, con la sua esternalità all’io non può in nessun modo penetrare la realtà dell’io che gli resta inaccessibile. Ne la Dottrina della Scienza Fichte pone dunque l’Io come principio primo dell’attività conoscitiva, anche se non in modo assoluto.
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L’idealismo “etico” L’io, per Fichte, ponendosi è in grado di superare continuamente il non-io, ma dandosi da solo dei limiti per un continuo perfezionamento morale: “Essere liberi è cosa da niente, diventare liberi, è cosa celeste”, afferma il filosofo. Il raggiungimento della perfezione morale è il percorso tramite il quale l’uomo svolge il suo compito di autorealizzazione e di progressiva “umanizzazione”, nella prospettiva di osservare con sempre maggiore perfezione l’ideale posto dall’Assoluto, cioè Dio. Una certa ambiguità teoretica su questo punto causa l’allontanamento di Fichte dall’università di Jena.
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L’esito religioso dell’idealismo Se la coscienza non è la verità ma solo il fenomeno esterno della verità, che risiede in se stessa, solo la ricerca della Verità nel Lògos (cf. Vangelo di Giovanni, oggetto specifico di studio) divino può dare senso al perfezionamento della vita umana. Ne l’Introduzione alla vita beata Fichte vede nel Lògos il Sapere assoluto, la Coscienza divina, l’Intermediario fra Dio e il mondo: la coscienza umana dell’io divisibile deve pertanto umiliarsi davanti al Lògos, per poter accedere misticamente alla visione estatica dell’Uno (Plotino). Fichte ritaglia per sé, infine, una sorta di missione sociale come maestro (La missione del dotto).
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La filosofia politica Per Fichte lo stato deve occuparsi del bene della nazione, sia sul piano morale sia sul piano pratico. Egli teorizza una sorta di “socialismo autarchico” caratterizzato da tre princìpi: - Lo stato produca tutto quanto di cui ha bisogno, - Distolga i cittadini dai beni che non può produrre, oppure imponga il monopolio nei casi di importazione dei beni mancanti, - Raggiunga i suoi confini naturali, e sia padrone delle terre che gli appartengono per natura. Se così non fosse esso è giustificato a muovere guerra a chi usurpa le sue risorse naturali.
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I Discorsi alla alla nazione tedesca Fichte riconosce al popolo tedesco, proprio nel momento in cui le truppe napoleoniche sono ancora il Prussia dopo la vittoria di Jena, una sorta di superiorità culturale, derivante dalla storia e della costruzione di un linguaggio condiviso da tutto il popolo, da Lutero, passando per Leibniz e fino a Kant. Nulla di fichtiano e totalmente arbitrario si può infine rilevare nell’utilizzo tentato da parte nazista circa una sua sorta di ascendenza teoretica e morale. Fichte nulla c’entra con l’abominio nazista del XX secolo.
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Friedrich W. J. Schelling (1775-1854) Di buona famiglia, Schelling entra nel seminario di Tubinga quindicenne, dove trova, come compagni di studi Hölderlin e Hegel. È il suo approccio alla teologia e alla filosofia: infatti, con i due illustrissimi compagni di corso, scrive quello che è considerato un po’ come il “manifesto dell’idealismo”. Dopo avere fatto per qualche tempo il precettore a Lipsia, viene accolto come docente di filosofia all’università di Jena, dove conosce e frequenta Goethe, Novalis e Schiller. I suoi scritti principali, tra molti altri: L’Io come principio della filosofia (1795), La forma della filosofia in generale (1795), le Lettere filosofiche su dogmatismo e criticismo (1796), Idee per una filosofia della natura (1797), L’anima del mondo (1798), il Primo progetto di un sistema di filosofia della natura (1799), il Sistema dell’idealismo trascendentale (1800) e poi il Bruno (1802), le Ricerche sull’essenza della libertà (1809), la Filosofia della mitologia (1842-1854), e la Filosofia della Rivelazione (1854).
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La filosofia della natura Se Schelling all’inizio della sua ricerca sulla filosofia della natura, si rifà molto a Fichte, ben presto se ne distacca, prendendo un abbrivio molto diverso: in lui ogni retaggio che possa sembrare meccanicistico o statico vien meno, sviluppando piuttosto una visione, che oggi potremmo definire olistica, cioè rivolta al tutto-da-comprendere, o almeno organicista. Per Schelling la natura fa parte della realtà Tutta che ricomprende l’uomo in tutte le sue manifestazioni e possibilità conoscitive; in definitiva è una specie di intelligenza immatura, che mediante l’uomo, giunge fino a toccare lo spirito.
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Meccanismo e finalità Per Schelling spirito e natura, conscio e inconscio, libertà e necessità, ideale e reale, non sono contrapposti, ma contigui e connessi senza con- fondersi: l’una polarità presuppone l’altra, dandosi ragion d’essere proprio da essa. Non vi può essere, infatti, un sistema che funzioni senza l’apporto dell’insieme che lo compone. Es.: la pianta che si nutre delle sostanze della terra, dell’acqua e dell’aria, usufruendo della luce solare, lo può fare perché è intrinsecamente predisposta a questo, è strutturata previamente per poterlo fare.
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La filosofia trascendentale: storia e memoria dell’autocoscienza Per Schelling la costruzione della coscienza è un percorso trascendentale, un far affiorare dalla memoria e dell’inconscio tutto ciò che diventa via via conoscenza della realtà. L’io si innalza progressivamente dalla sensazione alla riflessione, e dalla riflessione alla volontà. Il cammino di dipana in salita attraverso tappe che si declinano sulla via ardua della riflessione teoretica che riporta alla necessità e la riflessione pratica che porta alla libertà, alla coscienza distesa e aperta sulla realtà della vita e del mondo.
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L’intuizione intellettuale: arte e filosofia Schelling dunque arriva al punto: ogni riflessione intellettuale che riguarda gli oggetti della conoscenza è legato e condizionato da essi, ma vi è una dimensione, quella nella quale l’intuire coincide con l’intuìto, quella dell’arte, vertice di tutta la conoscenza. L’arte è superiore alla filosofia teoretica, perché rappresenta il punto di incontro, la sintesi tra ciò che del mondo l’io coglie, e l’io stesso che intuisce il mondo intuendo se stesso. Nell’arte è l’Assoluto stesso che si manifesta.
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Storia e rivelazione Schelling propone una lettura della storia, non come caso o arbitrio di un destino cieco e fatale, ma come progressiva manifestazione della Provvidenza, che progressivamente svela Dio stesso, l’Assoluto. Vi sono tre periodi nella storia del mondo: 1) il periodo tragico in cui domina il destino; 2) il periodo in cui il destino si svela come legge di natura; 3) il periodo in cui “anche Dio sarà”, in quanto destino e natura si riveleranno come manifestazioni incomplete della provvidenza.
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La libertà e il male Con Schelling siamo a distanze siderali dal “dio” aristotelico, impassibile e immobile, perché nessuno- lo-può-muovere. Per lui Dio-diviene in una manifestazione progressiva del bene, che deve co- esistere con il male, senza che ciò significhi confusione: la presenza del male, lungi da essere - agostinianamente- defectio boni, è una dimensione necessitata dalla libertà umana, che progressivamente si eleva a consapevolezza della scelta secondo il principio della bontà e della giustizia.
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Filosofia negativa e filosofia positiva L’ultimo Schelling è impegnato fortemente contro il suo ex sodale di gioventù Hegel, il cui parallelo percorso lo ha portato ad una filosofia e a una logica fortemente autoreferenziale, come vedremo di seguito. Schelling propone invece una filosofia che da negativa, diventa positiva se si mette in discussione, in dialogo con la realtà della vita, con tutto ciò che non si può spiegare, perché in parte rimane incomprensibile, confuso, inespresso, e necessita invece dell’umile pazienza dell’interpretazione e della comprensione. Per Schelling vi è un residuo incomprimibile, che darà spunto a molte riflessioni dell’Ottocento (Schopenhauer e Nietzsche) e anche del Novecento (Heidegger, Jaspers, Jung).
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Georg W. Friedrich Hegel (1770-1831) Hegel, che studia con Schelling a Tubinga, ma poi se ne separa, rappresenta il campione dell’idealismo tedesco, il passaggio conclusivo della grande stagione condivisa con Fichte e Schelling stesso, ma anche punto dirimente di appassionate adesioni, e sviluppi e feroci critiche. Anche lui precettore a Bena e a Francoforte, prima di diventare docente alle università di Jena, Heidelberg e Berlino. Due linee di pensiero seguirono all’opera del filosofo, talora ferocemente antitetiche: quella favorevole di Bauer, Feuerbach, Green, Marx, Bradley, Dewey, Sartre, Küng, Kojève, Žižek, Brandom, Pollastri, etc., e quella dei critici (Schelling, Kierkegaard, Schopenhauer, ancora Marx, Nietzsche, Peirce, Popper, Russell, Heidegger, etc..
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Le opere Tra le opere del grande pensatore di seguito indichiamo le principali: - Scritti teologici giovanili, - Differenza fra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling, - Fede e sapere, - Fenomenologia dello spirito (1807), - La scienza della logica, - Enciclopedia delle scienze filosofiche, - Filosofia del diritto.
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La dialettica Il paradosso è che Hegel non ha scritto alcun trattato sulla dialettica… La ragione, molto semplice è questa: per Hegel, differentemente che per Platone, Aristotele e Kant, la dialettica si confonde quasi, o caratterizza la filosofia stessa, che, sia che sia teoretica sia che sia pratica o morale, non può che essere dialettica. Solo con la dialettica l’uomo può cogliere la verità delle cose della propria stessa vita, solo la dialettica riesce a cogliere l’infinito movimento del reale ponendo tesi, antitesi e sintesi, in un continuo ed infinito ricercare.
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La dialettica del concreto Solo con questa filosofia, per Hegel si può riuscire a comprendere veramente la realtà, superando la rigidità della logica classica fondata sul principio di identità/ non contraddizione. L’essere e il nulla per Hegel coesistono nella dialettica che rinvia l’uno all’altro, entrambi necessari e con-viventi/ com-presenti nell’ordine della realtà. L’essere e il nulla altro non sono che il divenire, oppure, con echi neanche tanto remoti di tipo aristotelico, il passaggio dalla potenza all’atto.
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L’essere è nel concetto Concetto significa con-cepito, vale a dire com-preso. Per Hegel l’essere delle cose si esprime nel concetto, che ri-comprende anche l’essenza della cosa stessa. Se nella metafisica classica, si distingueva tra soggetto, essenza ed essere, in ordine crescente di “densità” ontologica, in Hegel avviene una sintesi fulminea, che serve per collocare la comprensione delle cose nel loro farsi, darsi, divenire perenne. A questo punto è chiaro come tutto ruoti attorno all’autocoscienza dell’io pensante, con-cepente l’essere stesso di tutte le cose a partire da se stesso.
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L’identità di razionale e reale La vulgata interpretativa di questo ardito parallelismo hegeliano, colloca Hegel stesso su un versante di estremo cinismo, ma non è così: infatti, per il filosofo questa coincidenza significa semplicemente che tutto ciò che accade, cioè il reale, nel suo estrinsecarsi e dipanarsi complesso, deve essere analizzato mediante la dialettica, fino a coglierne i tratti di razionalità, vale a dire di necessità, prescindendo da ogni giudizio morale, che avviene su un altro piano. In ogni caso per Hegel, siccome Dio è l’essere per sé realissimo, tutto torna da dove ha origine: vi è dunque una razionalità superiore nella realtà, che può venire compresa solo in una prospettiva superiore a quella della vita umana dei singoli esseri umani.
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Il “razionale” in Hegel Per Hegel il “razionale” non possiede l’accezione classica platonico-aristotelica o tommasiana, per cui rappresenterebbe essenzialmente la caratteristica principale che umanizza e rende libero l’animale-uomo: per lui il “razionale” ricomprende molto altro, ad esempio il senso della natura e della storia, che già in Platone e Agostino avevano avuto una attenzione importante. Il Lògos, in qualche modo, agisce… Hegel che vede Napoleone a cavallo e commenta “Vedo passare lo Spirito della Storia…” non ha torto. L’Europa non è rimasta la stessa dopo la Rivoluzione francese e l’epoca napoleonica, nonostante la Restaurazione. Illuminismo, romanticismo, idealismo e rivoluzioni hanno cambiato il corso degli eventi a cavallo del XVIII e del XIX secolo.
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Il cammino della coscienza verso il sapere Hegel dunque vede nella ragione il punto e il luogo nel quale si può comprendere il senso delle cose e della storia, il punto di conciliazione tra essere e potere essere, tra essere e dover essere. La verità delle cose, per Hegel, non può stare nei dualismi, nelle dicotomie, nei contrasti radicali (come quello kantiano tra fenomeno e noùmeno), ma deve essere oggetto di ragione mediante che può convergere su un qualcosa di assoluto. Altrettanto, per lui, sbagliano gli intuizionisti che ritengono di poter accedere alla verità tramite un unico estemporaneo atto intuitivo ( i romantici storici e di tutte le stagioni). Il vero dunque è l’intero, l’organico, non le polarità, le discriminazioni antitetiche e giustapposte. La ricerca e la conquista della verità va pertanto collocata nel flusso della storia e in essa si possono dipanare i filo della sua manifestazione.
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Lo spirito soggettivo Lo spirito soggettivo, per Hegel, altro non è che l’unità corpo-anima che si manifesta nella vita e nell’attività umana. È la vita fisica e quella psichica, è la normalità e le sue declinazioni nevrotiche e psicotiche, fino alla follia, è lo stato di veglia e lo stato di sonno. È l’uomo nella sua integralità naturale. Il nesso anima-corpo si muove poi verso l’autocoscienza, che porta all’unificazione di intelligenza e volontà, facoltà descritte dall’antropologia classica, ma da Hegel riprese in modo diverso.
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Lo spirito oggettivo: Stato, eticità e storia Lo spirito oggettivo si declina nelle istituzione e nelle strutture statuali, che devono vivere una propria eticità, che rappresenta il superamento dei beni individuali per un bene comune. Il diritto e la morale sono i due ambiti nei quali si declina l’eticità delle istituzioni. Il diritto come esplicitazione della norma collettiva, la morale come interiorizzazione della norma soggettiva e comunitaria. Hegel vede un progredire dello spirito della storia, dall’antichità alla sintesi del pensiero germanico idealista in cui si concilia lo spirito, la natura umana e divina, la verità e la libertà nello Stato.
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Lo spirito assoluto: arte, religione e filosofia L’arte, la religione e la filosofia sono nell’ordine il percorso dello spirito assoluto: l’arte come luogo dell’intuizione che conosce per via diretta e immediata; la religione come luogo della rappresentazione di ciò che oltrepassa la vita terrena e le realtà sensibili; la filosofia come luogo dove si svolge la vita conoscitiva, attraverso la dialettica, che giunge al concetto veritativo dell’essere e del divenire che si unificano in esso.
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La filosofia nel tempo Per Hegel la filosofia non può prescindere dal suo tempo: essa si declina nel tempo e con le vicende che si susseguono. In qualche modo la filosofia coincide con la sua storia, evolvendo a mano a mano che la storia del genere umano rappresenta stadi successivi della sua crescita; la filosofia cresce con la storia e nella storia, e viceversa. L’uomo vive filosofando, perché la vita è il luogo della filosofia.
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Dopo Hegel Le convenzioni di destra e sinistra hegeliana non rappresentano tutta l’eredità di Hegel: infatti, se chi aveva accolto la lezione del filosofo come conferma della razionalità dello status quo del regno prussiano, aveva colto come vincolante l’affermazione filosofica “il reale è razionale”, chi invece aveva privilegiato il suo rovescio “il razionale è reale” coglieva con esso la necessità di far diventare “razionale” ciò che “reale” ancora non era, promuovendo cambiamenti sociali e politici anche radicali. Ma un terzo raggruppamento, questo sì di anti-hegeliani è quello dei positivisti, cioè di quei pensatori che hanno collocato il pensiero di Hegel su un piano di astrattezza inaccettabile, paradosso per chi aveva cercato di togliersi di torno la supposta astrattezza di Kant. Ma, evidentemente, il termine stesso “astrattezza” è da maneggiare con cura. Per costoro la filosofia deve coincidere tout court con la scienza. Vi è poi un quarto raggruppamento, anch’esso anti-hegeliano, quello degli antirazionalisti, come Schopenhauer, Kierkegaard e Nietzsche.
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La destra e la sinistra hegeliana Se la destra hegeliana si colloca su una posizione che possiamo dire conservatrice, specialmente in tema religioso, la sinistra si pone sul lato opposto, proclamando un ateismo teoretico, che in Feuerbach trova il suo massimo esponente. Per la sinistra la religione, come rappresentazione di miti (cf. La vita di Gesù di Bruno Bauer) è soppiantata dalla filosofia come luogo della ragione e dell’esercizio tutto umano dell’intelletto. Personaggi fondamentali di queste linee di pensiero sono Bruno Bauer, David Friedrich Strauss e più di tutti rappresentativo Ludwig Feuerbach.
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Ludwig Feuerbach (1804-1872) Nato da famiglia benestante Feuerbach studia teologia ad Ansbach, ma ben presto, non trovandosi in sintonia con quanto il teologo H. Paulus proponeva, va ad ascoltare le lezioni di Hegel all’università di Berlino. E lì si rinforza nell’idea di un rovesciamento radicale delle prospettive filosofiche finora in auge. Studia e si laurea in filosofia a Erlangen con una tesi molto hegeliana De ratione, una, universali, infinita, ed ivi inizia la libera docenza universitaria, che però non dura molto, poiché, per le sue idee ed alcuni suoi scritti ateistici (Pensieri sulla morte e l’immortalità), viene sospeso dall’insegnamento. Prosegue con la sua ricerca pubblicando altri scritti, con i quali rileva il progressivo affrancamento del pensiero umano dalla metafisica e dalla teologia, a partire dal Rinascimento. Principali scritti di questa fase: la Critica della filosofia hegeliana, le Tesi preliminari di una riforma della filosofia, l’Essenza del cristianesimo, l’Essenza delle religioni, la Teogonia.
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La critica della filosofia hegeliana Innanzitutto Feuerbach critica la pretesa di assolutezza della filosofia hegeliana, la pretesa di conclusione e completamento dell’intera storia della filosofia. Anche Hegel è uno dei filosofi inseriti nella storia del pensiero umano, non il più speciale. Il suo limite, secondo Feuerbach è quello classico dei pensatori accademici: di volere cercare di comprendere la realtà, accettandone la implicita razionalità, e senza avere mai la spinta, l’inclinazione o la volontà, di criticarla, non solo per darne una visione diversa, ma eventualmente anche per modificarla.
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L’Essenza del Cristianesimo Il cuore della ricerca di Feuerbach si può ritenere forse questo testo fondamentale. La sua posizione non è illuministico-anticlericale, nel senso di ritenere la religione, e quella cristiana in particolare, un cumulo di menzogne e di inganni, no. In qualche modo tale posizione riecheggerà in forme ancora più radicali in Marx e Engels (religione oppio dei popoli!). Al contrario, Feuerbach ritiene che il cristianesimo abbia un contenuto positivo, come rilevato in quegli anni anche da Schleiermacher: se per quest’ultimo la religione esprime l’esigenza umana d’infinito, Feuerbach deduce che, in realtà, l’uomo desidera esprimere un’infinitezza che, però, resta tutta nella sua vita, nella sua esperienza, nella sua intelligenza e volontà. Perciò l’uomo, nel corso dei secoli, crea le figure religiose, fino all’idea stessa del Dio unico del giudaismo, del cristianesimo e dell’islam, per superare il suo timore e insicurezza esistenziali: è l’uomo, dunque, che crea Dio, non viceversa. Una verità filosofica che supera quella religiosa invalsa nei secoli precedenti.
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La filosofia dell’avvenire La teologia dunque, secondo Feuerbach, deve essere risolta in antropologia, a partire dalla Riforma protestante, che è già una antropologia teologica, mentre invece quella di Hegel è una teologia filosofica, che non esce dai binari di una sterile ortodossia. Per Feuerbach bisogna passare dall’alienazione in Dio della religione, e dall’alienazione della realtà nello Spirito assoluto hegeliano, a una considerazione del finito reale come punto di partenza, per la conoscenza di ogni cosa della vita e del mondo, non mai dall’infinito, come hanno fatto le dottrine precedenti. L’antropologia filosofica, per Feuerbach, nasce dall’uomo concreto incarnato nella storia.
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L’essenza della religione e la Teogonia Per Feuerbach ogni religione si muove dalla natura, che ricomprende anche l’uomo. È dalla natura che bisogna partire (spinozismo!), là dove l’uomo manifesta i suoi bisogni vitali, per cui, a volte, non trovando risposte concrete, tende ad affidarsi alla trascendenza divina. Dio stesso, dopo la fase mitica e politeistica, altro non è che la proiezione dei desideri (de sideris, dagli astri!) umani insoddisfatti e bisognosi di un aiuto più alto e vigoroso. Ciò conduce Feuerbach a considerare con grande interesse gli sviluppi scientifici e tecnici che nell’Ottocento cominciavano a diffondersi. Nella Teogonia, Feuerbach ricostruire il sentimento degli antichi, che vedevano nella storia una manifestazione delle possibilità che gli “dei” (il mondo classico greco-latino) o Dio (il mondo giudaico-cristiano) erano in grado di dare agli uomini su questa terra o nella beatitudine eterna.
