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PubblicatoAngela Valente Modificato 8 anni fa
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Giacomo Leopardi L’Infinito, A Silvia, Il sabato del villaggio Scuola media N. Martoglio di Belpasso Classe III G a.s. 2015/2016 Prof.ssa Valeria Cristina Di Benedetto
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Giacomo Leopardi: il pensiero La poesia di Leopardi nasce da uno stato d’animo di isolamento e di profonda solitudine ed esprime una visione pessimistica della vita e della condizione umana. La felicità non esiste, esiste solo l’illusione della felicità, la vita per l’uomo è solo dolore e sofferenza. Secondo il poeta ogni uomo ha in sé un desiderio di felicità, a cui aspira continuamente, ma tale desiderio è destinato a non essere mai soddisfatto.
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Giacomo Leopardi: il pensiero Gli studiosi hanno individuato due fasi del pessimismo leopardiano: 1.Il pessimismo storico 2.Il pessimismo cosmico
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Giacomo Leopardi: il pensiero La fase del «pessimismo storico» si riferisce circa al periodo compreso fra il 1816 e il 1822. In questo momento Leopardi accusa la società contemporanea di avere ucciso l’immaginazione attraverso la ragione e la conoscenza. Al contrario il poeta esalta le società antiche che più ingenue e ignoranti hanno creduto nell’immaginazione e quindi hanno avuto un’illusione di felicità (a questa fase appartengono i Piccoli idilli L’Infinito e Alla Luna)
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Giacomo Leopardi: il pensiero Successivamente al 1822 Leopardi matura una visione dell’esistenza umana ancora più dolorosa, ed è la fase del «pessimismo cosmico». Il poeta elabora la complessa «teoria del piacere» che si sofferma sulla necessaria e inevitabile infelicità umana. Secondo questa teoria, la ricerca perennemente insoddisfatta di felicità causa nell’uomo una sofferenza cronica. La vita dunque è dolore. Questa condizione investe non solo l’uomo, ma tutti gli esseri viventi, tutte le forme di vita. E’ quel che si suole definire la fase del «pessimismo cosmico»
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Giacomo Leopardi: il pensiero Secondo Leopardi l’uomo può raggiungere solo un’illusione di felicità attraverso il ricordo di un piacere vissuto, l’attesa di un piacere che avverrà, attraverso la poesia o la solidarietà con i suoi simili. In tutte queste forme di illusione l’uomo può trovare consolazione. La Natura si comporta con l’uomo come una matrigna crudele. Dapprima lo illude suscitando in lui, soprattutto negli anni dell’adolescenza, la speranza di una vita piena e felice, ma successivamente fa crollare tutte le sue illusioni e la vita appare, in età adulta, piena di dolore.
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L’Infinito: parafrasi Sempre caro mi fu quest’ermo colle, E questa siepe, che da tanta parte Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete Io nel pensier mi fingo; ove per poco Il cor non si spaura. E come il vento Odo stormir tra queste piante io quello Infinito silenzio a questa voce Vo comparando: e mi sovvien l’eterno, E le morte stagioni, e la presente E viva, e il suon di lei. Così tra questa Immensità s’annega il pensier mio E il naufragar m’è dolce in questo mare Sempre caro mi fu questo colle solitario, e questa siepe che sottrae allo sguardo una così grande parte del lontano orizzonte. Ma sedendo e osservando, io nella mente mi immagino infiniti spazi aldilà di quella e irreali silenzi e una profondissima pace; dove per poco il cuor non si smarrisce. E non appena il vento sento frusciare tra queste piante, io paragono quell’infinito silenzio a questa voce (del vento): e mi viene in mente l’eternità, e le stagioni passate e la stagione presente e il suo suono. Così tra questa immensità si annega il mio pensiero e naufragare in questo mare (l’infinito) è dolce per me
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L’Infinito: analisi retorica Sempre caro mi fu quest’ermo colle, E questa siepe, che da tanta parte Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati enjambement spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete Io nel pensier mi fingo; ove per poco allitterazione Il cor non si spaura. E come il vento Odo stormir tra queste piante io quello Infinito silenzio a questa voce Vo comparando: e mi sovvien l’eterno, E le morte stagioni, e la presente anafora E viva, e il suon di lei. Così tra questa Immensità s’annega il pensier mio E il naufragar m’è dolce in questo mare metafora
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A Silvia "A Silvia" è l’inizio di una nuova stagione poetica, tra il ’28 e il ’30. Questo canto, composto a Pisa nel 1828, è dedicato a una fanciulla che il poeta realmente conobbe, Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi, morta di tisi nel 1818. Nella fantasia leopardiana Silvia è soprattutto il simbolo della speranza della propria giovinezza, fatta di attese, illusioni e anche delusioni. La poesia è costruita come un colloquio con Silvia.
