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PubblicatoAmedeo Stefani Modificato 8 anni fa
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VISITARE I CARCERATI Le opere di misericordia PARROCCHIA MARIA SS. ADDOLORATA OPERA DON GUANELLA – BARI Anno Pastorale 2015-2016
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Introduzione “Ero carcerato e siete venuti a visitarmi” (Mt 25,36). Le parole di Gesù presentano il carcerato come persona bisognosa di cura e di relazione.
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Se il malato o l’affamato o l’assetato o chi è nudo (cfr. Mt 25,35-36) possono essere visti semplicemente come vittime, come persone segnate da disgrazie, il carcerato porta lo stigma di una colpa, di un delitto commesso.
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MA GESÙ, CHE SI È FATTO COMPAGNO DI PECCATORI E PERSONE DISONESTE ANNUNCIANDO A TUTTI LA COMUNIONE DI DIO E LA POSSIBILITÀ DELLA CONVERSIONE, NON ESITA A IDENTIFICARSI CON CHI È PRIVATO DELLA LIBERTÀ IN PRIGIONE.
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Egli non esita neppure - come apparirà evidente dalla sua condizione di crocifisso, di prigioniero condannato a morte che porta su di sé lo stigma del peccatore - ad apparire come un colpevole che suscita ripugnanza e disgusto in coloro che lo vedono e proiettano su di lui il male di cui è accusato.
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Per visitare i carcerati occorre pertanto fare un lavoro su di sé che comporta: percezione la percezione della tragedia della perdita della libertà da parte di un uomo; coscienza la coscienza della vergogna che spesso abita colui che e in prigione; discernimento il discernimento delle prigionie a cui noi stessi ci condanniamo; riconoscimento il riconoscimento della nostra sete di libertà e del nostro desiderio di riscatto dalle schiavitù interiori e dagli idoli; discernimento il discernimento della nostra debolezza che ci porta a essere omicidi, ladri, malvagi, calunniatori, violenti... (cfr. Mc 7,21-23) nel nostro cuore, anche se non arriviamo a esternare in atti gli impulsi interiori; sviluppo lo sviluppo della capacità di compassione per la nostra fragilità, che è anche la via d’accesso per entrare in contatto profondo con chi è in carcere e soffre per il rimorso o l’indurimento del cuore o perché preda della ribellione o per l’assenza di un futuro... Lavoro su di sé che tende a dilatare gli spazi della carità del cuore per non giudicare mai il peccatore e, anzi, per riconoscere in lui un fratello con cui essere solidali.
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In ascolto della Bibbia La Scrittura ci informa in particolare sul rapporto tra i membri delle comunità cristiane e i fratelli in carcere per motivi di fede.
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In uno scritto del Nuovo Testamento l’autore si rivolge ai suoi destinatari dicendo: “Avete preso parte alle sofferenze (synepathésate; Vulgata: compassi estis) dei carcerati” (Eb 10,34).
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Questa partecipazione compassionevole non si esaurisce su un piano sentimentale, ma comporta un livello pratico e concreto fatto di atti di generosità, visite, aiuti materiali come provviste di cibo e vestiario.
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Nel contesto del passo della Lettera agli Ebrei, l’attiva compassione è forma di solidarietà comunitaria con cui la chiesa locale manifesta la sua vicinanza ai membri cristiani che per la loro fede sono stati imprigionati.
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Effettivamente il cristianesimo nascente ha conosciuto a lungo misure restrittive, emarginazioni e persecuzioni, sicché poteva accadere che si fosse incarcerati per motivi di fede.
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Del resto, se i profeti, Geremia in particolare, hanno conosciuto il carcere a causa della loro libertà nell’annunciare la parola di Dio anche contro gli interessi dei potenti, se Giovanni Battista è stato incarcerato e se Gesù è stato osteggiato e arrestato dalle autorità religiose e politiche, anche i discepoli di Gesù dovranno mettere in conto questa eventualità.
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Gesù stesso li avverte che potranno essere consegnati alle prigioni (cfr. Lc 21,12).
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La comunità si fa vicina a Pietro in carcere con l’intercessione: “Pietro era tenuto in prigione mentre una preghiera saliva incessantemente a Dio dalla chiesa per lui” (At 12,5) e Paolo esprime gratitudine per la concreta vicinanza mostratagli dai cristiani di Filippi durante la sua detenzione e manifestatasi anche con l’invio di aiuti per mezzo di Epafrodito (cfr. Fil 1,13- 14.17; 2,25; 4,14-18).
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Il carcerato non cessa di essere parte della comunità cristiana! L’autore della Lettera agli Ebrei scrive: “Ricordatevi dei carcerati come se foste loro compagni di carcere” (Eb 13,3).
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Qui occorre ricordare le penose condizioni delle prigioni dell’antichità. Geremia rischia di morire di fame nella prigione in cui è stato gettato (cfr. Ger 38,1-13).
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Pietro, in carcere, è legato in catene e piantonato da guardie (cfr. At 12,3-6); a Filippi, Paolo e Sila finiscono in carcere dove i loro piedi sono chiusi in ceppi (cfr. At 16,24).
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Secondo lo storico romano Sallustio, “squallore, buio e fetore” 1 rendevano le celle delle carceri, spesso costituite da pareti in pietra senza finestre, luoghi orrendi, spaventosi e soffocanti. 1. Sallustio, La congiura di Catilina 55,3, in Id., La congiura di Catilina. La guerra giugurtina. Orazioni e Lettere, a cura di G. Lipparini, Zanichelli, Bologna 1962, p. 73
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Da Luciano di Samosata (il secolo d.C.) sappiamo che i prigionieri vivevano in spazi stretti e in condizioni squallide, spesso impediti di dormire dallo sferragliare delle loro stesse catene.
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nessuno ignora di quale disumanità e crudeltà sono capaci i carcerieri: insensibili per natura, la pratica quotidiana li rende feroci come belve 2. 2. Filone di Alessandria, De Josepho 81, a cura di G. Laporte, Cerf, Paris 1964, p. 77.
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La sollecitudine dei cristiani verso i loro fratelli imprigionati si manifestava nel provvedere loro cibo e vivande: spesso, infatti, i prigionieri erano privati anche della misera quantità di cibo che doveva essere loro garantito (fiscalis cibus).
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