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Il mistero del sacrificio Interessato alle scienze fisiche e biologiche, Feuerbach è colpito da un libro di Jakob Moleschott sull’alimentazione, interpretata come base costituiva per lo sviluppo globale dell’essere umano, e sappiamo a i nostri giorni, quanto ciò sia vero. Il titolo di un suo libro del 1862 è significativo: Il mistero del sacrificio o l’uomo è ciò che mangia. La provocazione estrema del titolo sta a dire quanto Feuerbach avesse a cuore di fugare ogni dubbio circa l’aspetto biologico e vitalistico dell’uomo come vivente, senziente, autocosciente. L’uomo, per Feuerbach è proprio questo: un animale razionale le cui facoltà vanno sempre considerate unitariamente nell’espressione concreta della corporeità naturale.
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Arthur Schopenhauer (1788-1860) Nato a Danzica Schopenhauer rappresenta quasi l’alter ego di Hegel nella filosofia tedesca dell’Ottocento. Tanto Hegel tende a costruire sistemi, edifici complessi di analisi della realtà, quanto Schopenhauer non lo ritiene possibile, pensando che la realtà sia talmente variegata e imprendibile, da non poter mai essere colta con precisione e completezza da un sistema di pensiero così strutturato come quello hegeliano. Gli studi di Schopenhauer sono buoni anche se rapsodici; in ogni caso si laurea in filosofia a Jena con una tesi Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente, dopo avere seguito a Berlino i corsi di Fichte e Schelling: definisce addirittura Hegel “il gran ciarlatano”.
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Una vita errabonda Schopenhauer vive in modo vario e un po’ sregolato, facendo molta fatica, all’inizio, a trovare spazio nel panorama culturale tedesco, anche con la sua pubblicazione più significativa Il mondo come volontà e come rappresentazione, la cui prima edizione va al macero. Il suo tentativo di competere con Hegel sul piano accademico non funziona, ma alla morte del grande avversario, qualcosa si muove anche per lui. Dopo il suicidio del padre, ricco mercante, Schopenhauer si muove da Danzica verso Weimar, fino a stabilirsi a Francoforte sul Meno. Discontinuo nelle relazioni e perfino misantropo, si sposta a Dresda e poi a Vienna, e infine in Italia. Studia i classici greci, latini e italiani facendosi una profonda cultura artistico-letteraria.
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La maturità Nel 1820 è libero docente a Berlino, ma due anni dopo riparte per l’Italia, è a Milano, Venezia, Firenze, Roma. Torna a Berlino nel 1825 e poi a Heidelberg, ma la sua carriera universitaria non decolla: si dedica pertanto a un’attività pubblicistica, di polemista e scrittore. Studia anche discipline scientifiche, per cui nel 1834/36 lavora e pubblica il trattato Sulla volontà della natura. Finalmente, dopo alterne vicende, il successo di critica e pubblico gli giunge nel 1851, alla pubblicazione di Parerga e Paralipomena. Scopre anche il Leopardi delle Operette morali, che lo convincono molto. Si ritira sempre di più dalla società fino alla morte, avvenuta a Francoforte. La sua lapide porta semplicemente nome e cognome: Arthur Schopenhauer.
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Il pensiero filosofico Si potrebbe dire che la sua filosofia, antitetica rispetto ai grandi sistemi di Kant e degli idealisti (specie di Hegel), è una sorta di neo-epicureismo pessimistico. In sostanza Schopenhauer non crede nella possibilità di una conoscenza chiara e soddisfacente delle ragioni della vita umana. Ispirato dalla sue letture di testi delle grandi religioni, specie dell’Induismo (Vedanta e Upanishad), del Buddismo e dei Padri della Chiesa antica, egli ritiene ch l’unico modo di trovare una ragione di vita e di condivisione sia la compassione, cioè la disposizione d’animo atta a prendere coscienza del limite, della presenza del dolore nel mondo e della sua incomprensibilità.
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Karl Marx e Friedrich Engels (1818-1883) (1820-1895) Quasi come dioscuri Marx e Engels, dal momento in cui si conoscono non separano più i loro destini, anche se le loro condizioni familiari ed esistenziali sono profondamente diverse: Marx non è ricco, anzi, anche se sposa la baronessa Jenny von Westphalen di nobile famiglia e da lei ha numerosi figli, e Engels vive bene (?) il suo celibato; Marx studia regolarmente e si laurea in filosofia a Jena con una tesi su La differenza della filosofia della natura in Epicuro e Democrito, mentre Engels frequenta a Berlino i corsi di Schelling che critica ferocemente senza laurearsi; Marx vive una vita piccolo borghesi, in certe fasi di grandi stenti, ma Engels, figlio di un industriale tessile, fa spesso la vita del viveur. Coppia così diversa non poteva darsi, ma anche così complementare, riuscendo a scrivere molte opere fondamentali quasi a “quattro mani!” Marx, infine vive abbastanza errabondo tra la Germania, Parigi, Bruxelles e infine Londra, Engels non ha problemi a girovagare tra il lavoro aziendale a Manchester e casa
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Le opere principali Elenchiamo qui in ordine cronologico: - Critica della filosofia del diritto di Hegel (1843) sulla rivista Annali franco-tedeschi, - La sacra famiglia, - L’ideologia tedesca (contro Bruno Bauer), - La miseria della filosofia, nel 1847 (contro Pierre Proudhon), - Il Manifesto del Partito comunista (1848) - La Critica dell’economia politica (1859) - Il Capitale (tra il 1867 e il 1895, ultimi volumi postumi), - Le Tesi su Feuerbach. - I Manoscritti economico-filosofici (del 1832 ma pubblicati nel 1939), - I Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (del 1857/8, ma pubblicati nel 1939/41).
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Unità di teoria e prassi Marx constata lo stato di estrema arretratezza socio- economica della Germania dei suoi tempi rispetto a Francia e Inghilterra, ma anche la straordinaria fioritura culturale e degli studi filosofici. A quel punto si pone come obiettivo di collegare o correlare teoria e prassi, affermando che la filosofia non doveva limitarsi ad analizzare e descrivere la realtà per conoscerla, ma doveva proporsi il progetto nuovo, di cambiarla! Di cambiarla con l’azione politica coinvolgendo le classi che finora erano state escluse dalla gestione del potere, come quella proletaria dei lavoratori.
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La critica dell’ideologia tedesca Per Marx l’egregio lavoro fatto dalla filosofia idealista, da Hegel ai suoi eponimi come Bruno Bauer, doveva esser radicalmente superato portando l’attenzione su una teoria e una prassi in grado di mettere mano agli equilibri sociali fino a rovesciare i rapporti di forza attuali. Il valore della lezione hegeliana sta nell’aver proposto lo sviluppo della dialettica, che però non deve fermarsi all’analisi dei processi, ma, passando dalla dimensione puramente ideologica e speculativa, deve immergersi nella realtà fattuale per aiutare le classi sfruttate a liberarsi in un processo che necessariamente, stanti le contraddizioni, deve avvenire. Marx apprezza il lavoro di Feuerbach, ma ne denuncia i limiti che consistono nel non aver compreso l’importanza di passare dalla denuncia dell’alienazione provocata dalle religioni e dai sistemi di potere all’azione politica per cambiare le cose.
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La concezione materialistica della storia Per Marx conta soprattutto la storia dell’uomo concreto, dei gruppi, dei popoli che nella storia hanno agito e agiscono: da lì bisogna partir, rinunciando a ogni ideologia e a ogni metafisica puramente speculativa. Le attività produttive, dall’artigianato primitivo all’industria sua contemporanea sono ciò che di più significativo presenta la storia dell’uomo, perché racconta i rapporti di forza, di sfruttamento e di esclusione che per millenni hanno caratterizzato i conflitti tra le classi sociali. Le attività economiche costituiscono quindi la struttura dei rapporti interumani, mentre tutto ciò che esula da esse, cultura, arte, religioni, ideologie, costituiscono una specie di sovrastruttura, determinata però dalla struttura, che è infinitamente più importante. Engels saprà infine sottolineare comunque anche ‘importanza degli elementi sovrastrutturali.
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Capitale e lavoro Marx coglie un elemento che non era mai stato considerato dall’economia classica: il concetto di plusvalore. Egli considera che se il prestatore d’opera fosse retribuito per il valore che produce, non vi sarebbe sfruttamento, ma una distribuzione equa del valore prodotto. In realtà il plusvalore della produzione viene trattenuto dal capitalista che così riesce ad aumentare l’accumulazione primaria, che non è detto investa in nuovi impianti di produzione, ma piuttosto tende ad accantonare, alienando il capitale dal lavoro. È chiaro che la teoria marxiana è adeguata alle condizioni delle strutture industriali dei metà ‘800, ma non lo è più per quanto concerne le strutture attuali.
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Borghesia e proletariato Con la Rivoluzione Francese la borghesia ha assolto a un ruolo progressivo, soppiantando i ceti parassitari dell’aristocrazia e del clero, ma successivamente, essendosi impadronita dei mezzi di produzione, a sua volta ha emarginato le classi proletarie che si sono immesse nei processi di produzione industriale. A questo punto le classi proletarie dei lavoratori devono prendere coscienza della loro situazione e ribellarsi, per acquisire la consapevolezza del proprio ruolo nella storia e costruire un’egemonia che spetta loro. A questo fine il proletariato deve porsi l’obiettivo di una vera rivoluzione con la quale espropriare dei mezzi di produzione la borghesia, per realizzare una società nella quale non vi siano privilegi.
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Il materialismo dialettico La dialettica hegeliana serve alla ricerca di Marx e Engels per confermare la validità della loro proposta di lettura della realtà concreta dei conflitti di classe ed economici. Il marxismo storico si pone come una dottrina che introduce uno schema evoluzionistico nello sviluppo sociale, analogo, in qualche modo, alle ricerche di Darwin, che stavano rivoluzionando il mondo scientifico. L’eredità del marxismo conserva un’importanza formidabile, anche dopo i fallimenti dei regimi novecenteschi ad esso ispirati (U.R.S.S., Cina Popolare, etc.), specialmente per alcune intuizioni di carattere economico, come la crisi mondiale contemporanea dimostra (sovrapproduzione merceologica del settore auto, ad esempio).
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Søren Kierkegaard (1813-1855) Kierkegaard è, se vogliamo, il secondo grande “avversario” teoretico di Hegel nella filosofia tedesca ed europea dell’Ottocento. Filosofo e teologo, fin da bimbo fu coinvolto nel severo clima pietista della sua famiglie e della Copenaghen del tempo. Di temperamento malinconico, Kierkegaard si rivela comunque anche uomo di spirito, inquieto e contradditorio. Regine Olsen, diciottenne con la quale si fidanza non diventa la sua donna (la rivedrà poche settimane prima di morire a solo 42 anni), perché il filosofo si appassiona ad altro, alla ricerca intellettuale, sentendosi forse inadeguato per un rapporto di coppia. Apprezza Socrate, Gesù e Pascal, ma critica Spinoza, Hegel, Schelling e Schleiermacher, per ragioni diverse. Ce l’ha con i teologi, professionisti del nulla e ipocriti, a suo dire. Peraltro era persona amabile, apprezzato anche da Cristiano VIII, re di Danimarca, che stava volentieri in sua compagnia.
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Il pensiero Kierkegaard contesta la sistematicità hegeliana, poiché, sostiene, l’esperienza è sempre quella di singolo uomo, e non è mai generalizzabile. Filosofi e teologi cercano invano di “trovare la quadra” alla comprensione del mondo, ma falliscono miseramente, perché pensano di poter far stare dentro i loro schemi il mondo stesso: presunzione e arrogante superbia, per lui! La verità dell’uomo è che la sua vita è segnata dall’angoscia della non conoscenza del proprio futuro e del proprio destino: da questa condizione esistenziale di disperazione e angoscia l’uomo può uscire solamente abbandonandosi a Dio.
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Un esistenzialismo? Sappiamo che la corrente filosofica esistenzialista è del XX secolo, con autori insigni come Heidegger, Sartre, Marcel, Camus, Jaspers… (che studieremo). Come si può dunque connettere a questo contesto di un secolo successivo lo stesso Kierkegaard? Se anche per il filosofo danese l’esistenza precede l’essenza delle cose e della vita, contrariamente al pensiero di molti dei filosofi che egli contesta, soprattutto i razionalisti e gli idealisti, Kierkegaard si differenzia dai pensatori sopra citati, perché egli dichiara l’esigenza di superare il dolore e la disperazione, le anomie e il nichilismo dell’esistenza con l’abbandono a Dio. In questo si differenzia profondamente da quelli, che, implicitamente o dichiaratamente, avevano evidenziato una posizione piuttosto ateista, o almeno agnostica, a eccezione di Marcel e qualche altro.
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L’esistenza e il singolo Nel suo diario scrive: “in ogni campo e per ogni oggetto sono sempre le minoranze, i pochi,i rarissimi, i Singoli quelli che sanno: la Folla è ignorante”. Commento mio: come sono d’accordo, ma non per spocchia o superiority complex, ma perché Kierkegaard ha intuito filosoficamente ciò che gli psicologi successivi avrebbero mostrato sperimentalmente (cf. Le Bon, Psicologia della folla). Si può capre la vita e le cose del mondo solo ex-sistendo, cioè stando fuori, individualmente, soggettivamente, senza aspettarsi dall’astrazione generica informazioni veridiche. In qualche modo Kierkegaard echeggia Duns Scoto e Occam, ma anche Agostino e Pascal, forse i primissimi “esistenzialisti”!
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Possibilità, angoscia e disperazione La disperazione dell’uomo svolta in angoscia quando il sentimento di finitudine viene razionalizzato: l’uomo sa di avere davanti un destino in larga parte ignoto, per cui deve fare i conti con ogni incertezza, da quella quotidiana del vivere concreto, a quella progettuale che riguarda il futuro. L’uomo non può non sentire angoscia quando intuisce che “tutto è possibile”, anche quando le cose sembrano andare bene: la malattia non è prevedibile, così come la morte stessa. La vita stessa si pone come una sorta di malattia mortale, ché di per sé non si spiega, si deve solo accettare, com-prendere, senza la pretesa di coglierne gli infiniti fili e vettori causali che la determinano.
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Il paradosso della fede Per Kierkegaard l’unica possibilità di superamento dell’angoscia esistenziale è la fede. Dio è l’unica realtà che può salvare l’uomo, ma richiede una autentico salto senza mediazioni nell’irrazionale, perfino all’accettazione dell’assurdo. Ciò è salvifico, anche se la religione e, più ancora, l’abbandono fiducioso alla fede sono dimensioni incomprensibili per la ragione, specie la credenza in un uomo-Dio, e nella distanza incolmabile che vi è tra l’essere umano e Dio. Solo così si può uscire dalla normalità piatta della religione giuridica e normativa, che non dà alcunché del senso di alterità radicale che un rapporto diretto con Dio può dare.
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Le tre modalità esistenziali Qui imitando il Kant delle tre Critiche, Kierkegaard propone tre modalità esistenziali, che però sono alternative. Egli presenta questa prospettiva nelle opere Aut-Aut e Timore e tremore (1843), nelle quali emergono progressivamente le tre modalità: quella estetica, quella etica e quella religiosa. Kierkegaard si differenzia da Hegel perché non riconosce una possibilità di passaggio, di una progressione tra le tre ipotesi, vedendole radicalmente contrapposte: l’una esclude l’altra come scelta qualitativa, e il passaggio eventuale da una all’altra richiede un autentico salto.
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La vita estetica La vita estetica altro non è che la non-scelta, cioè quella del libertino che non si impegna in nulla, non sceglie mai. L’esteta ha un prototipo, per Kierkegaard, ed è il cavaliere spagnolo Don Juan, Don Giovanni, quello cantato da Mozart, e non a caso, perché la musica è la più sensuale delle arti. Kierkegaard ritiene che l’esteta sia il più misero degli essere umani, perché non riesce a progettare alcunché, vivendo del più banale qualunquismo, incapace di scegliere, di impegnarsi, di dare una prospettiva alla propria vita.
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La vita etica La vita etica è qualcosa di diverso e di più profondamente umano di quella estetica, ma ha ancora dei limiti. Chi sceglie di farsi ispirare da valori virtuosi, di vivere seguendo princìpi coerenti con una morale rispettosa della propria vita e di quella degli altri, ha già fatto un passo avanti rispetto a chi si crede “centro del mondo” cui tutto va asservito, ma… Costui crede nella famiglia, nelle strutture pubbliche e anche nello Stato, e vive una vita coerente nel tempo, senza farsi catturare dalle chimere della provvisorietà e dell’effimero, tipiche dell’esteta puro. Il rischio suo è, però, quello di farsi omologare nei comportamenti generalmente stereotipati della massa, e di non essere in grado di vivere con scelte autonome.
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La vita religiosa In Timore e tremore, Kierkegaard affronta la dimensione religiosa: solo quando l’uomo si pone davanti a Dio realizza finalmente e veramente se stesso! L’esempio si ricava dalla storia di Abramo, l’uomo giusto che ha fede e Dio lo riconosce donandogli il figlio Isacco nella tarda età, ma poi glielo chiede in sacrificio. Mostruosità! Abramo non segue né n’etica né il diritto del suo tempo e del suo popolo, ma segue il comando di Dio, a lui abbandonandosi. È allora che Dio stesso lo riconosce di nuovo come fedele e impedisce il sacrificio. Dio può chiedere allora qualsiasi cosa, e l’abbandono alla sua volontà è la strada più vera, la scelta più giusta. L’esempio di Abramo, infatti, nulla ha a che vedere con il sacrificio di Ifigenia alla dea Artemide da parte di Agamennone, che aveva bisogno di partire per Troia con gli Achei.
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L’angoscia e la disperazione Ne Il concetto di angoscia (angst) e ne La malattia mortale, Kierkegaard sviluppa il tema dell’esistenza come possibilità, come spazio di libertà che all’uomo solo è concesso dalla sua natura di essere autocosciente e libero. La libertà è però un rischio che vive insieme con la vita dell’uomo stesso: la vita offre qualsiasi strada, qualsiasi possibilità di scelta, ma nel contempo offre anche infinite possibilità di caduta, di errore, di perdita. Ciò determina un senso di profonda insicurezza che spesso scivola nella disperazione e nell’angoscia esistenziale, che attanaglia l’anima umana.
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La verità dell’agire Per Kierkegaard le cose non stanno come pensano gli idealisti (Hegel in particolare), di una verità accessibile per via dialettica e razionale. Solo pensando o scrivendo nessun uomo ha accesso alle verità più profonde, che invece sono conoscibili solamente con il rischio dell’agire nel concreto della vita, anche se tale scelta comporta rinunzie e sacrifici. Quindi, per Kierkegaard, è più importante avere una fede da vivere, piuttosto che ideali e una vita ideale senza opere, ma solo con l’arroganza del sapere presunto.
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Il cristiano e il mondo Non può stare insieme, per il filosofo danese, l’ambizione di essere o di diventare grandi per il mondo ed essere veri cristiani. L’una cosa esclude l’altra, è un aut-aut radicale. Per lui la stessa Chiesa luterana che conosceva, era troppo “amica del mondo” per essere pienamente cristiana. La via di Cristo non è larga e comoda, ma stretta e ardua, e a volte impervia come un sentiero montano. “Angusta è la porta e stretta è la via che conduce alla vita” (Mt 7, 14).
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La singolarità di Kierkegaard Kierkegaard è un autore che non tollera di esser inquadrato in schemi, nemmeno in quello “esistenzialista”. Lo spiega benissimo il suo massimo studioso italiano, il padre Cornelio Fabro: “(…) Si tratta di un pensatore che elude gli schemi di qualsiasi scuola teologica o filosofica (…) qui non si tratta di un giro di pensiero che si svolge come un Tutto (Spinoza, Hegel), né di un’intuizione che si dilata da se stessa in sistema (Fichte, Schelling), e neppure di una vita che si fa riflessione di pensiero (Pascal), o di un pensiero che scandaglia gli abissi della vita (Agostino). (…) Gli stessi Discorsi edificanti che si propongono di offrire una comunicazione diretta si sprofondano all’improvviso nei recessi più inaccessibili dello spirito, in una tensione di allucinante dialettica e contemplazione del sacro che consola e punge a un tempo”.
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Friedrich Nietzsche (1844-1900) Nietzsche studia filologia classica a Bonn e a Lipsia, e viene chiamato ancor molto giovane all’università di Basilea. Conosce il pensiero di Schopenhauer e personalmente Richard Wagner, che lo impressiona molto. Nel 1872 pubblica uno dei suoi testi fondamentali: La nascita delle tragedia dallo spirito della musica, molto condizionato dalla lettura di Schopenhauer, e dedicato a Wagner, alla cui musica annette allora grande importanza. Due anni dopo pubblica Sull’utilità e il danno della storia per la vita, ma già comincia a dare segni di difficoltà psichiche, forse dovute a una paralisi progressiva, da cui fu tormentato fino alla morte. Si trasferisce in Engadina e in Italia a Torino, dove soffre di gravi crisi. Riesce a scrivere comunque moltissimo: è del 1878 il fondamentale Umano troppo umano, e i primi quattro libri de La gaia scienza (1882). L’anno dopo è il turno di Così parlo Zarathustra, e del 1886 Al di là del bene e del male. Elisabeth Nietzsche pubblica dopo la morte del fratello La volontà di potenza.