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A Silvia Silvia è rappresentata nel fiorire della sua giovinezza in primavera, invece la sua morte avviene in inverno. In questa canzone la Natura manifesta un duplice aspetto, ora ispirando serenità e dolcezza, ora vista come causa principale dell’infelicità umana; matrigna crudele e indifferente che mette al mondo i suoi figli senza che questi lo vogliano, inseriti in un meccanismo di vita e di morte.
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A Silvia: parafrasi Silvia, rimembri ancora quel tempo della tua vita mortale, quando beltà splendea negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, e tu, lieta e pensosa, il limitare di gioventù salivi? Sonavan le quiete stanze, e le vie d'intorno, al tuo perpetuo canto, allor che all'opre femminili intenta Silvia, ricordi ancora quel tempo della tua vita sulla terra, quando la bellezza splendeva negli occhi tuoi sorridenti e sfuggenti (schivi), e tu, contenta e pensierosa, varcavi la soglia della giovinezza. Risuonavano le tranquille stanze e le vie intorno, al tuo canto continuo, quando impegnata nelle faccende femminili
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A Silvia: parafrasi sedevi, assai contenta di quel vago avvenir che in mente avevi. Era il maggio odoroso: e tu solevi così menare il giorno. Io gli studi leggiadri talor lasciando e le sudate carte, ove il tempo mio primo e di me si spendea la miglior parte, d’in su i veroni del paterno ostello porgea gli orecchi al suon della tua voce, Sedevi, abbastanza contenta di quell’incerto futuro che immaginavi. Era il mese di maggio profumato e tu eri solita così trascorrere il giorno. Io, talvolta trascurando gli studi piacevoli e le carte su cui mi affaticavo, dove si era consumata la mia giovinezza e la migliore parte di me, dai balconi della casa paterna, ascoltavo il suono della tua voce
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A Silvia: parafrasi ed alla man veloce che percorrea la faticosa tela. Mirava il ciel sereno, le vie dorate e gli orti, e quinci il mar da lungi, e quindi il monte Lingua mortal non dice quel ch’io sentiva in seno. Che pensieri soavi, che speranze, che cori, o Silvia mia! E la mano veloce con cui lavoravi al telaio con fatica. Ammiravo il cielo sereno, le vie illuminate dalla luce e gli orti, e da una parte il mare da lontano, e dall’altra parte il monte. Il linguaggio degli uomini non può esprimere ciò che io provavo nel cuore, che dolci pensieri, che speranze, che cuori (i nostri sentimenti di allora) o Silvia mia!
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A Silvia: parafrasi Quale allor ci apparia la vita umana e il fato! Quando sovviemmi di cotanta speme, un affetto mi preme acerbo e sconsolato e tornami a doler di mia sventura. O natura, o natura, perché non rendi poi quel che prometti allor? perché di tanto inganni i figli tuoi? Come allora ci sembrava la vita umana e il destino! Quando mi ricordo di così tanta speranza, un sentimento mi opprime amaro e inconsolabile e torno ad affliggermi per le mie disgrazie. O natura, o natura, perché non restituisci poi ciò che prometti in giovinezza (allor)? Perché così tanto inganni i tuoi figli?
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A Silvia: parafrasi Tu pria che l’erbe inaridisse il verno, da chiuso morbo combattuta e vinta, perivi, o tenerella. E non vedevi il fior degli anni tuoi; non ti molceva il core la dolce lode or delle negre chiome, or degli sguardi innamorati e schivi; né teco le compagne ai dì festivi ragionavan d’amore. Tu, prima che l’inverno gelasse la vegetazione, morivi, o tenerella, sconfitta da una malattia oscura. E non godevi della tua giovinezza; non ti inteneriva il cuore la dolce lode ora dei neri capelli ora degli sguardi innamorati e fuggitivi; né con te le compagne, nei giorni di festa, parlavan d’amore.