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Dioniso, Apollo e Socrate Nietzsche si rifà all’antica Grecia fin dall’inizio del suo pensiero. Per lui, però, i riferimenti primi non sono quelli di Fidia, Prassitele, o di Socrate, Platone e Aristotele, bensì il pensiero presocratico naturalista e il mondo della tragedia. Egli coglie nello spirito arcaico la verità più profonda dell’umano, uno spirito che si esprime, non tanto con la concezione derivante dalla razionalità “apollinea” e quindi socratica, ma dal “dionisiaco”, dal primordiale, dall’istintivo che c’è in ogni uomo, e che rischia di essere ottenebrato e controllato da un ottimismo teoretico e razionalistico che non ha ragion d’essere.
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La malattia storica Nietzsche critica duramente chi crede nel progresso storico dell’umanità (Hegel), perché questi in qualche modo immobilizza, e quasi imbalsama ogni possibilità per l’uomo di progredire veramente nella sua propria dinamica e verità antropologica. La storia millanta di far conoscere una sorta di “umanità” in generale, laddove invece blocca e impedisce un autentico futuro. Per lui, nell’esaminare la storia umana bisogna abbandonare ogni atteggiamento celebrativo, che lui chiama monumentale, oppure antiquario, e ricercare invece uno spirito critico, che permetta di non ritenere la storia magistra vitae, ma semplicemente il racconto degli eventi umani, che sono sempre sorprendenti e contradditori. Quanto distanti siamo dalla realizzazione dello spirito oggettivo e di quello assoluto di Hegel!
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Cristianesimo e nichilismo Nietzsche rileva in modo scandaloso per il suo tempo alcune contraddizioni fondamentali nel percorso che dalla civiltà greco-romana e poi cristiana hanno portato alla modernità. Egli ritiene che si tratti di un percorso di vero annichilamento dell’umano, in forza degli idealismi dualistici che le dottrine platonico-cristiane hanno sviluppato in duemila anni. Se per Platone il mondo più vero è quello delle idee, e per il cristianesimo la vita terrena non è che una preparazione alla vita eterna, è evidente che vi è un fondamentale rifiuto per tutto ciò che è la vita concreta e reale dell’uomo, in nome di un aldilà altamente improbabile.
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La “morte” di Dio La morte di Dio per Nietzsche ha poco a che fare con gli ateismi contemporanei: piuttosto si colloca sul versante di una critica radicale al cristianesimo paolino, che, secondo lui, si è distaccato progressivamente ma nettamente dalla lezione evangelica, quella di Gesù stesso, che egli invece apprezza molto, per la sua radicalità e semplicità. Secondo il filosofo di Rocken, Paolo ha travisato il messaggio di Cristo proponendo un dualismo inaccettabile: anima-corpo, spirito-carne, vita celeste- vita terrena, in modo che l’uomo credente si è sentito e si sente dissociato in quella unità antropologica per cui è costituito. In questo senso per Nietzsche “Dio è morto”, ma si tratta di un “dio disumano”!
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Il rovesciamento dei valori Per Nietzsche dunque occorre una sorta di rovesciamento dei valori, ma non nel senso che i valori correnti (correttezza, lealtà, onestà, laboriosità, sobrietà, etc.) non siano validi e da salvaguardare, ma nel senso che questi valori sono al servizio di una visione veramente nichilista della vita umana e pertanto occorre rivedere tutto l’impianto e il senso di una vita impostata sulla negazione, sulla rinuncia e sulla paura. Se si rifiuta questo stato di cose negandolo, per il filosofo si dà prova di una grande forza reattiva, capace di rovesciare la situazione e di trasformare l’indebolimento attuale in nuovo slancio vitale. L’uomo deve quindi trovare l’energia per superare questo stato di cose, e superandosi, andare oltre (realizzando il super-uomo, che non è Rambo!, ma un uomo che si realizza completamente e coerentemente in tutta la sua umanità).
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Il superuomo Chiariamo qui, per quanto possibile, uno dei maggiori fraintendimenti (specialmente da parte delle destre politiche più estreme del XX secolo)della dottrina nitzscheana, quella del superuomo. Con questa espressione, Nietzsche, citando Zarathustra, non intende nulla di mistico-esoterico quasi mitico, od evocativo delle semidivinità del periodo greco-arcaico. Egli intende affermare il diritto e il dovere dell’uomo di mettersi nelle condizioni di realizzarsi in tutte le sue potenzialità, vincendo i legami che il nichilismo formatosi nei secoli lo hanno condizionato e vinto. Pochissimi uomini, i geni dell’arte, della scienza e delle attività umane più elevate sono riusciti a superarsi, ma questo dovrebbe essere possibile, proporzionalmente alle caratteristiche individuali, a tutti gli uomini e a ciascuno. Allora anche le virtù umane saranno realizzate!
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L’eterno ritorno e la volontà di potenza Per Nietzsche non vi è finalismo nel mondo e non si deve neppur dare la “domanda antropologica”: perché il mondo e non no? Non vi è senso nella realtà, che è ed esiste anche senza le spiegazioni richieste dalla domanda di senso tipicamente umana. Questa domanda naturale non s’ha da porre, ma semplicemente prender e atto che ogni cosa può dipendere da mille fattori che l’uomo non controllo, e pertanto egli (l’uomo) deve darsi da fare per realizzare di più e meglio tutte le potenzialità di cui è dotato. Sembra quasi che la filosofia di Friedrich si attorcigli in un loop senza via d’uscita, ma non è così: Nietzsche scopre i sepolcri imbiancati della finzione che si è nascosta dietro i grandi sistemi filosofici e anche religiosi e invita l’uomo a viaggiare la propria vita autenticamente, mettendo in conto il dolore e il fallimento, ma anche la possibilità di diventare veramente ciò che rischia di rimanere pura potenzialità.
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Il positivismo Il positivismo è un po’ il rovesciamento dei valori culturali finora invalsi alla metà circa del XIX secolo: fino ad allora i sistemi filosofici erano stati considerati la cultura maggiore, mentre le scienze sperimentali dovevano stare quasi a protezione del solido usbergo della filosofia. Ora, tutto ciò è messo in discussione da un movimento culturale, che è anche pratico, tecno-scientifico, economico e sociale. Le scienze fisiche e naturali prendono il sopravvento e si pongono in una posizione preminente rispetto alle dimensioni meramente speculative della filosofia.
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Evoluzione e progresso Per i positivisti, l’uomo può progredire, ma non come pensavano gli illuministi e i loro precursori del XCII secolo eliminando le tenebre dell’errore, o come gli idealisti che ritenevano la storia come progressiva realizzazione dello spirito, bensì come processo e conquista sofferta, drammatica di un avanzamento civile ed economico dell’umanità. La vita umana e la società hanno pertanto bisogno dell’impegno diuturno della ricerca scientifica e del lavoro, cui le dottrine positiviste annettono grande e quasi incondizionata fiducia. La dura battaglia potrà essere vinta, ma il costo elevato e ineluttabile.
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Utilitarismo e individualismo L’uomo, per i positivisti, deve progredire e con l’individuo tutta la società. Pertanto il fine deve essere comune, cioè il raggiungimento del massimo utile per ciascuno e per tutti. Pensatori come Jeremy Bentham (1748-1832) e John Stuart Mill (1806-1873) studiano e propongono queste tesi come le sole che possono migliorare la condizione umana. Ma in particolare il Mill, che si può definire quasi come un “epicureo” contemporaneo, sostiene che ciò che conta non è la quantità di piacere o felicità ottenibile, (posto che si possa misurare!). Celebre è la sua paradossale affermazione: “Meglio essere un uomo insoddisfatto che un porco soddisfatto, oppure meglio essere un Socrate insoddisfatto che un uomo stupido, anche se il porco e lo stupido possono non essere d’accordo”.
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Una nuova scienza: la sociologia Il tempo nel quale si sviluppano le dottrine positiviste è un tempo nel quale gli aspetti e i fenomeni sociali assumono sempre maggiore importanza, al punto che si delinea lo statuto epistemologico, potremmo dire, di una nuova scienza, finora trattenute tra le pieghe delle scienze filosofiche, antropologiche ed economiche: la sociologia. Risulta evidente a quei ricercatori che occorre porsi con un atteggiamento più specificamene dedicato allo studio dei fenomeni sociali in quanto tali, pure se condizionati da tanti fattori: l’economia, la politica, la cultura, le religioni. Lo studio della vita sociale viene dunque concepito quasi analogamente allo studio delle scienze naturali, in quanto la società stessa è un ambiente dove accadono fenomeno naturali, pure se caratterizzati dalle scelte umane, soggettive, e collettive. La sociologia assume dunque dignità di scienza autonoma.
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Scoperte scientifiche e metodologie Nel periodo cui ci riferiamo, avvengono anche alcune delle maggiori scoperte scientifiche della modernità: da Darwin a Maxwell a Mendeleev, nuovi orizzonti si aprono all’uomo nello studio dell’intera natura. La scoperta delle leggi concernenti l’elettromagnetismo, l’evoluzione delle specie e la tavola degli elementi chimici, ma la stessa nozione legata al secondo principio della termodinamica o alla modalità ondulatoria e non corpuscolare degli elementi costituitivi della materia, e della luce in particolare, oltre ad altre scoperte nel campo medico e biologico danno il segno di una rivoluzione del sapere senza precedenti. L’uomo ottocentesco trova nello spirito positivista una rinnovata volontà di ricerca del sapere sulla natura e su suoi fenomeni.
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Auguste Comte (1798-1857) Studia all’Ecole polytecnique di Parigi manifestando doti eccellenti in campo matematico e scientifico. Incontra Saint-Simon, il filosofo socialista utopista e si convince dell’esigenza di lavorare per un profondo cambiamento sociale, ma in base a principi scientifici. Scrive nel 1825 il Prospetto dei lavori scientifici necessari per riorganizzare la società, e, nel 1830 il Corso di filosofia positiva. Fonda nel 1830 l’Association polytecnique destinata alla rigenerazione del popolo sulla base delle nuove idee positiviste. Nel 1848 fonda la Societè positiviste e nel 1849 la Chiesa universale della religione dell’Umanità, con le quali si propone di modernizzare il pensiero sociale, e di emancipare culturalmente le persone, togliendole dall’egemonia delle tradizioni culturali e religiose. Da ultimo, tra il 1851 e il 1854 pubblica il Catechismo positivista, compendio generale delle sue dottrine sociologiche, politiche e religiose.
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La riorganizzazione della società Comte ritiene che il complesso sociale vada riorganizzato in base a rigorosi principi scientifici. Prendendo le mosse dalle ipotesi riformistiche di Saint-Simon, egli ritiene che la storia si dipani tra epoche organiche ed epoche critiche, come quella appena vissuta dalla Francia con la Rivoluzione. Per evitare il rischio di sempre possibili involuzioni, Comte sostiene che si debba uscire, sia dalle improvvisazioni rivoluzionarie, sia dalla chimeriche ipotesi concernenti l’aldilà delle teologie, per concentrarsi sulle dottrine positive e sulle scienze, cioè su ciò che l’uomo può, con le sue forze, pensare, progettare e costruire.
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La legge dei tre stadi Il filosofo francese delinea un’interpretazione generale della storia umana, proponendo tre stadi di sviluppo (echi gioachimiti? O vichiani?): a) vi è stata un’infanzia del genere umano alla quale corrisponde, nella storia del pensiero umano la dimensione teologica; b) vi è stata poi una giovinezza, cui corrisponde la dimensione filosofico-metafisica; c) infine, una maturità, cui corrisponde la dimensione positiva, quella attuale. Immaginazione (teologia), Ragione (metafisica), Scienza (positivismo) sono appunto i tre stadi dello sviluppo umano che Comte individua.
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Gerarchia delle scienze Comte vede una sorta di successione nella classificazione ed elencazione temporale delle scienze, nonché una sorta di gerarchia costituita da una crescente complessità e nel contempo da una decrescente generalità: per lui è normale che l’uomo si sia interrogato progressivamente e sia riuscito ad approfondire i saperi, a partire da quelli più ampi, come l’astronomia, seguita poi dalla fisica, dalla chimica e dalla fisiologia dei viventi (biologia e psicologia), per terminare nello studio dei fenomeni sociali, come ambiente epistemologico in cui si riassume lo studio dei comportamenti umani. Sull’altro versante la matematica deriva dalla logica e poi rende possibile la geometria, l’algebra e le altre discipline matematiche.
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La fisica sociale o sociologia Le cose e i processi sociali, per Comte, funzionano come una sorta di fisica, perché nulla hanno a che vedere con la teologia e la metafisica, saperi che nel tempo hanno fuorviato le analisi umane. Il processo in ambito sociale deve tener conto di dinamiche che non sono mai state studiate in maniera scientifica, ma solo in base a pregiudizi e precomprensioni di carattere astratto, avulso dai meccanismi reali. La sociologia è la scienza che riesce a sistematizzare questi processi, leggendoli in base a sue specifiche leggi, senza farsi influenzare da saperi non correlati ai fatti ch accadono e ai comportamenti umani nei gruppi associati in vario modo.
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La filosofia positiva La filosofia per Comte poco o nulla ha a che fare con le dottrine precedenti, perché si basa sui fatti reali, senza mediazioni metafisiche o teologiche. È una filosofia del concreto realissimo e fattuale, è una lettura degli accadimenti così come sono, senza interpretazioni arbitrarie, soprattutto se inquadrate in schemi precostituiti, come nel razionalismo del XVII e nell’idealismo del XVIII/ e XIX secolo. L’uomo e le sue azioni soggettive e collettive è l’unico soggetto di riferimento: altro non v’è, né Dio né dottrine, né prospettive ultraterrene, né alcunché non sia misurabile e sottoponibile all’analisi scientifica.
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La religione dell’Umanità Alfine, Comte non resiste alla tentazione di sostituire alla religione che ammette Dio come Essere supremo, una sorta di religione dell’Umano, nella quale ogni uomo ha dei doveri verso se stesso e verso tutti gli altri: non più diritti metafisici, ma virtuosità dei doveri, che costituiscono l’asse attraverso il quale ognuno può comprendere il proprio posto nel mondo, senza pretese ulteriori, se non quella di realizzare tutto se stesso insieme con gli altri. Non solo utopia generosa, quella di Comte, ma invito forte all’assunzione di responsabilità individuale e di una pratica di vita morale disinteressata e generosa.
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Charles Darwin (1809-1882) Stimolato dalla lettura di un testo del nonno Erasmus Darwin, Charles Darwin studia medicina a Edimburgo e teologia a Cambridge, ma non si laurea. Si imbarca invece sulla nave Beagle per un viaggio intorno al mondo che dura dal 1831 al 1836, viaggio che gli permette di coltivare la sua vera passione, quella per le scienze naturali, e così maturare le idee per le sue opere future. Ritiratosi nel villaggio di Down, dove rimane fino alla morte, egli elabora lì le sue teorie che espone nei fondamentali studi: L’origine delle specie per mezzo delle selezioni naturali (1859) e L’origine dell’uomo (1871). Altre interessanti opere sono: l’Autobiografia, pubblicata postuma (1887) e il Diario del suo viaggio intorno al mondo (1839).
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L’evoluzione delle specie: la selezione naturale Dalle idee di Linneo (1707-1778), che sosteneva la fissità delle specie fina dalla creazione, alla concezione moderatamente evoluzionistica di Buffon, sono le idee di Jean-Baptiste Lamarck a colpire particolarmente Darwin. Lamarck, con l’opera Filosofia zoologica aveva infatti sostenuto l’esigenza delle specie d i evolvere per adattarsi all’ambiente e per adeguarsi a una specie di “lotta per la sopravvivenza”. Ma forse altri due studiosi, un geologo Charles Lyell (1797-1975), e un demografo Thomas Robert Malthus (1766-1834), lo ispirano di più: il primo con la teorie dell’evoluzione della terra e il secondo con la dottrina dell’espansione demografica in rapporto all’espansione economica. Ambedue evoluzionisti, suggeriscono indirettamente a Darwin l’analogia che riguarda l’evoluzione naturale delle specie, tramite una selezione naturale.
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L’origine dell’uomo. La coscienza e la morale Quando Darwin volge la sua attenzione all’uomo, ecco che le sue ipotesi cominciano a creare problemi molto più seri, perché mettono in questione tutte le concezioni razionalistico-teologiche precedenti! Darwin afferma e scrive che anche l’uomo è frutto di un’evoluzione da forme di vita animale precedenti (i primati in primis), e che la sua evoluzione, ha comportato una crescita sotto ogni profilo, a partire da quello intellettuale. La crescita intellettuale, per Darwin, comporta anche la crescita del livello di coscienza e quindi di senso morale. Le più recenti ricerche neuroscientifiche sembrano confermare questa tesi, quando rilevano un progressivo aumento fisico dei lobi pre-frontali del cervelli, aree della corteccia preposte al raziocinio e allo sviluppo del pensiero.
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Herbert Spencer (1820-1903) Spencer nasce e cresce in una famiglia molto religiosa. Studia a Derby matematica e ingegneria, ma bene presto mostra un interesse molto eclettico per la filosofia naturale e sociale. Egli infatti ritiene che anche la società degli uomini, le varie comunità e popoli si evolvano, si sviluppino e si modifichino analogamente alle specie naturali. Scrive molti testi in modo sistematico: i Principi primi, cui seguono i Principi della biologia, i Principi di psicologia, i Principi di sociologia e infine i Principi di moralità. Si può dunque definire uno studioso di discipline raggruppabili nel plesso antropologico-sociale, con mentalità forse abbastanza vicina a quella dei nostri tempi.
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La legge dell’evoluzione: principio unitario della realtà Spencer, come riconosciuto da Darwin stesso, arriva forse prima di lui ad un evoluzionismo sistematico, che egli cerca di applicare come legge di conoscenza di tutta la realtà, non solo di quella naturale. Egli sostiene che l’intera realtà si muove secondo un principio che prevede il passaggio dall’omogeneo all’eterogeneo, dall’indefinito al definito, dall’incoerente al coerente: ciò comporta l’accettazione di una serie di princìpi: a) l’indistruttibilità della materia, b) la continuità del movimento, c) la persistenza della forza. l’evoluzione avviene pertanto in maniera sistematica o, come scrive Spencer, ritmica, come seguendo un percorso dettato dalle forze naturali e dall’interazione umana.
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La relatività della conoscenza e l’Inconoscibile Spencer concepisce la conoscenza come una possibilità sempre relativa, in qualche modo analogamente agli empiristi classici, ma in assoluto no troppo distante dal criticismo kantiano. Se condivide di Kant il concetto di inconoscibilità della cosa in sé (il noùmeno), propone però una possibilità di conoscenza non tanto del fenomeno come manifestazione puntuale della realtà, ma come manifestazione continua, evolutiva della realtà stessa. Se con gli empiristi condivide in generale la metodologia della ricerca, ne propone però una variante significativa: la presenza di un a-priori derivante dal principio dell’evoluzione e dell’ereditarietà. Per Spencer, in definitiva non ci si può aspettare qualsiasi cosa e il suo contrario, ma ciò che è intrinsecamente presente in potenza nell’oggetto studiato (qui si può notare anche un retaggio scolastico sul concetto di natura, come forma e principio vivente).
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L’evoluzione in campo politico e sociale Molto interessante la posizione socio-politica di Spencer, del tutto alieno da militanze politiche o ideologiche. Per lui anche nella società e nell’evoluzione politica dei sistemi occorre lasciare che le forze in campo si assestino, senza particolari costrizioni. Non è possibile cambiare per migliorare se si costringe l’uomo dentro schemi e gabbie precostituite, obbligando popoli e nazioni a regimi cui non sono abituati e per i quali non sono maturi (vien qui da pensar alla democrazia esportata con la guerra cara a George W. Bush!). Sarà il tempo e l’evoluzione che porteranno l’uomo a veder conciliato al meglio il suo interesse privato e quello pubblico. Sembra quasi di leggere un fondamento filosofico di una sorta di liberalsocialismo democratico.
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Nuovi orientamenti delle scienze Il positivismo ben preso rivela il suo dogmatismo, diventando quasi una specie di religione laica. Sono le scienze naturale i fisiche stesse che, con la loro evoluzione e grazie alle scoperte mettono in crisi il dogmatismo. Mentre lo scientismo di marca positivista stava cercando di fondare una riforma armoniosa della vita umana e della società civile, erano le scienze stesse che, evolvendo, cominciavano a mettere in questione certezze consolidate, ipotizzando che il cammino della conoscenza dovesse passare attraverso una continua verifica e ipotesi successiva. La scoperta delle matematiche non euclidee, la teoria della relatività generale e quella dei quanti, preludevano già al principio di indeterminazione che di lì a qualche anno Heisenberg avrebbe fondato. Il meccanicismo scientista positivista. era dunque sempre più un crisi.
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Le scienze umane La psicologia si affranca accademicamente dalla filosofia di cui era stata finora una branca, come filosofia razionale, e inizia il suo percorso sperimentale, che bene presto si articola in vari orientamenti di scuola, da quelli più biologisti e mentalisti, come il comportamentismo, a quelli più speculativi come la psicanalisi di Freud, la psicologia del profondo di Jung, o quella della Gestalt, o della forma. Sotto il profilo filosofico si manifesta anche la corrente detta empiriocriticismo (Avenarius e Mach), la quale si propone di liberare la speculazione filosofica da ogni residuo bagaglio di carattere idealistico o metafisico, superando perfino la distinzione tra soggetto che percepisce e definisce, e oggetto percepito, e quindi ogni dualismo classico, del tipo anima-corpo, fisico-psichico, etc..
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Le geometrie non euclidee Matematici come Carl F. Gauss (1777-1855), Nikolaj I. Lobačevskij (1793-1856) e Bernhard Riemann (1826- 1866, con le loro ricerche posero in questione l’assolutezza delle geometrie euclidee, sostenendo che, in condizioni diverse dalla spazio conosciuto e sperimentato a tre dimensioni, come il nostro, spazio a due o a quattro dimensioni, gli assiomi o postulati euclidei cessano di esser validi: ad esempio la somma degli angoli interni di un triangolo equilatero inscritto sulla superficie curva di una sfera è comunque superiore a 180°. Oppure la possibilità che per un punto esterno a una retta possa passare più di una parallela alle retta stessa, etc..
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La teoria della relatività e i quanti Albert Einstein (1879-1955) e Max Planck (1858-1947) rivoluzionano letteralmente una parte consistente della fisica classica galileiano-newtoniana. Il primo con la teoria della relatività e generale e i secondo con la teoria dei quanti, mettono in questione inveterate convinzioni scientifiche: a) con la relatività generale si critica in modo decisivo l’ipotesi newtoniana del tempo assoluto, correlando invece il tempo allo spazio in maniera indissolubile (alla velocità della luce il tempo quasi non scorre ovvero tra il punto di partenza e il punto di arrivo in un secondo, appunto vi è un secondo di differenza, a un anno-luce si possono teoricamente cogliere gli eventi accaduti a un anno di distanza, l’anno prima); b) con la teoria dei quanti mostra come la materia e anche la luce, finora concepite solo come oggetti corpuscolari, nei loro stadi dimensionali infinitamente piccoli di carattere ondulatorio, non abbiano comportamenti prevedibili e quindi possano essere perturbate dall’osservatore stesso, così come prevede il principio di indeterminazione di Heisenberg, cui lo stesso Planck contribuì, senza però destituire di validità il principio classico di causalità.
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Émile Boutroux (1845-1921) Boutroux studia a Parigi e a Heidelberg dove consegue il dottorato con la tesi La contingenza e le leggi di natura. Insegna poi alla Normale parigina e alla Sorbonne. Nel 1902 lascia l’insegnamento per dirigere la Fondazione Thiers. Il suo posto nella filosofia contemporaneo è legato soprattutto alla revisione di alcune ipotesi epistemologiche positiviste che al tempo avevano conquistato molti spazi. Boutroux ritiene che siano relativamente autonome solo alcune scienze, come la matematica, la fisica e l’astronomia, mentre altre, come la chimica-fisica, la biologia e le scienze dell’uomo (psicologia, sociologia, antropologia culturale etc.) non possano essere considerate l’una la prosecuzione dell’altra, ma possiedano anche una specifica autonomia. In altre parole lo psicologico umano non può derivare del tutto dal biologico, e questo dal chimico-fisico.
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Il contingentismo: scienza, libertà e religione Per Boutroux sia Cartesio sia Kant non hanno ragione quando sostengono, rispettivamente che, le leggi scientifiche hanno tutte basi matematiche e consistono in strutture cognitive a-priori insite nell’uomo. Accade invece che l’uomo abbia bisogno di costruire apparati simbolici per rappresentare le leggi scientifiche. Questo è l’unico modo che permette di mantenere aperta la ricerca di sempre nuovi approfondimenti delle leggi scientifiche, che non devono essere imbalsamate in formule fisse e irrevocabili. Questo filosofo, infine, riprende la tematica pascaliana dell’esprit de finesse, che serve all’uomo per comprendere le cose oltre e al di là degli schemi rigidi di un determinismo scientifico. La religione può dunque convivere con la scienza, perché raggiunge dimensioni umane altrimenti irraggiungibili.
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Jules-Henry Poincaré (1854-1912) Poincaré studia a Nancy, all’Ècole Polytecnique di Parigi, all’Ècole des Mines e alla Sorbonne, conseguendo diversi titoli accademici: una laurea in matematica, un a in ingegneria e il dottorato di ricerca in matematica. Poliedrico e intuitivo, alterna l’attività di docenza (a Caen insegna Matematica, e poi a Parigi, Meccanica Fisica e sperimentale, Fisica Matematica, Teoria della Probabilità, Meccanica Celeste ed Astronomia), a quella di dirigente industriale alla Societè Mineraire francese. Diede molti contributi in vari campi, scrivendo anche pubblicazioni divulgative: topologia algebrica, geometria algebrica, geometria iperbolica, teoria dei numeri, elettromagnetismo, matematica quantistica, etc..
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Il convenzionalismo e l’oggettività della scienza Per Poincaré la scienza, e in particolare la geometria e la matematica non possono dare soluzioni assolute, cioè indefettibili e inconfutabili, in ragione della possibilità di darsi diverse ipotesi, soprattutto con le nuove ipotesi non euclidee. Per tale ragione la tesi generale del filosofo-matematico è chiamata, con qualche ambiguità “convenzionalismo”. In realtà ogni scienza richiede continue verifiche, che consentano di dar senso alle sempre nuove relazioni che si realizzano dentro ogni scienza e tra le scienze umane e naturali.
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Werner Heisenberg (1901-1976) Heisenberg, insieme con Bohr, che conobbe a Gottingen, Einstein, Planck e Dirac rappresenta il vertice della ricerca della fisica teorica del ‘900. Nei primi trent’anni del secolo scorso le scienze fisiche hanno compiuto passi giganteschi, passando da una visione rigidamente newtoniana, che viene messa in questione da Maxwell, a una visione che, senza respingere le scoperte del grande scienziato inglese del XVII secolo, le colloca correttamente nell’ambito degli eventi registrabili e misurabili sulla terra, con l’avvertenza di ammettere nuove leggi fisiche, se applicate al cosmo, tra le quali la relatività generale e i quanti.
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Indeterminazione e causalità Il principale contributo di Heisenberg è il famoso Principio di indeterminazione (1927), che si inserisce nelle ricerche sulle micro-particelle di materia e della teoria dei quanti. Per il fisico tedesco la misura simultanea di due variabili coniugate, come posizione e quantità di moto oppure energia e tempo, in presenza dell’osservatore, non può essere compiuta senza un’incertezza ineliminabile. Si tratta appunto dell’indeterminazione, che, nella dimensione micro, mette in questione lo stesso classico principio di causalità. Premiato con il Nobel nel 1932, aderisce al programma nucleare nazista (1939) di cui però non si sa molto: in ogni caso la sua figura rimane in ‘un’aura in qualche modo ambigua per questa ragione, che mise anche in questione la sua antica amicizia con Bohr.
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Sigmund Freud (1856-1939) Sigmund Freud studia medicina a Vienna ed ottiene nel 1885 la libera docenza in psicopatologia. Nel 1892 scrive gli Studi sull’isteria con il dottor Breuer. Nel 1889 dà alle stampe L’interpretazione dei sogni, nel 1901 Psicopatologia della vita quotidiana. Seguono i Tre saggi sulla vita sessuale l’anno dopo e nel 1909 compie con Jung un importante viaggio negli Stati Uniti d’America dove presenta la nuova dottrina psicoanalitica. Nel 1912 pubblica il fondamentale Totem e tabù e nel 1920 Al di là del principio di morte. Freud allarga i suoi interessi alla psicologia sociale con i saggi Psicologia delle masse e analisi dell’io e Disagio della civiltà nel 1920. Scampato alla persecuzione antiebraica del nazismo, nel 1938 scrive a Londra il Compendio di psicanalisi, rimasto incompiuto.
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La psicologia del profondo L’importanza culturale e sociale di Freud è fuori discussione. A partire dagli esperimenti di Breuer con l’ipnosi, il medico viennese inizia a considerare due ambiti: a) l’interpretazione dei sogni e, b) l’analisi dei lapsus, delle fobie, delle ossessioni e delle dimenticanze, ritenendo che ambedue queste fonti potessero dire qualcosa di importante sullo stato psichico delle persone. In questo modo Freud esce da una interpretazione solamente organicistica degli stati e dei disagi mentali. La divisione della struttura della mente in tre livelli. L’Es (Id) a rappresentare l’Inconscio, l’Ego a rappresentare il Conscio, e il Super-ego a rappresentare la Coscienza, permette a Freud di strutturare una mappa molto efficace delle interconnessioni sussistenti tra vita corporea e vegetativa e vita psichica. La forza che muove, fin dall’infanzia, tutto il sistema psico-fisico è la Libido intesa come pulsione di desiderio condizionante e irresistibile.
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Eros e Thanatos Per Freud Eros è principio di piacere e spinta verso l’oggetto desiderato (cf. in Platone), ma ha un contraltare, Thanatos, che è l’stinto distruttivo, l’istinto di morte, come se l’uomo avesse intrinsecamente nella propria natura una sorta di pars construens e di pars destruens. Questa focalizzazione freudiana sulla Libido erotica, dopo una prima fase di concordia e di ricerca comune, porta al distacco dal mestro viennese di Alfred Adler (1870-1937), e soprattutto di Carl Gustav Jung (1875-1961), che si differenzia fortemente dal fondatore della psicoanalisi, ritenendola troppo orientata ai fondamenti binari proposti da Freud, e preferendo uno sguardo più ampio e complessivo sulla struttura umana, la sua storia, i linguaggi, la simbolica archetipica e i tipi caratteriali (introverso/ estroverso, etc.).
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La filosofia italiana dell’Ottocento La filosofia italiana del XIX secolo è strettamente collegata alla dimensione storica e politica. Da un lato si riscontra una forte influenza di Vico, dall’altra si muovono orientamenti molto originali, anche se legati alla tradizione classica greco-latina, come in Rosmini. Il movimento post-illuminista si sviluppa a Milano con cenacoli e riviste, e annovera tra gli altri i nomi dei fratelli Alessandro (1741-1816) Pietro Verri (1728-1797), di Giuseppe Ferrari (1811- 1876), di Cesare Beccaria (1738-1794), filosofo del diritto e giurista, notissimo per il trattato “Dei delitti e delle pene.” La “scuola napoletana” annovera studiosi come il Romagnosi (1761-1835) e Pasquale Galluppi (1811-1846), né dimentichiamo il grande rilievo filosofico dello stesso Giacomo Leopardi, con le Operette Morali e lo Zibaldone di pensieri.
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Antonio Rosmini (1797-1858) Antonio Rosmini si è già laureato in teologia e diritto a Padova, quando viene ordinato sacerdote. Fonda l’ordine religioso della Carità, ma si dedica con grande passione alla riflessione filosofica e teologica, non evitando problemi non da poco con la gerarchia e il papato stesso, per le sue rigorose posizioni. Il suo scritto fortemente critico Delle cinque piaghe della Santa Chiesa (1848) e il trattato Costituzione secondo la giustizia sociale dello stesso anno gli creano problemi tali da essere posto, come autore, all’Indice dei libri proibiti. I suoi scritti successivi più importanti: il platonico Nuovo saggio sull’origine delle idee (1830), i Princìpi della scienza morale (1831), la Filosofia della morale (1837), la Filosofia della politica (1839), la Filosofia del diritto (1841-45) e la Teodicea (1845).
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L’idea dell’essere Filosoficamente il Rosmini si oppone, sia al sensismo e all’empirismo, sia al criticismo kantiano: egli sostiene che la realtà non è una semplice funzione del soggetto (realismo classico), ma un qualcosa che esiste in quanto indipendente dal soggetto percettore, sotto il profilo ontologico. Per Rosmini l’essere è un lume che si accende nella mente e da questa è intuito come verità inoppugnabile, senza che ciò significhi di poter cogliere la sua essenza: e ciò è tanto più vero in tanto in quanto l’essere è dato da Dio stesso, essendo Dio l’Essere in sé, inconoscibile. Questo essere non è solo ideale, ma è anche concreto nella percezione che l’uomo ha di se stesso, ed è anche un essere morale, nel momento in cui la coscienza illuminata dalla fede discerne l’azione buona dall’azione mala, laddove l’uomo deve essere sempre considerato come fine e mai come mezzo.
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Vincenzo Gioberti (1801-1852) Ordinato sacerdote nel 1825, Vincenzo Gioberti è all’inizio influenzato dalle nascenti dottrine risorgimentali, non senza interessare, però, un sovrano come Carlo Alberto, che lo nomina suo cappellano. Ben presto le cose cambiano: Gioberti, accusato di complotto viene arrestato e bandito dal Regno sabaudo senza processo. Ripara a Parigi e poi a Bruxelles dove insegna filosofia, ma torna a Torino nel 1848, rifiutando lo scranno senatoriale offertogli dal re, ma accettando di essere nominato deputato. Nominato Presidente del consiglio nel 1849, termina con l’ascesa al trono di Vittorio Emanuele II la sua carriera politica, iniziandone una diplomatica a Parigi, dove muore a 51 anni in povertà. Gli è stato dedicato un liceo classico a Torino.
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Pensiero e opere Il pensiero di Gioberti è di tipo classico, quasi scolastico: per lui l’Ens, cioè Dio crea l’existens ex nihilo. Da Dio vengono le idee della conoscenza umana che si rispecchia in Dio stesso, e si manifestano attraverso il linguaggio. È sostanzialmente un neo-platonico moderno. Per Gioberti la civiltà si identifica con la religione, come sostiene nel Primato morale e civile degli italiani. Prima di questo trattato aveva scritto anche testi filosofici e teologici come La teorica del sovrannaturale, l’Introduzione allo studio della filosofia, Del bello e Del Buono, il Rinnovamento civile dell’Italia. Tutti scritti che possiamo definire “ortodossi” dal punto di vista cattolico, ma che non gli fecero mancare, per un certo periodo, l’iscrizione nell’Index librorum prohibitorum.
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Hegelismo e materialismo storico: B. Spaventa e A. Labriola (1817-1883) (1843-1904) Bertrando Spaventa, sacerdote napoletano, ben presto abbandona l’abito talare, dedicandosi all’insegnamento della filosofia nelle università di Bologna e Napoli. La sua concezione storico-teoretica collega inmodo organico la storia della filosofia moderna italiana a quelle europea, sostenendo che i pensatori italiani sono stati precursori di quelli europei: Telesio e Campanella di Bacon, Locke e Descartes; Bruno di Spinoza e Leibniz; Vico di Hegel stesso. Antonio Labriola, docente di filosofia morale a Roma, si inquadra nel marxismo teorico in qualche modo definibile come ortodosso, distinguendo rigorosamente gli elementi della struttura sociale, come quelli economici, giuridici e morali, da quelli più sovrastrutturali, come la religione, l’arte e la scienza.
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Il positivismo: Cattaneo e Ardigò (1801-1869) (1828-1920) Carlo Cattaneo si distingue per un’impostazione teorica di impostazione positivistica, naturalistica e anti-cartesiana. Egli cerca di accreditare un’idea, un’esigenza di dare importanza alla socialità, alla dimensione collettiva, non solo statuale, ma legata alle comunità locali, federalista. Roberto Ardigò, anch’egli, come Spaventa, vive l’esperienza del passaggio da sacerdote a laico. Egli studia il pensiero positivo di Spencer, criticandolo, con una sottolineatura: l’evoluzione di tutti gli ambiti umani e cosmici è continua e infinita, talché altrettanto occorre pensare dello sviluppo umano: da non trascurare la sua teoria pedagogica della costruzione di un’abitudine tale da costruire un percorso di crescita individuale e sociale.
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Pensiero e azione nel Risorgimento: G. Mazzini Pensiero e Azione è l’endiadi, il sintagma della dottrina e della prassi di Giuseppe Mazzini, pensatore e agitatore politico emblematico dell’Ottocento risorgimentale italiano ed europeo. La sua visione cerca di coniugare il tema della libertà con quello della patria, connettendoli in modo inscindibile. Per lui il luogo della patria e della libertà è la nazione, non come un tutto-organico di tipo illuministico-positivistico, ma come un luogo ideale e morale di comunità e di valori condivisi. Un altro aspetto altrettanto importante della sua dottrina, è l’afflato all’uguaglianza sociale, che si differenzia profondamente dall’ipotesi comunistica di Marx, ma anche dal liberalismo classico, poco attento ai diritti sociali generali, e più attento all’individuo. Ma il tema centrale del pensiero mazziniano è la dimensione spirituale, che ispira e ricomprende tutte le altre, dando l’afflato morale a tutto l’agire umano individuale e collettivo. La dimensione religiosa assume dunque anche una valenza laica.
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Il liberalismo moderato Possiamo annoverare in questo orientamento politico-filosofico figure come Alessandro Manzoni, il Gioberti, d’Azeglio, Cesare Balbo. Costoro si possono considerare cultori di un’impostazione comune, che ha nella storia il minimo comun denominatore. È in quel periodo che a Torino e Firenze vengono istituite Facoltà universitarie e Studi dedicati alle discipline storiografiche (il Viesseux a Firenze e la Deputazione di Storia patria a Torino). L’europeismo è un altro sentimento che cresce, anche per la sensibilità del maggior politico del secolo italiano (e forse dell’intera storia italiana contemporanea), Camillo Benso conte di Cavour. Tale indirizzo politico, purtroppo, non avrà un prosieguo molto felice, se perfino ai giorni nostri si è alla ricerca di un soggetto che lo rappresenti dignitosamente.
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Il liberalismo radicale Giuseppe Ferrari e Carlo Cattaneo, come rappresentanti del liberalismo radicale, si differenziano non poco sia dal Mazzini, sia dai moderati: dal pensiero mazziniano perché non respingono la possibilità di alleanze progressive con le stesse monarchie, al fine di creare un meccanismo di progresso sociale; dal pensiero liberale moderato, perché non si accontentano di una riformismo di aggiustamento, ma pretendono di percorrere un itinerario molto più lungo e finalizzato a realizzare nel corso del tempo una vera e propria sovranità popolare democratica e rappresentativa delle esigenze di tutti. In questo contesto anche le patrie e le nazioni, e solo se organizzate in modo federalista, hanno un ruolo di liberazione progressiva dei popoli, in un contesto nel quale libertà e giustizia si coniugano in armonia.
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Benedetto Croce (1866-1952) Di famiglia abruzzese agiata Benedetto Croce è ospite a Napoli di Silvio Spaventa (fratello di Bertrando). A Napoli studia giurisprudenza senza laurearsi mai. Ascolta però con grande interesse le lezioni di Antonio Labriola, sviluppando così il suo approccio filosofico storicistico alla realtà. Studia economia e politica stimolato dalla volontà di confrontarsi da un punto di vista liberale con il materialismo storico dei marxisti che viene conoscendo. Scrive nel 1900 Materialismo storico ed economia marxistica, fondando subito dopo la rivista La critica, insieme con Giovanni Gentile, da cui si separerà, conservando però sempre grande stima di lui. Nominato senatore nel 1910 entra nel Governo Giolitti nel 1920. dopo il delitto Matteotti (1924) Croce assume una posizione antifascista sempre più netta. Torna alla politica dopo la liberazione alla guida del Partito liberale.
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Le opere I quattro volumi della Filosofia dello spirito: 1. Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale (1908); 2. Logica come scienza del concetto puro (1909); 3. Filosofia della pratica. Economia ed etica (1909); 4. Teoria e storia della storiografia (1917); La filosofia di Giovambattista Vico (1911); Saggio sullo Hegel (1913); La poesia (1936); La storia come pensiero e azione (1838); Storia d’Italia (1928); Storia d’Europa (1932).
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Sulla storia, l’arte e l’economia Per Croce il positivismo sbaglia quando pretende di strutturare la conoscenza della storia entro parametri fissi e prefissati, rigidamente necessari, poiché invece la storia degli uomini si dipana in modo diverso nei tempi e nei luoghi e imprevedibilmente. La storia, comunque, si distingue dall’arte, in quanto è narrazione di eventi e fenomeni reali, mentre l’arte è la dimensione del possibile, che la creatività può realizzare. Del marxismo il filosofo napoletano recupera la sottolineatura data all’economia, ma non come unico motore e ragione principalmente razionale dell’evoluzione storica, bensì come dimensione da analizzare filosoficamente, in quanto luogo della realizzazione dell’utile, che deve sempre essere considerato in prospettiva etica.