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A Silvia: parafrasi Anche perìa fra poco la speranza mia dolce: agli anni miei anche negaro i fati la giovinezza. Ahi come, come passata sei, cara compagna dell’età mia nova, mia lacrimata speme! Questo è quel mondo? Questi i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi, onde cotanto ragionammo insieme? Di lì a poco sarebbe morta anche la mia dolce speranza: i destini hanno negato anche agli anni miei, la giovinezza. Ahi come sei passata, cara compagna della mia fanciullezza, mia lacrimata speranza! Questo è quel mondo? Queste le gioie, l’amore, le opere, gli eventi, di cui tanto parlammo insieme?
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A Silvia: parafrasi Questa la sorte delle umane genti? All’apparir del vero tu, misera, cadesti: e con la mano la fredda morte ed una tomba ignuda mostravi di lontano. Questo è il destino degli uomini? All’apparire dell’amara verità, tu o poverella, sei caduta: e con la mano indicavi da lontano la fredda morte ed una tomba spoglia.
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A Silvia: analisi retorica Silvia, rimembri ancora quel tempo della tua vita mortale, quando beltà splendea negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, e tu, lieta e pensosa, il limitare Ossimoro di gioventù salivi? Sonavan le quiete stanze, e le vie d'intorno, al tuo perpetuo canto, allor che all'opre femminili intenta
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A Silvia: analisi retorica sedevi, assai contenta di quel vago avvenir che in mente avevi. Era il maggio odoroso: e tu solevi così menare il giorno. Io gli studi leggiadri talor lasciando e le sudate carte, metonimia ove il tempo mio primo e di me si spendea la miglior parte, allitterazione d’in su i veroni del paterno ostello porgea gli orecchi al suon della tua voce,
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A Silvia: analisi retorica ed alla man veloce che percorrea la faticosa tela. Mirava il ciel sereno, le vie dorate e gli orti, e quinci il mar da lungi, e quindi il monte assonanza Lingua mortal non dice quel ch’io sentiva in seno. Che pensieri soavi, Anafora che speranze, che cori, o Silvia mia!
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A Silvia: analisi retorica Quale allor ci apparia la vita umana e il fato! Quando sovviemmi di cotanta speme, un affetto mi preme acerbo e sconsolato e tornami a doler di mia sventura. O natura, o natura, personificazione perché non rendi poi quel che prometti allor? perché di tanto inganni i figli tuoi?
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A Silvia: analisi retorica Tu pria che l’erbe inaridisse il verno, da chiuso morbo combattuta e vinta, endiadi perivi, o tenerella. E non vedevi il fior degli anni tuoi; metafora non ti molceva il core la dolce lode or delle negre chiome, or degli sguardi innamorati e schivi; né teco le compagne ai dì festivi ragionavan d’amore.
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A Silvia: analisi retorica Anche perìa fra poco la speranza mia dolce: agli anni miei anche negaro i fati la giovinezza. Ahi come, come passata sei, cara compagna dell’età mia nova, allitterazione mia lacrimata speme! personificazione Questo è quel mondo? Questi i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi, onde cotanto ragionammo insieme?
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A Silvia: analisi retorica Questa la sorte delle umane genti? All’apparir del vero tu, misera, cadesti: e con la mano la fredda morte ed una tomba ignuda mostravi di lontano.
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Il sabato del villaggio In questa poesia Leopardi descrive l’atmosfera festosa di un paesino alla sera del sabato. Nell’attesa dell’indomani, tutti gli abitanti già pregustano la festa e il riposo della domenica. Il poeta ci ricorda però che la gioia tanto attesa si risolverà in un’amara delusione: la domenica sarà in realtà triste e porterà con sé il pensiero della nuova settimana di lavoro.
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Il sabato del villaggio La vera felicità è quindi irraggiungibile per l’uomo che può solo godere di un’illusione di felicità che deriva dall’attesa. Il poeta si rivolge ad un ragazzo invitandolo a godersi la sua spensierata giovinezza, unica vera festa concessa all’uomo, e a non avere fretta di crescere.