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La filosofia dello spirito Nel primo volume della Filosofia dello spirito, Croce imposta il suo sistema teoretico: egli distingue prima di tutto un momento conoscitivo (teoretico) da uno pratico; nel momento teoretico distingue poi l’arte dalla filosofia; nella dimensione pratica individua una distinzione fra l’economia (individuale) e la morale (universale). I quattro “trascendentali” che sintetizzano questo movimento sono dunque: il bello, il vero, l’utile e il buono. Ma, a differenza di Hegel, Croce non accetta il processo dialettico sistematico, poiché ritiene di non doversi contrapporre i termini generali delle dimensioni spirituali, bensì di giustapporli, poiché ciascuno di essi sintetizza una dimensione della realtà dello spirito e della vita umana.
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L’arte e la letteratura Per Croce l’arte comincia sempre dall’intuizione, e siccome ogni sapere inizia dall’intuizione, tutto ha una componente artistica, almeno all’origine. L’arte propriamente detta, come opera completa, altro non è che un qualcosa di più complesso e specificamente approfondito: dalla letteratura alle arti figurative alla musica. Ogni conoscenza intuitiva è dunque in qualche modo arte, anche se non ogni prosieguo diventa opera d’arte. L’opera d’arte, però, non è un qualcosa di analizzabile in modo minuzioso e positivistico, ma un qualcosa che si manifesta come soddisfazione totale del gusto del fruitore in rapporto al lavoro dell’artista, che può essere talmente profonda da manifestarsi come geniale e universale.
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Concetti e pseudo-concetti D’altro canto, per Croce, dall’intuizione si sviluppa il pensiero che si dipana tramite i concetti (cose concepite), suddivisi in tre elementi: a) l’espressività, b) l’universalità, c) la concretezza. Altrimenti, invece, funziona il pensiero nella ricerca scientifica, nella quale si adoperano quelli che il filosofo denomina pseudoconcetti, in quanto sono relativi al linguaggio di ciascuna scienza, a partire dalla matematica, dall’algebra e dalla logica, con le loro simbologie convenzionali. Gli pseudoconcetti sono dunque forme astratte dello spirito, mentre i concetti del pensiero storico e filosofico sono forme che contengono la concretezza della dimensione esistenziale e storica. Il giudizio storico individuale è, infine, il momento conoscitivo massimo in quanto conoscenza intuitiva logica e quindi inconfutabile.
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Economia ed etica Per Croce l’economia è il momento individuale necessario che mette l’uomo nelle condizioni di progredire e sviluppare le proprie attività, ed è un momento logicamente antecedente alla morale. La morale, per contro, è la dimensione necessaria riflessiva sul valore dell’economi e sull’esigenza di considerare l’economia non come un assoluto, ma come uno strumento atto a migliorare la vita dell’uomo e di tutti gli uomini. Il diritto poi si pone come elemento di mediazione e di regolamentazione tra economia e morale. Infine, è la politica che deve operare una sintesi tra i vari elementi costituitivi della vita civile e sociale, come Croce stesso ha potuto sperimentare di persona nei vari periodi in cui ha fatto politica (fase del liberalismo, del fascismo e del dopoguerra fino alla sua morte).
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Lo storicismo Molto interessante è la visione storicistica del filosofo napoletano. Egli, contrariamente a Hegel, non vede lo sviluppo degli eventi storici come crescita necessaria, o manifestazione del realizzarsi dello spirito assoluto, ma piuttosto come un processo che può avere momenti di maggiore maturità e così realizzare progresso sociale, sia momenti di crisi e addirittura di regressione. Per Croce,la storia è la storia del manifestarsi progressivo della consapevolezza umana, cioè del costituirsi di una libertà sempre più responsabile e moralmente capace di affrontare i problemi delle comunità sociali e dei popoli, anche se uno dei fondamenti di questo processo, che a volte si manifesta anche in termini irrazionali, è proprio una certa imprevedibilità, che necessita sempre di una visione più alta.
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Giovanni Gentile (1875-1944) Giovanni Gentile studia alla Scuola Normale Superiore di Pisa, laureandosi in filosofia. Insegna all’università di Palermo e inizia la sua attività saggistica. Pubblica gli studi su Rosmini e Gioberti nel 1898, su La filosofia di Marx nel 1899, il Sommario di Pedagogia nel 1913 e La riforma della dialettica hegeliana nello stesso anno. Passato all’università di Pisa e a quella di Roma, Gentile continua nella pubblicazione di saggi e testi filosofici: La teoria generale dello spirito come atto puro nel volume della Riforma della dialettica hegeliana, i Fondamenti della filosofia del diritto nel 1916, il Sistema di logica come teoria del conoscere del 1917, i Discorsi sulla religione nel 1920, la Riforma del conoscere del 1917, Le origini della filosofia contemporanea del 1917-23 e gli Studi sul Rinascimento del 1923.
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Vita e altre opere Nel 1922/24 è Ministro della pubblica Istruzione nel I Governo Mussolini, elaborando in quel periodo la famosa riforma scolastica che porta il suo nome. Finisce nel 1920 la sua collaborazione con Croce nella rivista La Critica e fonda il Giornale Critico della Filosofia Italiana. Nominato Senatore del regno nel 1922, Gentile lascia il Governo dopo il delitto Matteotti. Dirige l’Enciclopedia Italiana Treccani e infine la Scuola Normale Superiore di Pisa. Nel 1943 è nominato Presidente dell’Accademia d’Italia. Scrive i suoi ultimi saggi: Filosofia dell’arte (1931), l’Introduzione alla filosofia (1933) e Genesi e struttura della società (pubblicata postuma nel 1946). Gentile aderisce al fascismo dalla prima ora e anche dopo l’8 settembre 1943: un gruppo di partigiani dei GAP lo assassina a Firenze il 15 aprile 1944: un’ignominia, in ogni caso.
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La riforma della dialettica Gentile considera tutte le tappe del pensiero idealista, a partire da Platone, passando per Kant, Fichte e Hegel. Rileva in tutti questi pensatori un limite diverso: in Platone la non posizione dell’idea di Dio come origine della percezione; a Kant di aver fondato la conoscenza sul fenomeno come manifestazione del noùmeno; a Hegel di aver proposto il movimento del divenire in una dialettica che non è originata dall’io pensante; a Fichte, pur ritenendolo più vicino al suo pensiero, di non essere passato dalla nozione di io-puro non vi ha fatto scaturire la conseguenza dell’atto puro di un io-pensante. Per Gentile il pensare, essendo attività, è causa sui, libertà e coscienza, poiché solo il pensiero diviene, mentre la cosa è.
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L’atto puro e l’unità di soggetto e oggetto Per Gentile dialettica, filosofia, autocoscienza, autoposizione (autoctisi) del soggetto, unità, realtà, concretezza sono termini strettamente collegati e reciprocamente necessari. Soggetto e oggetto non sono indipendenti, ma intimamente interrelati nell’atto puro della conoscenza. Il pensiero non può, però, non sapersi distinguere da se stesso nell’atto del pensare: il pensante deve essere distinto dal pensato, come la psicologia si deve distinguere dalla logica. La storia stessa dunque, per Gentile, “non è quella che si spiega nel tempo, ma quella che si raccoglie nell’eterno atto del pensare”, cosicché l’atto puro del pensiero conoscente è vivo ed eterno.
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Concreto e astratto Se l’atto puro del pensiero conoscente riassume e ricomprende tutta la realtà, allora si può dire, per Gentile, che ogni processo conoscitivo è costruzione della storia, ma anche processo pedagogico, quando si tratta di trasmissione di conoscenza e di formazione. Sotto questo profilo è indubbia l’importanza di questo filosofo, perché il processo educativo, cioè di crescita del discente, avviene solo se tra i due soggetti avviene una specie di incorporazione, di fusione, là dove il sapere riesce a congiungersi con la disponibilità e l’apertura psicologica. Una pedagogia del genere collega in modo organico la nozione astratta al concreto esistenziale dell’allievo, permettendogli di avviare il suo proprio e autonomo processo di crescita culturale e cognitiva.
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Arte, religione e scienza L’arte, per Gentile, è il luogo dove si realizza la soggettività individuale, ed è simile al sogno, l’arte, come per Croce, è lirica, è manifestazione indicibile del sentimento. Se anche la filosofia è forma, l’arte lo è nella modalità più soggettiva e irripetibile, lo è nell’ineffabilità della creazione, analoga a i sogni, appunto. La religione, invece, è oggettiva, esterna, e si presenta nel tempo in modi sempre più elevati, per cui si è assistito storicamente al passaggio dai politeismi al monoteismo. La scienza, infine, è formalmente simile alla filosofia, ma è più astratta e legata a linguaggi specifici, a dimensioni articolari e specifiche della conoscenza, non potendo così darsi in termini critici, poiché il suo oggetto si pone come realtà in sé: la natura è cosa-altra-dall’uomo, anche se l’uomo fa parte della natura. Né la scienza, né l’arte, né la religione possono quindi avere storia, poiché si pongono come oggetti da scoprire, a differenza della filosofia, che è sapere in itinere, mai definitivamente accertato.
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Teoria e prassi, vita e filosofia Per Gentile la vita è filosofia e la filosofia è vita. Non vi è contrapposizione tra dimensione teoretica e dimensione pratica della vita, perché la prima altro non è che la dimensione astratta della seconda e viceversa. La filosofia è dunque la manifestazione di una volontà capace di vivere, sostanza immanente di una vita spirituale, espressione esistenziale di un essere pensante e raziocinante che decide, ama, sceglie, vive. Per Gentile, il Cristianesimo supera la filosofia antica, perché questa si è limitata a cercare di conoscere la natura e l’uomo stesso, finendo nelle aporie dello stoicismo, mentre quello ha posto l’uomo come vita intelligente che si autocrea nella scelta della vita e delle opere che compie, a immagine del Dio che l’ha creato libero. L’attualismo gentiliano in questo si riassume.
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Il pensiero contemporaneo Nel ‘900 il pensiero si frammenta in numerosi i rivoli teoretici e pratici. A differenza del secolo precedente, che aveva visto l’evidenziarsi di alcune robustissime “scuole di pensiero”, come l’idealismo, il romanticismo, il positivismo, il marxismo, il XX secolo presenta molti ripensamenti caratterizzati dal prefisso “neo”, e dunque abbiamo il neopositivismo, il neoidealismo, la neoscolastica, oltre a scuole che possiamo ritenere tipiche del tempo, come la fenomenologia, l’esistenzialismo, l’analitica e gli orientamenti fusi o confusi con le dottrine psicoanalitiche, come in Jaspers, Foucault, Lacan, Derrida, e i nouveaux philosophes francesi degli anni ‘70 e ‘80. Hanno inoltre rilievo le nuove correnti teologiche, come in Karl Barth e Rudolf Bultmann, e un’indubbia rinascita kierkegaardiana dentro la scuola esistenzialista. In Italia, nella seconda parte del ‘900 si sviluppa il “pensiero debole”.
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Maurice Blondel (1861-1949) Maurice Blondel, filosofo e docente universitario francese è un pensatore cristiano, la cui teoresi è imperniata sull’azione. Scrive nel 1893 un saggio dal titolo L’azione, di impronta antipositivista e antiscientista. Partecipa al movimento ecclesiale del modernismo, e così viene emarginato dopo la condanna pontificia da parte di Pio X con l’enciclica Pascendi. Si chiude nel riserbo e nel silenzio. Solo nel 1934 riprende un’attività forte che lo porta ad elaborare con chiarezza una filosofia dell’azione e della volontà, con la quale si oppone ancora, sia alle scuole scientiste sia all’hegelismo, sostenendo l’importanza di un agire di coscienza, sia sotto il profilo etico-pratico e politico, sia sotto il profilo religioso. Per Blondel la vera scienza nulla deve alla ricerca esterna, ma tutto deve al cuore stesso dell’azione.
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Georges Eugène Sorel (1847-1922) Sorel si è distinto in diverse attività: ingegnere, filosofo, sociologo e teorico del sindacalismo rivoluzionario. Socialista e marxista, sindacalista rivoluzionario. Nel 1908 pubblica le sue Considerazioni sulla violenza, sulla rivista sindacalista rivoluzionaria diretta da Enrico Leone Il Divenire Sociale. Intrattiene una corrispondenza notevole con Benedetto Croce, Vilfredo Pareto, Gustave Le Bon e Bergson. Sorel considera la violenza proletaria necessaria, sia nella versione dello sciopero generale, sia in altre forme. È invece contro la guerra nel 1914 e sostenitore della Rivoluzione russa del 1917 e dei bolscevichi. Personaggio contradditorio e affascinante, più noto in Italia che in patria: in Italia fu apprezzato e seguito anche dallo stesso Mussolini nella sua fase socialista rivoluzionaria.
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Il pragmatismo Non può che nascere in America, negli U.S.A. il pragmatismo, legato a una visione estremamente chiara del rapporto tra pensiero e prassi: riprendendo la distinzione kantiana fra pratica come dimensione morale dell’agire umano, e pragmatica come relazione tra mezzi e fini, W. James e C. S. Peirce (1839-1914) sviluppano una dottrina molto interessante, che ribalta il principio cartesiano delle idee chiare e distinte come premessa di ogni agire razionale. Peirce in particolare ritiene che sia necessario invece partire dalla prassi per chiarire i percorsi possibili all’agire razionale, rischiando però di essere stracapito: a questo punto è James a chiarire bene che non si tratta di una dottrina meramente mercantilistica ed economicistica, ma una teoria atta a confermare la possibilità di una prassi fondata su solide basi.
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Realismo e logicismo Pensatori come G. E. Moore (1873-1958), G. Frege (1838- 1925) e B. Russell (1872- 1970), si collocano sul versante di un realismo radicalmente antimetafisico. Questo realismo si oppone sia all’idealismo di tipo hegeliano, sia a una sorta di scetticismo risalente addirittura a Berkeley. Questo realismo recupera il senso comune come strumento epistemologico fondamentale, sostituendo i punti di riferimento classici della perseità proposizionale come soggetto e predicato, con i termini funzione e argomento. Questi filosofi tendono dunque a semplificare in maniera che si può definire atomica la logica e il pensiero.
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Il neopositivismo Di questa corrente ricordiamo due studiosi: R. Carnap (1891-1970) e O. Neurath (1882-1945). La polemica filosofica contro lo scientismo positivista, crea una reazione motivata: la scoperta delle geometrie non euclidee, la nuova fisica della relatività e dei quanti, le nuove scienze umane (psicologia clinica e sociologia) rendono possibile una sorta di reazione razionalistica, analitica e in qualche modo neo-kantiana. Russell, Frege e Wittgenstein, oltre a i due filosofi sopra citati, guidano una sorta di rivoluzione neo-positivistica, analitica, linguistica. È soprattutto a Vienna (con il suo Circolo), di cui fanno parte Neurath e Carnap, che produce molti risultati e ricerche. Carnap scrive nel 1932 Il superamento della metafisica mediante l’analisi logica del linguaggio, con la quale afferma esserci due soli tipi di proposizioni: a) le formule logiche e matematiche che non dicono nulla della realtà e, b) le formule empiriche: da ambedue questi ambiti, secondo Carnap la metafisica esula. Per Neurath, invece, la fisica è il luogo e il modo epistemologico che deve guidare ogni ambiente conoscitivo.
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Storicismo e filosofia valoriale In quest’ambito della ricerca filosofica vanno ricordati soprattutto due autori: Wilhelm Dilthey (1833-1911) e Max Scheler (1874-1928). Dilthey distingue due dimensioni della conoscenza: a) lo spiegare tipico delle scienze fisiche e naturali e, b) il comprendere, che attiene a tutti gli altri ambiti della conoscenza umana, specialmente quella riferita alle scienze antropologiche, a quelle storiche e agli ambiti della creatività artistica. Scheler affronta invece il tema di un’etica che non si basi solamente sul formalismo prescrittivista kantiano, ma affronti il tema dell’agire libero dell’uomo tenendo conto della dimensione soggettiva e intenzionale dell’agire stesso, alla luce di una nozione chiara del fine buono, cioè l’uomo, l’umanità intera e la natura tutta nella quale l’uomo vive.
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Fenomenologia e esistenzialismo Un altro “ambiente” filosofico novecentesco di grande interesse è quello della fenomenologia e dell’esistenzialismo, nei quali annoveriamo alcuni pensatori fondamentali: F. Brentano (1838-1917), K. Jaspers (1883-1969), G. Marcel (1889-1973) e J.-P. Sartre (1905-1980). L’intreccio tra i due approcci riflette l’interesse novecentesco per una modalità conoscitiva legata all’intenzionalità della coscienza individuale, come luogo dove si danno gli oggetti esterni, ma anche luogo che si propone come esistenziale, cioè connesso a ciò che della vita umana appare come ex-sistente, oltre ogni metafisica dell’essere. Molto importanti sono i legami che si registrano tra queste teoresi filosofiche e la psicologia sperimentale contemporanea. In ogni caso il tema posto è quello di legare la ragione conoscente e l’esistenza dell’uomo. Queste dottrine si sono sviluppate, sia su un versante di tipo religioso, come in Marcel, sia su un versante di tipo agnostico come in Jaspers, o ateistico, come in Sartre.
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Il marxismo nel ‘900 Personaggi come Lenin (Vladimir Ilijč Ulianov, 1870-1924), G. Lukács (1885-1971) e A. Gramsci (1891-1937) sono forse più noti, specie il primo e il terzo, all’ambito della storia politica, che alla storia della filosofia contemporanea. In modo profondamente diverso, questi tre autori sviluppano la dottrina marxista: se Lenin contribuisce a dare un significato estremamente pragmatico al tema della trasformazione rivoluzionaria della società e del ruolo del partito, contribuendo alla costruzione del sintagma che comprende il suo stesso nome, Lukács recupera l’elemento dialettico nell’analisi marxista della realtà. Infine, Gramsci muove da una certa staticità la nozione marxista di classe, introducendo il tema di una continuità tra rivoluzione socialista e Risorgimento, là dove il ruolo degli intellettuali è visto come organico e tendenzialmente egemonico.
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Il pensiero sociologico Due fra i principali ricercatori di questa disciplina umanistica otto/novecentesca possono essere considerati E. Durkheim (1858-1917) e T. Parsons (1902-1979). In particolare con Durkheim la sociologia tende ad affermarsi come disciplina autonoma, sia dall’economia, sia dalla psicologia (specialmente quella sociale) e dalla psicoanalisi, sia dalla filosofia, sia infine dall’antropologia culturale e dall’etnologia, con le quali discipline in qualche modo “confina” e interloquisce continuamente. La sociologia si interroga dunque, sempre descrittivamente, su tutti i fenomeni sociali, a qualsiasi ambito appartengano: dal lavoro, alla religione, dall’economia all’educazione. Su ogni ambiente si può dare uno sguardo sociologico, tale da far comprendere i fenomeni e la loro ripetitività o specificità. L’americano Parsons sviluppa una sociologia che rifugge da schematismi di tipo storicistico, sostenendo che tale scienza deve basarsi essenzialmente sulla possibilità di individuare collegamenti sistematici tra i fenomeni: il suo indirizzo, molto diffuso è detto funzionalismo. Si tratta di una scuola di pensiero che si inserisce in un dibattito molto ampio e fecondo, che ha nella cosiddetta “Scuola di Francoforte” il suo vertice.
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La “Scuola di Francoforte” I nomi che si fanno solitamente per designare questa “scuola” socio-filosofica di primaria importanza nel ‘900 (dal 1923 in poi) sono M. Horkheimer (1895-1973), T. Adorno (1903-1969), E. Fromm (1900-1980) e H. Marcuse (1898-1979). A differenza dei funzionalisti à la Durkheim e Parsons, i tedeschi di Francoforte, cui diede una mano qualche decennio dopo anche Jurgen Habermas (1929) ritengono di fare una sociologia fortemente filosofica ed eticamente fondata. La sociologia deve quindi interessarsi allo smascheramento degli inganni di una società industrial-democratica che tende a fagocitare le coscienze all’interno di una sorta di pensiero unico. La Scuola di Francoforte è pertanto fortemente intrisa di libertarismo e anche di una sorta di socialismo utopistico, di teoria critica della società contro ogni razionalismo ottimisticamente illuminista o positivista.
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Lo strutturalismo: linguistica e antropologia Se nel ‘7/ 800 studiosi come Herder e von Humboldt avevano studiato il linguaggio come struttura diacronica, che si sviluppa nel tempo, ricercatori interdisciplinari come F. De Saussure (1857-1913) e C. Lévi-Strauss (1908-2009) battono una strada diversa: cercano di individuare una sorta di struttura sistemica sincronica, sia nel linguaggio, sia nelle società che si formano nel tempo. Ad esempio, per quanto concerne il linguaggio, De Saussure, ritiene che si debba in ogni tempo, luogo e idioma parlato/scritto, distinguere tra la dimensione linguistica (langue) e la dimensione del parlato individuale (parole), poiché la prima dà comuni significati etimologici e semantici, mentre la seconda corrisponde al sentimento e al significato accepito dal singolo parlante, sempre diverso. Lo stesso metodo strutturalista è stato applicato da Lévi-Strauss all’etnologia e all’antropologia culturale.
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Teologia dialettica e dimitizzazione Nel profluvio sterminato di teologi del ‘900, possiamo fermarci su un paio: Karl Barth (1886-1968) e Rudolf Bultmann (1884-1976). Il prodromo della loro ricerca, specialmente di quella bultmanniana, può essere considerato Rudolf Otto (1869-1937), autore (1927) di un testo fondamentale per comprendere la dimensione del sacro e del religioso “Il Sacro”, che costituisce una dimensione antropologica “a-priori” presente nella vita umana e in tutte le culture e civiltà: si tratta del numinosum, del mysterium tremendum et fascinans. Bultmann, dal canto suo demitizza la Scrittura separando nettamente il “Gesù storico” dal “Cristo” paolino, il giudaismo dall’ellenizzazione. Barth propone invece una lezione straordinaria di matrice kierkegaardiana che presenta il divino a una distanza insuperabile per l’uomo, il quale deve abbandonarsi alla Fede, senza timore. Il suo commento della Lettera ai Romani di Paolo, resta un caposaldo della teologia del ‘900, come luogo dove risuona la parola divina cui l’uomo deve semplicemente arrendersi.
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Henri-Louis Bergson (1859-1941) Henri Bergson supera sia la tradizione positivista, sia la tradizione spiritualista, avendo una notevole influenza nei campi della psicologia, della biologia, dell’arte, della letteratura e della teologia francesi. Docente di licei e università varie in Francia e Inghilterra, ha molti riconoscimenti, fino al premio Nobel per la letteratura nel 1927. Ebreo, resta sulla soglia di una conversione al cattolicesimo. Le sue opere principali: il Saggio sui dati immediati della coscienza del 1889; Materia e Memoria del 1896; L’evoluzione creatrice del 1907 e infine Le due sorgenti della morale e della religione. Scrive altre opere e discorsi (come il trattato sul Riso) ed è insignito di molte onorificenze, pur vivendo delle sue risorse con la famiglia in modo sobrio e umile.
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L’evoluzione creatrice Per Bergson l’evoluzione naturale si presenta come un continuum senza un fine (teleologia), derivante dalla creazione, superando ogni forma di meccanicismo e di finalismo senza senso. Lo slancio vitale è la forza che muove la vita, come adattamento dinamico all’ambiente in una continua dialettica di crescita. La trasformazione dell’uomo e della natura avviene, sia mediante forze intrinseche, sia mediante un intervento volontario da parte dell’uomo, che deve sempre tenere conto della sua esperienza (influenze del pragmatismo di William James, con cui Bergson ebbe rapporti fecondi).
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La durata e il tempo Bergson sembra anticipare, in un certo senso, la dottrina della relatività generale di Einstein, con l’idea di un tempo correlato alla velocità di un oggetto osservato, e in un altro senso recuperare la nozione filosofica greca classica di kairòs, o di tempo interiore di matrice agostiniana. Per lui, dunque, accanto a un tempo lineare, fisico, misurabile, vi è un tempo la cui durata è di carattere spirituale, interiore, come accrescimento qualitativo continuo, refrattario a ogni misurazione. Il suo tratto essenziale è il vissuto affettivo, che realizza cambiamento nel tempo fisico, ma in modo inesprimibile. Il tempo è dunque il luogo dove avviene il cambiamento continuo, ma nella conservazione evolutiva dell’esistente.
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L’istinto e l’intelligenza Una delle differenze fondamentali che caratterizzano l’essere umano nei confronti degli altri animali, è la distinzione antropologica tra istinto e intelligenza (che però le neuroscienze contemporanee leggono in modo un po’ diverso): se l’istinto è dato dalla natura e dall’ontogenesi, l’intelligenza si sviluppa con la conoscenza formale delle cose e dei loro rapporti, ed è strumento esistenziale. Ma l’intelligenza è la pista attraverso la quale l’uomo è riuscito far il salto verso una condizione biologica, psicologica e cognitiva, che lo ha differenziato profondamente in termini evolutivi, pista tuttora aperta e foriera di inconcepibili sviluppi e fermenti di crescita ulteriore, oltre i limiti attualmente raggiunti.
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L’intuizione Bergson ritiene che la conoscenza avvenga analiticamente attraverso l’intelligenza, ma sinteticamente solo attraverso l’intuizione a livello di coscienza del dato empirico. Se l’intelligenza permette all’uomo di codificare, classificare, analizzare la realtà in ogni sua piccola parte, l’intuizione, come sguardo unitario (un prodromo della psicologia Gestaltica?)… …l’intuizione gli permette di cogliere il semplice per arrivare al complesso, di vedere la sorgente prima delle foce, di cogliere la bellezza di Parigi senza bisogno della cartoline, di apprezzare una pittura, nella sua struttura unitaria, differentemente da un mosaico! L’intuizione è come la porta della verità delle cose!
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La morale, la religione, la società Bergson ritiene che la società debba uscire dalle forme cristallizzate di credenza, aprendosi a modalità nuove e dinamiche: l’intera umanità è portata ad accettare una religione capace di dialogare con i problemi del mondo e dell’uomo in un afflato mistico e fraterno. Essendo ebreo, riesce a mantenere integra la sua posizione, rinunciando a tutte le cariche precedentemente attribuitegli, quando il governo di Vichy vara le leggi antisemitiche. La sua morale è interamente umanistica e aperta alla condivisione, socializzante e solidale.
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John Dewey (1859-1952) Filosofo, scrittore e pedagogista, John Dewey esercita una profonda influenza sulla cultura, la società e la politica statunitense del suo tempo. Si laurea in filosofia a Baltimora e insegna nelle università del Michigan e del Minnesota, prima di fondare la sua scuola-laboratorio di pedagogia all’università di Chicago. Incontra e dialoga proficuamente con i maestri del pragmatismo americano William James e Charles Peirce. Insegna alla Columbia University di New Jork, e viaggia per il mondo, in Cina, Giappone, URSS, studiando anche il sistema educativo sovietico. Influenza non poco la politica del partito democratico di quegli anni. Le sue opere principali: Logica come teoria della ricerca (1938), Liberalismo e azione sociale (1935), Natura umana e comportamento.
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La natura La formazione di Dewey è stata molto influenzata dal pragmatismo americano e dall’evoluzionismo di Darwin. L’uomo, con la sua esperienza dialoga con l’ambiente e costruisce il proprio sé,mediante una pedagogia pratica e interattiva. Nella quotidianità si svolge la relazione tra l’uomo, l’ambiente e la natura, ma anche la relazione tra tutte le persone nella società. Questo complesso di relazioni forma l’esperienza e modifica lo stato delle cose. L’evoluzione è la risposta alla precarietà del vivere, operando la natura per sentieri di selezione e di miglioramento delle specie, tra qui quella umana. Di tutto questo processo la filosofia opera in qualità di supervisore razionale e ordinativo, critico e ausilio di rinnovamento.
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L’indagine e la scienza La ricerca e lo studio razionale della realtà, per Dewey, si svolgono al livello della coscienza di ciascun individuo. Ogni persona è in grado di conoscere lo spirito dell’ambiente e della società in cui vive e opera, e gli impulsi al rinnovamento, che può scegliere o rifiutare. Non si agisce perché determinati ad agire (à la Spinoza), ma perché capaci di decidere in un senso o nell’altro nel processo deliberativo. L’uomo si costruisce un profilo personologico come un abito (denominazione scolastica: habitus, virtù o vizio); quest’abito lo configura e lo sostiene nell’azione, e può essere modificato con il progresso psicologico e spirituale.
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La morale e l’arte Per Dewey sembra che la morale, sapere aperto e non dogmatico, possa in qualche modo percorrere quasi gli stesi itinerari dell’arte. Infatti, come quest’ultima è apertura infinita all’intuizione creativa, così la morale, come scienza di indirizzo delle azioni umane, non può che essere guidata dall’intelligenza. La morale e l’arte hanno a che fare con l’infinito dispiegarsi dell’umano dentro ogni singolo uomo, per cui non deve essere sottoposta a vincoli estrinseci, che non abbiano a che fare con la straordinaria esperienza soggettiva: ciò non significa certo che Dewey sia una sorta di immoralista, ma semplicemente, che egli vede nella crescita di ogni personalità libera, un modo per ricercare una strada originale alla soluzione dei problemi che ogni esperienza di vita pone.
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L’educazione e la società Il pensiero pedagogico di Dewey risente del particolare influsso di Ralph Waldo Emerson: Dewey, infatti, crede che l’esperienza educativa non debba fondarsi sulle esigenze degli insegnanti, bensì sugli interessi naturali degli alunni, che sono in grado di discernere le cose con maggiore freschezza, rispetto agli adulti. La scuola deve rendere partecipe l’alunno di tutti i saperi necessari a una sua progressiva integrazione sociale, mediante una pedagogia attiva e progressiva, adatta alle varie età dell’allievo; le età di cui Dewey scrive si configurano come segue: dai 4 agli 8 anni, dai 9 ai 12 anni,dai 12 ai 14 anni, nei quali periodi occorre predisporre piani educativi proporzionati e adeguati agli stadi di sviluppo psicologico e personologico dei singoli.
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Ludwig Wittgenstein (1889-1951) Di famiglia viennese benestante Wittgenstein studia ingegneria a Berlino e a Manchester. Nel 1912 va a Cambridge per studiare matematica e logica alla scuola di Bertrand Russell. Dopo la guerra che lo vede combattente, pubblica il Tractatus logico-philosophicus, ottenendo un notevole consenso da parte del maestro inglese. Nel frattempo, rinunziando all’eredità paterna, in profonda crisi esistenziale e morale, si ritira a fare il maestro elementare in alcuni villaggi austriaci dal 1919 al 1926. Nel 1926 torna nella capitale austriaca dove prende contatto con gli esponenti del Circolo di Vienna, per trasferirsi a Cambridge dove viene incaricato dell’insegnamento della filosofia fino al 1947. La morte lo coglie qualche anno dopo, lasciandogli il tempo di scrivere e pubblicare altri testi molto importanti: le Ricerche filosofiche (1953), e le Osservazioni sui fondamenti della matematica (1956). Wittgenstein è un punto di riferimento fondamentale della filosofia del ‘900.
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Chiarificazione e terapia linguistica Non affrontando qui gli eccessivamente complessi temi di logica simbolica e matematica, ci soffermiamo sul cuore della tesi filosofica di Wittgenstein: per lui il pensiero si identifica completamente con il linguaggio. Il filosofo viennese sotto questo profilo è un radicale: come il mondo è costituito da tutto-ciò-che-accade, così il linguaggio è costituito di proposizioni che affermano o negano fatti e cose, proposizioni che hanno nomi, i nomi delle cose. Ogni residuo espressivo metafisico per Wittgenstein deve essere eliminato, lasciando solo ciò che ha un significato immediato che corrisponde alle cose. La filosofia,quando pretende di codificare, classificare, elencare, si riduce a pura, inutile tautologia. Un detto famoso del nostro è: Di ciò che non si sa, si taccia. (Quanto utile di questi tempi banalmente logorroici!)
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I giochi linguistici Per Wittgenstein, soprattutto nella seconda fase del suo pensiero, il linguaggio è, non solo l’unica rappresentazione possibile del pensiero umano, ma anche lo strumento che offre, nell’infinita gamma dei suoi giochi, ogni possibilità descrittiva della realtà. Per questo non si può ammettere di usare il linguaggio come uno strumento traducibile a piacimento nei vari idiomi, ma lo si deve utilizzare come un itinerario vitale, che permette, sia l’espressione concettuale, sia le dinamiche organizzative e vitali del singolo individuo e delle comunità. Ma ciò è possibile solo e solamente se l’uomo riconosce il proprio simile come tale, come altro da sé, ma come se fosse un “io”. Non solo io/me ma io/tu.
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Max Weber (1964-1920) Weber cresce in una famiglia già molto orientata alla politica, il padre è un deputato del partito Nazional-liberale, per cui il giovane Max respira tematiche socio-politiche ed economiche fin da molto giovane. Studia giurisprudenza, economia e storia a Heidelberg, laureandosi poi a Gottingen nel 1889 con una tesi su La storia romana nel suo significato per il diritto pubblico. Diviene professore di economia politica a Friburgo, per poi passare a Heidelberg. Una grave malattia nervosa ne interrompe l’attività e gli studi dal 1897 al 1903, per poi riprendersi molto bene, anche con un viaggio in America. Pubblica successivamente, tra l’altro: Studi critici sulla logica delle scienze della cultura (1906), L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1904-5), Le sette protestanti e lo spirito del capitalismo (1906), e, più tardi, dopo una guerra che egli aveva vissuto con angoscia, Il senso della avalutatività delle scienze sociologiche ed economiche (1917), Il lavoro intellettuale come professione (1919), e gli studi comparsi postumi Economia e società (1921). Max Weber è un intellettuale poliedrico, poiché i suoi interessi spaziano dall’economia alla sociologia, al diritto alla filosofia, segnando un tempo con il suo metodo che ha avuto non pochi seguaci.
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Il metodo delle scienze storico-sociali Weber si oppone, sotto il profilo metodologico, sia al positivismo ottimistico, sia all’intuizionismo, perché ambedue gli “ambienti” gnoseologici sono insufficienti, parziali e -in sé- a volte fuorvianti. È invece indispensabile, nella ricerca sociologica, osservare rigorosamente un atteggiamento avalutativo, disinteressato nel senso scientifico del termine, poiché la sociologia non racconta gli eventi come la storia, ma ne analizza i fondamenti, le ricorrenze fenomenologiche, le costanti e le frequenze. La sociologia peraltro aiuta la ricerca storica come struttura basilare di lettura dei fenomeni sociali, così come sono inseriti nel flusso della narrazione storica.
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Il disincanto e la razionalizzazione del mondo Sotto il profilo gnoseologico e conoscitivo Weber osserva che l’uomo moderno ha perduto tutti i suoi riferimenti classici, canonici, storicamente dati, per cui gli serve osservare lucidamente il mondo, per come si è sviluppato. A questo punto Weber propone il modello chiamato degli “idealtipi”, che rappresenta tutte la macro-strutture e realtà storiche e sociali, come: a) lo stato, b) la religione (il cristianesimo, etc.), c) il capitalismo, d) i regni, e) i modelli socio-politici come quello socialista, quello liberale, etc.. Weber coglie anche un elemento di disincanto nella situazione attuale (si intende, del suo tempo), proponendo un atteggiamento cosciente della situazione per poterla gestire con la massima sobrietà e saggezza possibile, al fine di garantire il massimo di consapevolezza e di esercizio della libertà, come valore ineludibile.
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Edmund Husserl (1859-1938) Edmund Husserl studia matematica a Berlino, dove si laurea con una tesi sul calcolo delle variazioni. Concentra poi la sua attenzione sulla logica e la filosofia, pubblicando nel 1891 la Filosofia dell’aritmetica, lavoro con il quale cerca di sottolineare l’importanza dei processi psichici di astrazione. Più tardi però Husserl modifica questa posizione scrivendo Ricerche logiche, dove distingue rigorosamente la psicologia come scienza del pensiero pensante dalla logica come scienza del pensiero pensato. Insegna a Halle dove scrive e pubblica il fondamentale Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica. Nel 1916 inizia una collaborazione con Heidegger a Friburgo. Heidegger pubblica nel 1928 le lezioni di Husserl su La fenomenologia della coscienza interna del tempo. Nel 1929 escono il volume Logica formale e logica trascendentale, e Meditazioni cartesiane (conferenze tenuta alla Sorbonne). Con l’avvento del nazismo l’ebreo Husserl fu radiato dall’insegnamento. Tiene conferenze a Vienna e a Praga nel 1935, da cui trae l’ultima importante opera La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale. Il suo archivio è stato messo in salvo a Lovanio.
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Significato e compiti della fenomenologia Husserl sviluppa il suo progetto filosofico, criticando fortemente l’epistemologia del positivismo. Egli punta a sottolineare il dato della coscienza come luogo nel quale si formano le strutture cognitive pre-categoriali che preludono a ogni forma di conoscenza. Per lui non si può fare scienza considerando la coscienza come un semplice aggregato di fatti psichici, ma come un luogo nel quale appaiono le essenze dei fatti depurate di ogni costrutto psicologistico residuo. I fenomeni sono così ridotti e disponibili per essere conosciuti secondo gli statuti epistemologici delle singole scienze.
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Il metodo: la sospensione del giudizio Husserl ritiene che prima di tutto si debba uscire dal modo di pensare cosiddetto “naturale”, che appare come tale,in quanto nel tempo vi è stata una sedimentazione dei contesti fisici e psichici nei quali accadono gli eventi. Bisogna dunque procedere a una sospensione radicale del giudizio immediato, che Husserl chiama alla greca “epoché”, in modo da depurare del tutto lo sguardo e le facoltà conoscitive dell’intelletto, risalendo alla funzione originaria e costitutiva della coscienza, che va a sua volta salvaguardata da ogni atteggiamento di scontatezza naturale o di convenienza.
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Le essenze e il carattere intenzionale della coscienza La coscienza dunque intuisce le essenze non come fatti psichici, ma nella loro “verità” intrinseca, poiché il suo agire non si limita a registrare gli eventi che le appaiono, ma li provoca addirittura, con la sua intenzionalità strutturale: si tratta di un movimento che permette di intuire le essenze delle cose, le idee, così come si manifestano nel tempo e nello spazio e incontrano la coscienza stessa. Ci si trova di fronte forse, semplificando i concetti in una sintesi sperabilmente non arbitraria, a un kantismo generalizzato di ascendenza un po’ platonica, si potrebbe dire,poiché la coscienza conosce intenzionalmente le essenze/ idee delle cose e dei fatti.
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L’evidenza e il “mondo della vita” Husserl sviluppa una riflessione che si presenta sempre non facile o addirittura ardua, come nel tema della presenza di un mondo vitale, evidente e nello stesso tempo nascosto alla coscienza, che conosce solo se è in grado di isolare gli elementi, i fatti e gli atti, tutte le cose che intenzionalmente incontra. Il rischio di una specie di idealismo solipsistico è scongiurato nel filosofo tedesco,poiché egli non dimentica di specificare che ogni coscienza di sé è profondamente incarnata nella corporeità del vivere individuale, mai separato, però,dalla relazione con l’altro. Il mondo vitale è dunque questo, un intreccio di relazioni ineludibili, perché costituenti l’essenza stessa di quel mondo.
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La crisi delle scienze europee Come prima di lui Hegel e Nietzsche, Edmund Husserl è consapevole della crisi culturale e scientifica dell’Europa del suo tempo, ma quasi segno premonitore dell’Europa odierna. Husserl denunzia la pericolosità di un abbandono fiduciario alla veridicità e incontrovertibilità delle scienze,e specialmente di quelle umane, quando sono declinate come le scienze storiche e naturali. Per lui la scienza deve partire dal dato di coscienza depurato da ogni residuo, dallo spirito come luogo (l’interiorità di Agostino e di Meister Echkart!) nel quale risuona la verità delle essenze delle cose stesse. Il tramonto dell’Europa (profetico!) si può evitare solo se si decide di emendare il razionalismo da ogni arroganza.
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Karl Jaspers (1883-1969) Karl Jaspers è un filosofo e psichiatra tedesco. Studia medicina a Heidelberg, Monaco, Berlino e Gottinga, laureandosi su un tema criminologico Nostalgia e crimine nel 1908. Lavora come volontario all’ospedale psichiatrico di Heidelberg con Emil Kraepelin. Insegna all’università di Heidelberg dopo avere pubblicato la dissertazione Psicopatologia generale nel 1913, senza più tornare da quel momento all’attività medica e psicoterapeutica. Nel 1919 è nominato docente di filosofia con il trattato Psicologia delle visioni del mondo. Diventa amico di Heidegger da cui si stacca per le note ragioni nel 1933. Scrive nel frattempo il suo capolavoro, Philosophie. Nel 1947 scrive La colpa della Germania, e nel 1949 Origine e senso della storia. Dal 1948 alla morte si trasferisce a Basilea e insegna in quella università.
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Psichiatria e Filosofia Jaspers dà un contributo importante agli studi psichiatrici del suo temo, occupandosi del tema della paranoia, proponendo il metodo dell’analisi biografica, la cui forma è l’elemento più importante dell’intera anamnesi. Il suo testo fondamentale Filosofia (1931) raccoglie la summa del suo pensiero ed è l'autore stesso ad ammettere che fra i suoi libri questo fu sempre per lui il più caro. L'opera nasce legata strettamente alla psicologia - che, come è stato detto, era l'attività cui Jaspers aveva scelto di dedicarsi - ed è infatti la conoscenza di quelle che verranno successivamente chiamate "situazioni limite", che si presentano così sovente nello studio della vita psicologica, che permette al filosofo di definire il ruolo della filosofia del suo tempo: "chiarificazione dell'esistenza“.
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Il suo esistenzialismo Il tentativo di comprendere il mondo fatto dall’idealismo e dal positivismo, per Jaspers, fallisce, perché bisogna giungere in un altro modo alla chiarificazione dell'esistenza. Questo passaggio da fare suggerisce all'esistente di utilizzare i mezzi che gli sono propri per definire la sua situazione. La decisione è il fulcro delle possibilità dell'esistente, che tentando le strade della trascendenza cerca di non ridursi a mero esser-ci. Io stesso, comunicazione, storicità, volontà, libertà, situazioni-limite (situazioni che sono così necessariamente, come il dolore, la morte, sono definite dall'autore come l'esistenza stessa), coscienza assoluta, azioni incondizionate e l'esistenza della soggettività nell'oggettività sono i temi trattati nel libro secondo di Philosophie.