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Il sabato del villaggio: parafrasi La donzelletta vien dalla campagna in sul calar del sole, col suo fascio dell'erba; e reca in mano un mazzolin di rose e viole, onde, siccome suole, ornare ella si appresta dimani, al dí di festa, il petto e il crine. La fanciulla viene dalla campagna al tramonto, con il suo fascio di erba; e porta in mano un mazzolino di rose e di viole, con il quale, così come è solita, ella si accinge ad ornare domani, nel giorno della festa, il petto e i capelli.
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Il sabato del villaggio: parafrasi Siede con le vicine su la scala a filar la vecchierella, incontro là dove si perde il giorno; e novellando vien del suo buon tempo, quando ai dí della festa ella si ornava, ed ancor sana e snella solea danzar la sera intra di quei ch'ebbe compagni nell'età piú bella. Siede con le vicine sulla scala a filare la vecchina, di fronte là dove finisce il giorno (il tramonto); e racconta della sua giovinezza, quando nei giorni della festa ella si si ornava ed ancora in salute e agile, era solita ballare insieme a quelli che ebbe come compagni della sua gioventù.
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Il sabato del villaggio: parafrasi Già tutta l'aria imbruna, torna azzurro il sereno, e tornan l'ombre giú da' colli e da' tetti, al biancheggiar della recente luna. Or la squilla dà segno della festa che viene; ed a quel suon diresti che il cor si riconforta. Già tutta l’aria si fa scura (perché il sole è tramontato) il cielo torna azzurro e tornano le ombre giù dai colli e dai tetti (dalle case) alla luce bianca della luna che è appena sorta. Ora la campana annuncia la festa che sta arrivando; ed a quel suono diresti che il cuore si rallegra.
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Il sabato del villaggio: parafrasi I fanciulli gridando su la piazzuola in frotta, e qua e là saltando, fanno un lieto romore; e intanto riede alla sua parca mensa, fischiando, il zappatore, e seco pensa al dí del suo riposo. I fanciulli gridando, sulla piazzetta in gruppo, saltando qua e là, fanno un allegro rumore; e intanto ritorna alla sua misera mensa, fischiando il contadino, e dentro di sé pensa al giorno del suo riposo.
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Il sabato del villaggio: parafrasi Poi quando intorno è spenta ogni altra face, e tutto l'altro tace, odi il martel picchiare, odi la sega del legnaiuol, che veglia nella chiusa bottega alla lucerna, e s'affretta, e s'adopra di fornir l'opra anzi al chiarir dell'alba. Poi quando intorno è spenta ogni altra luce, e tutto il resto è in silenzio, senti battere il martello, senti la sega del falegname che sta sveglio nella chiusa bottega alla luce del lume, e si affretta e si adopera a completare il lavoro, prima che nasca il nuovo giorno
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Il sabato del villaggio : parafrasi Questo di sette è il più gradito giorno, pien di speme e di gioia: diman tristezza e noia recheran l'ore, ed al travaglio usato ciascuno in suo pensier farà ritorno. Questo dei sette è il giorno più gradito, pieno di speranza e di gioia: domani le ore (il passare del tempo) porteranno noia e tristezza e ognuno ritornerà nella sua mente al solito lavoro.
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Il sabato del villaggio : parafrasi Garzoncello scherzoso, cotesta età fiorita è come un giorno d'allegrezza pieno, giorno chiaro, sereno, che precorre alla festa di tua vita. Godi, fanciullo mio; stato soave, stagion lieta è cotesta. Altro dirti non vo'; ma la tua festa ch'anco tardi a venir non ti sia grave. Fanciulletto spensierato, questa età gioiosa (la tua giovinezza) è come un giorno pieno di allegria, giorno luminoso e sereno che precede la festa della tua vita (l’età matura). Gioisci, fanciullo mio, dimensione ideale, età felice è questa. Altro non voglio dirti, ma non ti dispiaccia che la tua festa ancora tardi ad arrivare (non avere fretta di diventare adulto).
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Note di commento Noia : per Leopardi la noia è la condizione più frequente nella vita dell’uomo e consiste nella mancanza di gioia e di speranza, essa è dunque una condizione esistenziale Stato soave : i pochi momenti in cui l’uomo può essere felice sono quelli in cui è pieno di attesa e di progetti per un evento piacevole a cui si prepara. Per questo il vero giorno di festa, per Leopardi, non è la domenica, ma il sabato.
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