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Il recupero di Kierkegaard e Nietzsche Nel tempo Jaspers si allontana da Edmund Husserl che non lo soddisfa per la difficoltà, della sua fenomenologia, spingendolo verso la lettura di Kierkegaard soprattutto e di Nietzsche. Il legame della filosofia con la vita "vera e propria", “concreta” è dato nelle domande filosofiche che fin dall'antichità riguardano il soggetto del pensiero e l'affermazione sopra citata dell'autore sottolinea questa prospettiva e la ribadisce. Egli definisce l'esistenza come "ciò che non diventa mai oggetto, l'origine partendo dalla quale penso e agisco, ciò che si rapporta a se stessa e, in ciò, alla sua trascendenza". Le parole chiave della sua speculazione: - Esserci (Da-sein): l'esser qui proprio di tutte le cose che sono al mondo; - Esistenza (Exsistenz): definisce solo la condizione dell'uomo che non può essere definita completamente, ma solo chiarita, delucidata, analizzata; - Trascendenza (Transzendenz): ciò che è al di là della situazione attuale dell'esistenza, definisce la stessa pratica del filosofare come scoperta.
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Martin Heidegger (1889-1976) Martin Heidegger studia nelle università di Costanza e Friburgo laureandosi in filosofia nel 1913 con una tesi su La teoria del giudizio nello psicologismo. Nel 1915 è docente a Friburgo e scrive La teoria delle categorie e del significato in Duns Scoto; diviene nel 1926 assistente di Husserl e viene chiamato a Marburgo come professore nel 1927, l’anno nel quale pubblica Essere e tempo. Nel 1929 viene richiamato a Friburgo dove sostituisce Husserl. È del 1929 la prolusione dell’Anno accademico Che cos’è la metafisica. Nello stesso anno esce il trattato su Kant e il problema della metafisica, insieme con L’essenza e il fondamento. Il tema della sua adesione al nazismo nel 1933 resta controverso e non ancora del tutto chiarito: in ogni caso nel 1934 Heidegger si ritira dalla vita pubblica in una residenza da lui amatissima nella Foresta Nera. Studia e insegna pubblicando: La dottrina platonica della verità, L’essenza della verità e la Lettera sull’umanismo tra il1943 e il 1947; i suoi studi su Hölderlin e sulla poesia gli ispirano la pubblicazione di Sentieri interrotti nel 1950. Le ultime opere: L’introduzione alla metafisica del 1953, Il principio del fondamento del 1955; importantissimo, In cammino verso il linguaggio del 1957; Nietzsche del 1961; Il trattato di Schelling sull’essenza della libertà umana del 1971.
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Analitica esistenziale e temporalità dell’esistenza Per Heidegger la finitezza naturale dell’uomo si deve declinare e comprendere in modo fenomenologico (Husserl), ma partendo non tanto dalle essenze, quanto dall’esistenza. L’uomo partecipa in qualche modo alla sua essenza solo ex-sistendo, solo “stando fuori”. L’uomo non è una struttura rigida di “facoltà” (cf. l’antropologia platonica e aristotelico-tomista), ma un fluire esistenziale comunque legato all’Essere di cui in qualche modo è custode, mediante l’intelligenza e il linguaggio. In questo suo esistere nell’essere l’uomo “si prende cura”, si comporta e dice cose impersonali con il riflessivo “si”, comprende se stesso più completamente se riesce a darsi ragione considerando la propria morte, se comprende il suo essere-per-la-morte. L’uomo genera al proprio interno una storicità che è indipendente dal flusso storico oggettivo, con il quale dialoga, ma sempre all’interno di un esistere unico e concreto.
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Esattezza e verità Heidegger “rimprovera” alla metafisica classica, da Platone a Hegel, passando per Aristotele, san Tommaso, Cartesio, Leibniz, Spinoza e Kant, di avere idealizzato la conoscenza della verità, distanziandone indefinitamente la possibilità di coglimento, e lasciando solo a disposizione della conoscenza una sorta di certezza mediata dalla scienze logiche e matematiche,in quanto esattezza. Invece, siccome la verità è un disvelamento, è alètheia, (α̉λήθεια) non può darsi che nel modo di una disponibilità dell’Essere a stagliarsi sul nulla, e in questo modo ad illuminare gli enti finiti. Nessun “dio aristotelico”, né “cristiano” regge a una visione come quella heideggeriana, che richiama Anassimandro là dove questi afferma che “tutte le cose devono finire lì di dove hanno tratto origine”.
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La tecnica e il mondo moderno La storia del pensiero occidentale, secondo Heidegger, a partire dai grandi greci e fino all’idealismo e al positivismo ottocenteschi, ha prodotto una sorta di dominio della rappresentazione degli enti rispetto all’Essere. Di qui si è instaurato un vero e proprio ulteriore dominio della tecnica e del meccanicismo, che sta portando la cultura umana verso lidi sempre più distanti dalla verità Il pensiero di Heidegger è, in quest’ambito, in qualche modo perfino apocalittico, se si può utilizzare il termine quasi come metafora. Neppure Nietzsche è stato abbastanza radicale nella critica a questa deriva: e quindi, per il filosofo di Messkirch si deve superare perfino l’approccio umanistico classico, per arrivare a un umanismo senza metafisica, là dove l’ex- sistere, non è altro dall’essere, ma vi coincide.
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La storicità dell’arte, l’ermeneutica e la funzione della poesia Se è vero che l’essere on può essere costretto dentro le briglie strette della logica e delle matematiche, allora il suo ambienta naturale altro non è che la poesia, la pòiesis come creazione quasi ex nihilo di un qualcosa di vero, sia pure esso uno quadro di Van Gogh o un tempio greco, è un qualcosa che si staglia nella realtà come vero, ineffabile, eterno. E allora occorre darsi un approccio ermeneutico per cogliere quella verità che si nasconde negli interstizi dell’essere, che si svela lentamente, come dal mistero. Non vi sono scorciatoie logico-sistematiche per cogliere l’essere nell’ex-sistere dato nel tempo dell’uomo, ma solo la strada impervia e imperfetta del linguaggio dell’uomo, il quale non rappresenta altro che la datità possibile degli enti dentro l’essere, accolto nell’esistenza di ciascun uomo. Vi è una vicinanza di questo “ultimo Heidegger” con alcune tendenze psicanalitiche, linguistiche, estetiche e teologiche contemporanee.
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Carlo Michelstaedter (1887-1910) Questo meraviglioso giovane goriziano, pur nella sua breve vita, è riuscito ad esprimere concetti e riflessioni di grande profondità. Carlo Michelstaedter, nasce in un’agiata famiglia di origine ebraica. Studia al Staatgymnasium goriziano formandosi in maniera serissima nelle discipline classiche, e costruendosi una cultura personale di impostazione mitteleuropea. Dopo avere studiato per un anno matematica a Vienna, va a Firenze per studiare lettere e filosofia. Lo colpisce molto la morte di una donna da lui amata, Nadia Baraden. Si laurea infine, dopo con una tesi molto interessante La persuasione e la rettorica, che costituisce la summa del suo giovane pensiero. Nel periodo ultimo scrive anche delle poesie e il Dialogo della salute. Mangia e dorme pochissimo, vivendo come un asceta. Si suicida, dopo un pesante litigio con la madre, con un colpo della pistola lasciatagli dall’amico Enrico Mreule, il 17 ottobre 1910. Carlo è sepolto nel cimitero ebraico di Valdirose a Nova Gorica.
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Il pensiero Da tutti i suoi scritti, dall’Epistolario e perfino dai dipinti, traspare in lui una costante e profonda inquietudine, un desiderio di altrove quasi metafisico. Michelstaedter lavora molto sul un supposto “tradimento” del pensiero platonico da parte di Aristotele. La nostalgia delle altezze incommensurabili dello spirito e del pensiero, lo traggono costantemente in una dimensione fatta di puri intelligibili. In questo contesto esistenziale, allora, la vita umana si dipana tra una dimensione propria, della persuasione, che è consapevolezza della finitezza “tragica” del vivere umano, e una dimensione falsa, quella della rettorica, che rende l’uomo sempre schiavo delle pulsioni derivanti dal potere e dal successo, come eterni miti negativi. E canta: “Noi col filo/ col filo della vita/ nostra vita/ filammo a questa morte”.
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E. Anscombe e il neotomismo analitico (1919-2001) Irlandese, allieva di Wittgenstein, Gertrude Elizabeth Anscombe è una filosofa analitica, che è stata capace di riscoprire una certa forma di tomismo, cioè di pensiero realista classico. Si interessa di logica, di etica e di filosofia del linguaggio, nel 1958 scrive un importante articolo di etica Moral Modern Philosophy, che la segnala. Insegna a Oxford e anche Cambridge, sviluppando progressivamente la sua antropologia dell’intenzione, vale a dire una concezione dell’uomo che riconosce la possibilità di un suo agire (relativamente) libero e quindi di rendersi responsabile delle proprie azioni. La sua visione etica è connotata da un rigore antropologico- morale detto consequenzialismo, dove la libertà si coniuga con il principio di responsabilità.
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La Gestalt I La psicologia [e filosofia] della Gestalt, nacque come corrente psicologica in Germania agli inizi del XX secolo. Come termine tecnico, Gestalt [forma] fu usato inizialmente da Ernst Mach, e successivamente da Husserl e da Christian von Ehrenfels. Fondatori della psicologia gestaltista possono essere considerati Kurt Koffka, Wolfgang Kőhler e Max Wertheimer. Se ne occupò successivamente Kurt Lewin con la teoria sociologica del “campo”, tesa a sottolineare l’importanza di una visione d’insieme dei fenomeni sociali, delle reti, dei sistemi. La teoria della Gestalt si configura e caratterizza per il suo “olismo”, in base al quale si ritiene che la percezione del mondo e l’umana esperienza non possano essere suddivise negli elementi che le costituiscono, e si possano conoscere solo nella relazione biunivoca di tutte e tra tutte le parti [autosimilarità].
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La Gestalt II Dalla teoresi si è poi sviluppata anche una psicoterapia gestaltica, soprattutto per opera di Fritz Perls, il quale, sulle tracce di Freud, ritenne di dover esplorare la personalità umana nei vari “strati” di cui è costituita, e dunque di lavorare per fare emergere la “personalità genuina”, per vari passaggi sempre più profondi, dallo “stato dei cliché”, cioè dell’ipocrisia e della pura convenienza. In questo senso, il richiamo alla Gestalt può essere interessante anche per chi si addentra nel mondo ermeneutico dell’interpretazione di testi antichi e della comparazione con le metodiche esegetiche ed ermeneutiche contemporanee. Per capire il testo bisogna esplorare il contesto e il mondo [Sitz im Leben] che l’ha prodotto e quello che ne attua la ricezione, e dunque anche l’uomo, che scrive, legge, soffre, spera, interpreta.
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Luigi Pareyson (1918-1991) Luigi Pareyson si laurea in filosofia a ventuno anni a Torino, precoce tanto da esser notato da Giovanni Gentile. Segue in Germania dei corsi tenuti da Jaspers, ottenendo subito dopo un incarico di insegnante al Liceo classico di Cuneo. Impegnato nella Resistenza in Giustizia e Libertà, dopo la guerra insegna al Liceo Gioberti di Torino e successivamente all’università di Torino, dove ha tra i suoi allievi Gianni Vattimo, Umberto Eco, Sergio Givone, Mario Perniola, Valerio Zanone, e altri futuri studiosi. È accademico dei Lincei e membro dell'Institut international de philosophie, oltre che fondatore e direttore della Rivista di estetica.
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L’interpretazione inesauribile Pareyson si può considerare tra i maggiori filosofi italiani del XX secolo. È tra i primi a far conoscere in Italia l'esistenzialismo tedesco e a riconoscersi in questa visione (La filosofia dell'esistenza e Carlo Jaspers, 1940), in un quadro dominato dal neoidealismo, ma si dedicò anche a dare una nuova interpretazione dell'idealismo tedesco (Fichte 1950). Per Pareyson l'esistenzialismo tedesco va ripreso in chiave ermeneutica, al fine di considerare la verità non un dato oggettivo, come avviene nella scienza, ma come interpretazione inesauribile del singolo, che richiede una responsabilità soggettiva, e una ricerca che non può mai terminare, poiché la verità infinitamente sfugge all’uomo. Chiama la propria posizione "personalismo ontologico". Si dedica anche a ricerche storiografiche, individuando nella filosofia tedesca post-hegeliana due correnti, riconducibili rispettivamente a Søren Kierkegaard e a Ludwig Feuerbach, e che sarebbero sfociate rispettivamente nell'esistenzialismo e nel marxismo.
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Emmanuel Lévinas (1906-1995) Lévinas nasce a Kaunas in Lituania da una famiglia ebrea, ma la sua formazione e cultura è senz’altro francese. Infatti, pur essendosi formato nella prima giovinezza sulla grande letteratura russa ed ebraica, frequenta l’università di Strasburgo, dove insegna tra gli altri Charles Blondel. Colà fa amicizia con Maurice Blanchot. Studia anche a Friburgo e alla Sorbonne dove frequenta Gabriel Marcel e si laurea. Durante l’occupazione tedesca Lévinas è fatto prigioniero di guerra e trasferito presso Hannover. Ivi inizia a scrivere alcuni dei suoi trattati maggiori: De l’Existence à l’Existant e Le temps e l’autre., poi pubblicati nel 1948. Nel frattempo il filosofo suo amico Blanchot protegge la moglie di Lévinas dall’insidia nazista., mentre gran parte della sua famiglia è deportata e assassinata. Dopo la guerra raggiunge una chiara fama in Francia come pensatore e docente. Dagli anni ‘50 intraprende studi sistematici sulla Bibbia e sul Talmud. Insegna a Nanterre, a Poitiers, a Friburgo in Svizzera e alla Sorbonne.
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Insegnamento e filosofia La sua ricerca si dipana con altri importanti lavori teoretici che lo possono definir quasi come un filosofo esistenzialista talmudico: nel 1961 esce Totalité et infini: essay sur l’extériorité (ed. Jaca Book in trad. italiana), nel 1974 Autrement qu’être o audelà de l’essence (ed. Jaca Book). La sua dottrina è basata sull’unica possibilità che l’uomo possiede, quella di riconoscersi come soggetto solo e solamente riconoscendo un “io” nel Volto dell’altro: solo nella relazione l’io-soggettivo può trovare la sua vera identità, che altrimenti si chiuderebbe nello sterile solipsismo egoistico/ egolatrico/ autoreferenziale, fomite di disperazione. Per Lévinas la filosofia stessa non è solo o tanto “amore della sapienza”, ma il suo reciproco “sapienza dell’amore”, base conoscitiva ed etica per la vita umana. L’etica deriva dall’incontro del Soggetto con l’altro Soggetto declinato al Nominativo: è il Nome dell’Altro che permette al Nome dell’Uno di vivere; la sua stessa teoresi esistenziale è fondata su un’etica del riconoscimento dell’Altro-da-Sé.
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La realtà e l’Altro Per Lévinas la realtà non è mai del tutto determinabile come oggetto conosciuto, poiché essa continuamente sfugge alla definizione, restando solo -se mai- dentro una qualche possibilità di comprensione dell'io che entra in un relazione costitutiva con la realtà stessa. L'Altro è sempre irriducibilmente "altro" e rinvia alla ricerca di un fondamento, atto a una ri-partenza conoscitiva del pensiero. La riflessione radicale comporta questo: ciò che posso conoscere, di me stesso e del mondo, dipende da un confronto costante, in-tenzionale, cioè in-tensione verso l'altro-da-me.
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L’Io non è assoluto! La conoscenza certa ed evidente della realtà, così come insegna la tradizione aristotelico-tommasiana, non viene meno come dopo il "cogito cartesiano", che ha posto il Soggetto al di sopra di tutto, ma si rafforza nel confronto radicale con l'Altro (cfr. anche in M. Buber e J.-L. Nancy)......perché la conoscenza certa ed evidente è sempre solamente umana, quindi progressiva e in-terminabile, infinita quindi come totalità che si conquista lentamente senza mai possederla del tutto (cfr. la definizione "scolastica" di "eternità": interminabilis vitae tota simul et perfecta possessio). Il valore del pensiero levinassiano, di questi tempi-egoisti ed egolatri, quando sembrano (appunto, sembrano) vincere la partita giocatori di poker di tutte le risme, sta proprio nell'aver messo in questione l'assolutezza idealistica dell'Io, come soggetto-in-grado-di-conoscere-senza-l'Altro.
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Hans Georg Gadamer (1900-2002) Gadamer vive tutto il secolo scorso entrando in questo millennio: vien da dire che “pensare fa bene”. Studia a Breslavia e poi a Marburgo dove nel 1922 ottiene il Dottorato di ricerca con Paul Natorp, con una tesi su L’essenza del piacere nei dialoghi di Platone. Nel 1929 è libero docente, dieci anni più tardi ordinario e nel biennio 46/47 rettore dell’università di Lipsia. Insegna poi a Francoforte e a Heidelberg, sostituendo Jaspers. Durante questo periodo completa la sua opera fondamentale Verità e Metodo. Nel 1973 viene nominato cittadino onorario di Napoli, città che ama moltissimo. Il nucleo fondamentale della sua filosofia è l’approccio ermeneutico, cui dedica gran parte del suo tempo e ingegno,il tutto a partire dalla prospettiva dialogica e dialettica platonica, di cui è appassionato studioso e cultore. L’ermeneutica come dottrina dell’interpretazione dei testi e oltre i testi.
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L’ermeneutica come disciplina universale Da Platone in poi l’ermeneutica conosce varie vicende, fino alla sua decisiva ripresa primo-ottocentesca da parte di Schleiermacher. Gadamer si inserisce in questo percorso, sviluppando arditamente la teoria, con alcune linee fondamentali: a) se per lo Schleiermacher e Dilthey la comprensione si poteva concludere o meno - rispettivamente- con l’intuizione (einfühlung) o il prosieguo, per Gadamer, così come per Heidegger, il comprendere è un modo dell’Esser-ci, un percorso che transita dall’autore al recettore, i cui orizzonti si fondono (Orizontverschmelzung). Non è possibile mai “tornare indietro ai tempi e ai sentimenti dell’autore”, ma bisogna accettare di far rivivere il testo in tempi, luoghi e sensibilità diverse. Il circolo ermeneutico che si crea tra i due soggetti e i due tempi deve tenere conto delle pre-comprensioni (Vorverständnisse)del fruitore, che vanno considerate con prudenza e accettate come ineludibili, ma feconde di sempre nuove “letture del testo”, nel dialogo infinito che produce senso, e dialogo anche fra gli uomini.
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Paul Ricoeur (1913-2005) Non si può dire che anche Paul Ricoeur non sia vissuto a lungo! Orfano di entrambi i genitori, Ricoeur viene cresciuto a Rennes dai nonni paterni. Precoce negli studi, bene presto conosce la filosofia. Dopo la laurea, si immerge in una straordinaria attività di ricerca, fondendo con sapienza le emergenze teoretiche del suo tempo: dalla fenomenologia all’esistenzialismo cristiano all’ermeneutica, che con Gadamer stava assurgendo a nuova fama. Ricoeur prende le mosse da Jaspers e Husserl per analizzare soprattutto la tematica del linguaggio, come luogo nel quale si dà il tema del senso, del senso delle cose di tutto ciò che è a questo mondo. Apprezza la demitizzazione che del pensiero cartesiano hanno fatto Marx, Nietzsche e Freud, i quali hanno sospettato un grande inganno nel dualismo del maestro, mostrando come oltre le certezze delle idee ”chiare e distinte” vi siano rispettivamente: a) i valori dell’economia e della società, b) la volontà di potenza e, c) l’inconscio.
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La metafora infinita e il simbolo Per Ricoeur, il linguaggio è in grado di esprimere tutto ciò che può essere espresso e anche ciò che non può esserlo, perché opera attraverso i segni e i simboli linguistici, tra i quali la metafora è il più potente. Attraverso la metafora, per Ricoeur, si coglie la verità profonda del senso stesso delle cose. La ricerca di questi sensi va cercata soprattutto nell’opera letteraria, là dove il lettore può trovare le corrispondenze significanti tra il testo e la sua propria vita. Le opere principali: Finitude e culpabilité. L’homme faillible, trad. it. di M. Girardet, Finitudine e colpa. Parte II: “La simbolica del male”, Il Mulino, Bologna 1970, La métaphore et le problème central del l’erméneutique, Revue philosophique de Louvain 70, 1971, tr. italiana a cura di M. Cristaldi, La sfida semiologica. Lezioni tenute all’Università di Catania nell’Anno Accademico 1973/1974, Armando Editore, Roma 2006, De l'interpretation: essai sur Freud, Paris, 1965 ; tr. it. Della interpretazione. Saggio su Freud, Il Melangolo, Genova 1991, Le conflit des interprétations, Paris, 1962 ; tr. it. Il conflitto delle interpretazioni, Jaca Book, Milano 1977.
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Edith Stein (1891-1942) Edith Stein, religiosa e filosofa tedesca dell'Ordine delle Carmelitane Scalze. Di origine ebraica, si converte al cattolicesimo dopo un periodo di ateismo che durava dall'adolescenza; viene arrestata in Olanda dai nazisti e rinchiusa nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau dove, insieme alla sorella Rosa (anch'ella monaca carmelitana scalza) muore. Nel 1998 papa Giovanni Paolo II l'ha proclamata santa e l'anno successivo l'ha dichiarata compatrona d'Europa. Studia con Husserl a Gottingen dove conosce anche Max Scheler. Dopo la guerra, quando fa l’infermiera volontaria, si laurea a Friburgo iniziando una carriera universitaria promettente come assitente del suo stesso maestro sulla cattedra di filosofia.
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Il suo pensiero Ben presto a partire dalla sua tesi accademica su Il problema dell'empatia, Edith Stein sceglie un tema arduo, importantissimo per la scuola filosofica cui afferiva, la fenomenologia, il tema dell'alterità, inteso come relazione fra il sé medesimo e il sé dell’altro, come dimensione affettiva eticamente rilevante. In questo contesto Stein dice il corpo come strumento di comunicazione, insieme con la psiche e lo spirito, in una visione antropologica integrata e complessa, aiutata anche dallo studio diretto del Tommaso d’Aquino di De ente et essentia.
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Il maschile e il femminile Le differenze fra femminile e maschile sono quasi ordinati alla loro unità nell’essere entrambi “essere umano”. Ciò nonostante Stein constata che le differenze tra i due generi non si fermano alla struttura, ma consistono anche in una diversa disposizione alla vita stessa, comprendendovi la vita della psiche e dello spirito. L’uomo e la donna sono profondamente differenti, e perciò si cercano, quasi per ricostituire un ordine che appartiene alla sfera dell’amore corporeo, ma altrettanto alla sfera mistica dell’amore divino. Approfondendo ulteriormente l’analisi della distinzione, la filosofa individua nel “femminile” una “unità, chiusura dell'intera personalità corporeo-spirituale, sviluppo armonico delle potenze” e in quella maschile “elevazione di singole energie alle loro prestazioni più intense". Le due dimensioni viste nella loro dinamica sono allora integrabili in una visione più elevata dell’esistenza umana e in una prospettiva di accoglimento del significato profondo e mistico del femminile in relazione al maschile, oltre la loro intrinseca possibilità di incomprensione e conflitto.
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La multidisciplinarietà delle scienze umane Troviamo in Edith Stein una grande attenzione alla multisciplinarietà delle scienze umane. Ella non si fa incantare dal grande sviluppo delle psicologie cliniche, cui annette comunque una grande importanza, ma conferma l’importanza di una visione antropologica più completa che nasca da un approccio filosofico e teologico. La persona declinata nei due generi, il maschile e il femminile, non può ridursi ad essere pensata come una struttura meramente bio-psichica, perché questa è superata infinitamente da una dimensione spirituale, cioè al suo più proprio destino. La differenza non deve perciò creare discriminazione, come un certo femminismo successivo avrebbe creduto, bensì composizione armonica tra strutture antropologiche per ruoli diversi e complementari. Cfr. in STEIN E., Beiträge zur philosophischen Begründung der Psychologie und der Geisteswissenschaften, Niemeyer, Tübingen 1970; it.it. Psicologia e scienze dello spirito - Contributi per una fondazione filosofica di A.M. Pezzella, Intr. di A.Ales Bello, Città Nuova, Roma 1996.
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Hans Jonas (1903-1993) Allievo di Heidegger e Bultmann, e compagno di studi di Hannah Arendt, Hans Jonas si laurea in filosofia a Freiburg. Deve fuggire dalla Germania nazista, come molti altri, in quanto ebreo. Dopo avere militato con gli inglesi durante la Seconda guerra mondiale, si trasferisce in Palestina (anche lì partecipa alla guerra nazionale del 1948), insegna alla Hebrew University di Gerusalemme. Continua in seguito a insegnare in università statunitensi. Il suo pensiero si sviluppa in tre fasi: a) lo studio del passato attraverso l’approfondimento delle tradizioni gnostiche come origine del nichilismo contemporaneo; b) lo studio del presente come filosofia della natura secondo la metodologia di studio delle scienze naturali; c) l’attenzione verso il futuro come studio di un’etica della responsabilità individuale.
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Filosofia della natura e della tecnica Jonas è impressionato dagli accadimenti del “secolo breve”, che egli vive al centro di tutto ciò che avviene. Anche per questo egli cerca di strutturare un pensiero che tenga conto di tutti gli elementi: la natura, l’uomo, la storia, intrecciati inevitabilmente e reciprocamente condizionanti. Nella raccolta di saggi Organismo e libertà: verso una filosofia biologica del 1964, egli sostiene l’esigenza di risistemare in termini unitari ciò che è mentale da ciò che è fisico in una unità psicofisica, come un tutto (echeggia in questo Schelling). Nei successivi saggi Aspetti etici della sperimentazione sui soggetti umani del 1968 e Dalla fede antica all’uomo tecnologico del 1972, Jonas sottolinea l’esigenza di dare un senso umanistico alla ricerca tecnoscientifica, tenendo sempre al centro il superiore interesse della salvaguardia dell’uomo e della natura: è di quegli anni il primo trapianto di cuore effettuato dal chirurgo sudafricano Christian Barnard a Johannesburg, e la definizione della “morte” da parte della Harvard Medical School.
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Per un’etica attuale Il testo più significativo di Jonas può essere per certi aspetti considerato Il principio responsabilità del 1979, nel quale il filosofo declina una visione integrale dell’etica come sapere pratico. Partendo da presupposti che possiamo definire kantiani di una morale come “dover agire” per il bene, Jonas arricchisce la prospettiva con una particolare sottolineatura di ciò che debba intendersi come bene e scrive: “ Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la sopravvivenza della vita umana sulla terra”. È oltremodo evidente la preoccupazione del nostro per le conseguenze che una mancata vigilanza su un’applicazione meramente utilitaristica delle tecnoscienze potrebbe provocare sulla terra mettendo a repentaglio la vita stessa. L’agire deve sempre seguire il pensiero, non viceversa, monito antichissimo e sempre valido.
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Etica e bioetica Su tematiche come l’eugenetica, la clonazione, il prolungamento della vita, la limitazione delle nascite, le nuove tecniche di procreazione assistita e la libertà di ricerca scientifica, Jonas assume posizioni razionalmente molto chiare. La sua ispirazione tiene conto innanzitutto del principio di realtà e della sua infinita multiformità. Non vi possono per lui essere risposte valide per sempre, in termini assoluti, ma bisogna cercare soluzioni e interpretazioni adeguate a ogni singolo caso, avendo bene presente il fine più alto, il bene maggiore. Peraltro l’uomo non conosce del tutto neppure se stesso, e per nulla le cose ultime che sono affidate alla fede religiosa: perciò, non conoscendo ciò che costituisce la profondità del nostro essere, dobbiamo accettare questa condizione creaturale, il limite e tutto quello che per ora ci sfugge.
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Eugenetica ed eutanasia Jonas distingue rigorosamente tra genetica preventiva e genetica migliorativa, accettando chiaramente la prima, per la possibilità che dà di migliorare la vita delle persone e dei nascituri, e respingendo la seconda, perché intrinsecamente foriera di selezione individuale e di modifiche legate anche a criteri di utilità ed economicità. La prima migliora la vita umana, la seconda distingue negando o accettando i soggetti umani nell’infinita varietà delle espressioni psicofisiche in cui si può esprimere. Circa l’eutanasia, Jonas respinge nettamente quella attiva, sottolineando invece l’attenzione che si deve avere contro ogni accanimento terapeutico, là dove il medico, che non ha la missione di uccidere il paziente, ma il contrario: ogni caso deve essere esaminato volta per volta, senza eccessive norme giuridiche, con l’essenziale norma dell’amore per la vita.
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Hannah Arendt (1906-1975) Hannah Arendt, di famiglia ebrea, studia a Marburg con Heidegger, con il quale si lega anche affettivamente per un periodo (problema nonda poco per lei l’adesione temporanea del maestro al nazismo!). Si laurea a Heidelberg con una tesi su sant’Agostino sotto la guida di Karl Jaspers. Nel 1929 sposa il filosofo Gunther Anders, dal quale si separa nel 1937. Va a Parigi e sposa un altro filosofo, Heinrich Blücher, (proprio non gli porta bene accompagnarsi a dei pensatori!) Da Parigi poi emigra con il nuovo marito e con la madre negli Stati Uniti per sfuggire alla persecuzione nazista. Nonostante il disinteresse di Heidegger per lei, quando dovette emigrare, comunque, nel dopoguerra testimoni in favore del suo antico maestro, quando questi viene accusato di adesione al regime hitleriano.
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Le opere Arendt è nota soprattutto per un’opera che non è propriamente filosofica, La banalità del male, reportage etico-giuridico che lei redige seguendo a Tel Aviv nel 1961 il processo a Adolf Eichmann per il giornale New Jorker. Arendt rileva come il male possa non essere radicale: anzi è proprio l'assenza di memoria, del non ritornare sui propri pensieri e sulle proprie azioni mediante un dialogo con se stessi che persone spesso banali si trasformano in autentici agenti del male. È questa stessa banalità a rendere, com'è accaduto nella Germania nazista, un popolo acquiescente quando non complice con i più terribili misfatti della storia e a far sentire l'individuo non responsabile dei propri crimini, senza il minimo senso critico. Scrive anche anche Le origini del totalitarismo (1951), in cui traccia le radici dello stalinismo e del nazismo, e le loro connessioni con l'antisemitismo. Questo libro è stato al centro di molte controversie, perché compara due sistemi che alla maggior parte degli studiosi sembrava diametralmente opposti.
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Cornelio Fabro (1911-1995) Friulano, sacerdote stimmatino è Cornelio Fabro, teologo, filosofo e biologo, ha molto studiato il tema della libertà, e ha fondato questo studio su una critica serrata alla filosofia moderna e contemporanea derivante dal pensiero idealista, cioè dalla tesi secondo la quale essere e pensiero coincidano. Secondo Hegel, in particolare, questo è il cominciamento e il fondamento di tutta la teoria della conoscenza, e allora anche la verità coincide con la certezza e la libertà con l’opinione soggettiva di ciascuno dentro il mondo. La verità perde allora ogni condizione di possibilità di valenza oggettiva. Sappiamo invece che la certezza può essere solo una parvenza di verità: io posso essere certissimo di una cosa che alla verifica si rivelerà poi falsa! Quante volte accade.
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Libertà ed Essere Sappiamo invece che la certezza può essere solo una parvenza di verità: io posso essere certissimo di una cosa che alla verifica si rivelerà poi falsa! Quante volte accade. Non con ciò si vuol significare che la verità è facilmente accessibile, tutt'altro! Basti pensare alla diuturna millenaria ricerca umana sulla natura delle cose e su di sé, sempre in evoluzione e indefinitamente aperta... Però, se nella condizione umana si può dare la nozione di libertà, questa nozione non può essere staccata dalla realtà dell’essere, e quindi dalla verità delle cose, ma di converso si stacca costantemente dal “sensus communis”, come solito-modo-di pensare (Schelling).
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Libertà e Verità Sopra dicevamo che, forse, libero è “chi vuole ciò che fa”, non “chi fa ciò che vuole”, perché in questo caso potrebbe non conoscere ciò-che-vuole, ma venire semplicemente influenzato e attratto da un “qualcosa” di immediatamente gradevole. Il padre Fabro (Riflessioni sulla libertà, Edivi, Segni, 2004, 83.126) ci ha insegnato a riprendere per mano un concetto di libertà non banale, scontato, mediatizzato, ma faticoso, meritevole di attenzione e di allenamento. È sembrato voler dire che non basta il talento della libertà, ma occorre l’allenamento alla ricerca dell’essere, cioè della verità, e quindi della libertà, come dice Giovanni (8, 32): “Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”.
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Michel Foucault e i “nouveaux philosophes” (1926-1984) Foucault è un filosofo, sociologo e psicologo francese. Si laurea all’ all’École Normale Supérieure di Parigi in filosofia e psicologia avendo come docenti Maurice Merleau-Ponty e Louis Althusser. La sua ricerca si impernia su alcuni grandi temi filosofici e socio-politici come: la burocrazia, il sistema carcerario, la sessualità, la follia. Insegna a Uppsala, in Tunisia e al College de France, pubblicando i suoi principali lavori, come Le parole e le cose (1966), Sorvegliare e punire (1975) e altre opere legate alla sua ricerca su una storia dell’Occidente declinato secondo una forma di pensiero anti-sistematica, di denuncia, libertaria (in questo ricorda P. Pasolini). Bernard Henry Levy, Gilles Deleuze, André Glucksmann, Jacques Derrida e qualche altro, francesi, sono considerati i nuovi filosofi, per le contaminazioni socio-psico.antropologiche che introducono nelle loro filosofie, che in generale si possono definire anti-autoritarie e libertarie.
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Il pensiero debole Gianni (Gianteresio) Vattimo (1936) e Pier Aldo Rovatti (1942) rappresentano in Italia la dottrina denominata pensiero debole, un concetto introdotto in filosofia per descrivere un importante mutamento nel modo di concepire la filosofia, a partire dalla metà del XX secolo. Questo mutamento, introdotto secondo Vattimo e Rovatti dall'opera di pensatori come Nietzsche e Heidegger, è caratterizzato dal cadere di numerosi presupposti fondanti della filosofia classica e della tradizione filosofica occidentale. Tra i due Vattimo si iscrive nella tradizione dell'ermeneutica moderna occupandosi dell'indebolimento dell'essere, mentre Rovatti è piuttosto fedele al pensiero fenomenologico tramandatogli dal suo maestro Enzo Paci. Il pensiero debole si presenta dunque come una forma particolare di nichilismo, partendo dall'assunto che, nella contemporaneità si sia attuata una crisi irreversibile delle basi cartesiane e razionalistiche del modo di filosofare, stravolgendo quindi il pensiero, così come si era sviluppato durante l'età moderna.
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Emanuele Severino (1929) Severino si laurea all’università di Pavia nel 1950 con Gustavo Bontadini, sostenendo una tesi su Heidegger e la metafisica, ottenendo ben presto la libera docenza e un incarico all’università Cattolica di Milano. Le sue posizioni lo portano bene preso a entrare in conflitto con quelle ufficiali della chiesa, che, dopo un’accurata indagine del padre C. Fabro, lo allontana dall’università. Ottiene l’incarico a Cà Foscari a Venezia dove ha per allievi Umberto Galimberti e Salvatore Natoli, tra gli altri. Oggi insegna, come emerito Ontologia fondamentale, all’università San Raffaele-Vita e Salute di Milano. Severino affronta il tema proposto ancora da Platone e Aristotele e ripreso poi in epoca moderna da Heideggeri: il tema dell'essere. Per Severino, tutte le filosofie precedenti sono caratterizzate da un errore di fondo: la fede nel senso greco del divenire. Sin dagli antichi greci, infatti, un ente (ovvero un qualcosa che è) viene considerato come proveniente dal nulla, dotato temporaneamente di esistenza e successivamente ritornante nel nulla.
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L’eternità dell’essere Severino, riflettendo sull'opposizione assoluta tra essere e non- essere, dato che tra i due termini non vi è nulla in comune, ritiene evidente che l'essere non può che rimanere costantemente uguale a se stesso, evitando di rimanere alterato dall'altro da sé. Anzi, essendo l'essere la totalità di ciò che esiste, non può esserci altro al di fuori di esso dotato di esistenza (Severino rifiuta, quindi, il concetto di differenza ontologica così come è stato avanzato da Heidegger). Per Severino, quindi, tutta la storia della filosofia è basata sull'errata convinzione che l'essere possa diventare un nulla. Ma, mentre Parmenide tentava di risolvere il conflitto tra il divenire e l'immutabilità dell'essere affermando l'illusorietà del divenire (negando l’esistenza delle cose del mondo e cadendo quindi in un'aporia), Severino sceglie una via differente, portando il suo pensiero a delle tesi estreme.
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L’eternità degli essenti Dato che l'essere è, e non può mai diventare un nulla, ogni essente è eterno. Ogni cosa, ogni pensiero, ogni attimo sono eterni. Il divenire temporale non può, quindi, che rappresentare l'apparire successivo degli eterni stati dell'essere, così come i fotogrammi di una pellicola si susseguono sino a formare lo svolgimento completo di un film. Gli enti entrano ed escono da quello che Severino chiama cerchio dell'apparire. Ciò significa che, quando un ente esce dal cerchio dell'apparire, non diviene un nulla, ma si sottrae semplicemente alla vista: dunque, le cose esistono anche quando scompaiono ovvero non si vedono.
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Martha Nussbaum (1947) Martha Nussbaum, gentile filosofa, ha tenuto e tiene corsi di diritto, etica e scienza politica nelle università di Chicago, Harvard, Brown. Forse la sua opera principale è La fragilità del bene (The Fragility of Goodness, 1986, 2001), nel quale esprime tutta la sua umanità e la scelta per un altruismo di carattere quasi stoico e attento alle emozioni e alla fragilità umana. Scrive tra l’alto: "Classe sociale, fama e prestigio non contano nulla, mentre l'argomentazione è tutto“, e non per intellettualismo elitistico, ma perché solo il risultato della ricerca conta, costituisce un valore che si aggiunge, fa crescere. E questo vale anche in economia. La cultura umanistica, antropologica, filosofica e psicologica, aiuta le organizzazioni a funzionare meglio, a dare valore ai processi e ancora di più alle persone che questi processi conducono. Martha dialoga su questi temi proficuamente con colleghi come Robert Nozick e Judith Butler.
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Cultura e profitto Nussbaum sembra operare una netta contrapposizione tra "cultura" e "profitto", una cesura, una contrapposizione, ma poi nel testo la sua riflessione porta altrove. E conduce, com'è ragionevole che sia, su un territorio, non solo di convivenza tra la dimensione della "cultura" e la dimensione del "profitto", ma che addirittura auspica un sempre maggiore dialogo tra i due "ambienti" concettuali e operativi. Quando Martha Nussbaum afferma che "(...) le discipline umanistiche insegnano a pensare criticamente, a usare l'immaginazione, a essere compassionevoli e trasformano gli individui in cittadini globali, ossia in persone capaci di una visione d'insieme del mondo (...)", implicitamente ammette la funzione della cultura nell'organizzazione economica e nella stessa politica. Il suo è un umanesimo laico integrale.
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Il “ritorno di Socrate” Negli ultimi anni si è assistito, a partire dalla Germania, a una specie di ritorno del metodo socratico, così come tramandatoci da Platone, con la maieutica, cioè la ricerca della verità delle cose e della vita mediante il dialogo intersoggettivo, paziente e rispettoso. A fronte di una certa crisi delle psicoterapie e della direzione spirituale di tipo religioso, la pratica filosofica - in tutte le sue diverse tipologie inclusa la consulenza filosofica – propone un’attività del filosofare svolta così come precisato nei punti seguenti: a) la pratica filosofica si realizza in una relazione dialogica tra due o più interlocutori a carattere prevalentemente - benché non esclusivamente- argomentativo.
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Le pratiche filosofiche oggi in Italia b) la pratica filosofica non presuppone, da parte del partecipante, cognizioni filosofiche né un particolare livello culturale. Il filosofo utilizza un linguaggio accessibile ai propri interlocutori e si assicura che il dialogo poggi costantemente su parole e concetti condivisi, o almeno negoziati nel loro significato d’uso; c) la pratica filosofica non consiste nell’insegnare dottrine filosofiche o nell’imporre determinate concezioni del mondo, per quanto “sagge” queste possano apparire; essa non ha mai intenti terapeutici. Anche in Italia, dal 2003, sulle tracce dell’esperienza del professor Gerd Achenbach, che le propose nei primi anni ottanta in Germania, nasce Phronesis, l’Associazione Nazionale per la Consulenza filosofica, di cui attualmente sono Vicepresidente.
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Il nuovo realismo italiano Studiosi come Enrico Berti, Maurizio Ferraris, Roberta De Monticelli, Nicla Vassallo, Remo Bodei, Michela Marzano, Franca D’Agostini, il domenicano Giuseppe Barzaghi e così via, stanno recuperando un pensiero che sembrava quasi perduto. Evidentemente Vico non ha tutti i torti quando parla di “corsi e ricorsi”. Il pensiero pare volgersi talora ondivago da un estremo all’altro, perché la vita e la natura chiedono sempre di immaginare nuovi percorsi conoscitivi, sorprendendo ciascuno di noi con l’infinita ricchezza della realtà delle cose. Ogni intelligenza pensante si chiede dunque il senso, il senso di ogni cosa, anche se a volte questo senso non appare o si manifesta debolmente avvolto da nebbie e buio. Ma l’infinita (nel senso di non-finita) curiosità e sete di conoscenza dell’uomo vince sempre e il cammino continua senza requie e senza avere mai termine.
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