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Leonello Tronti (Istat) Università di Roma Tre, A.a. 2016-17
Elementi di analisi macroeconomica delle relazioni industriali. Modello contrattuale, produttività del lavoro e crescita economica Leonello Tronti (Istat) Università di Roma Tre, A.a
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Argomenti La questione: crescita lenta e decrescita, produttività bloccata, impoverimento prima relativo e poi assoluto Gli effetti sul mercato del lavoro Cos’è la crescita economica? Qual è il ruolo delle relazioni industriali nella crescita economica? Il quadro teorico di riferimento: il modello di crescita della produttività di Sylos Labini Distribuzione funzionale del reddito e regola di Bowley Il modello contrattuale italiano e lo scambio politico masochistico La rottura della «regola d’oro» dei salari e i suoi effetti Consumi, investimenti e cooperazione per la crescita Controprova: la redistribuzione dai salari ai profitti Fuori dal tunnel in cinque passi.
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prima impoverimento relativo
La questione: prima crescita lenta e poi decrescita, prima impoverimento relativo e poi assoluto. E ora?
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Crisi finanziaria e crisi dell’economia reale
Ben prima dell’insorgere della crisi finanziaria internazionale, l’economia reale del nostro Paese è entrata in un sentiero di declino relativo di lungo termine. Nel periodo (prima della crisi), la crescita media annua del Pil è stata: dell’1,6% in Italia, del 2,4% nella media dell’Eurozona. In altri termini, già prima della crisi l’Italia ha perduto in media, nei confronti dell’Eurozona (di cui è la terza economia) 0,8 punti l’anno, per la bellezza di 13 anni di fila. Distinzione tra economia reale ed economia finanziaria Leonello G. Tronti
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Pil pro capite in parità di poteri d’acquisto in rapporto alla media europea – Anni 1995 e 2006 (numeri indice in base media Ue15=100) Fonte: Eurostat
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Pil pro capite in rapporto alla media europea – Differenze (pil pro capite in ppa; differenze tra numeri indice media Ue15=100) Pil pro capite Numeri indice Parità di potere d’acquisto (PPA) Leonello G. Tronti Fonte: elaborazioni su dati Eurostat
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Negli anni della crisi le cose peggiorano…
La crisi finanziaria fa emergere in modo ancor più evidente il declino dell’economia italiana, tenuto per troppi anni sotto silenzio, declino che dal 2008 al 2014 da relativo rispetto all’Eurozona (crescita più lenta) diventa assoluto (decrescita). Nel biennio (crisi finanziaria) la caduta del pil è per l’Italia -3,3 per cento l’anno, quella dell’Eurozona -2,0% (differenza = -1,3 p.p. l’anno); Nel biennio (lieve ripresa) la crescita italiana è dell’1,2%, quella dell’Eurozona dell’1,7 (-0,5 p.p. l’anno); Nel (recessione) la caduta media italiana è -2,3%, quella dell’Eurozona -0,6 (-1,7 p.p. l’anno); Nel 2014 (nuova ripresa) l’economia italiana si contrae ulteriormente contratta dello 0,4%, mentre l’Eurozona cresce dello 0,9% (-1,3 p.p.). Leonello G. Tronti 7
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Dal 2015 il declino torna relativo
Solo nel 2015 l’Italia riuesce a riagganciare la crescita dell’Eurozona, seppure in termini molto blandi (0,8 per cento contro 1,6 per cento). Nel 2016 il risultato migliora lievemente per l’Italia (0,9 per cento), ma anche per l’eurozona (1,7%). In tutto, nel ventennio tra il 1995 e il 2016, il Pil italiano è cresciuto dell’11,6% - meno di un terzo di quello dell’Eurozona, aumentato del 36,2%. In altri termini, l’economia italiana ha accumulato un ritardo di 24,6 punti percentuali di Pil rispetto alla media dell’Eurozona. Leonello G. Tronti 8
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Pil reale (a prezzi costanti) (1995-2016)
Differenze nelle linee di tendenza di lungo periodo Fonte: Eurostat Leonello G. Tronti
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Dal 2015 il declino torna relativo
Se l’Italia fosse cresciuta come la media degli altri paesi dell’euro, ora avremmo un Pil di un quarto più elevato: 408 miliardi di euro in più. Ovvero, all’attuale quota del lavoro nel reddito (42,2%), il reddito di un dipendente sarebbe in media superiore di euro l’anno, 905 euro al mese. E, senza alcuna tassa né taglio alla spesa pubblica, avremmo un debito pubblico ridotto dal 134 al 107% del Pil. L’Italia non può rinunciare alla crescita. Se dal 2017 in poi tornasse a crescere come prima del 2008 (1,5 per cento l’anno), ci vorrebbero comunque ancora cinque anni per tornare al livello di reddito del 2007, cumulando così 14 anni di blocco! Una stagnazione ben più lunga di quella del ’29, che impiegò solo sei anni a recuperare il livello di reddito iniziale. Leonello G. Tronti 10
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Come analizzare la differenza di risultato dell’economia italiana?
Da notare Come analizzare la differenza di risultato dell’economia italiana? Leonello G. Tronti
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Cos’è la crescita? Leonello G. Tronti
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Partiamo dalla produttività
La produttività è la grandezza economica che mette in rapporto: i risultati del processo produttivo (output), con gli input del processo produttivo, ovvero ciò che partecipa al processo. Tutto ciò che entra nel processo produttivo è importante, ma qualcosa è più importante del resto. In particolare, è più importante ciò che permette di aggiungere valore alle materie prime, ai beni intermedi impiegati e ai servizi utilizzati nel processo produttivo, cioè: il lavoro, l’opera di chi partecipa direttamente al processo produttivo, il capitale (non soltanto i soldi, ma gli uffici, i macchinari, i mezzi di trasporto, i servizi, le tecnologie, l’organizzazione ecc. utilizzati nel processo), il «capitale umano» (ovvero le conoscenze, esperienze, abilità e capacità relazionali che i lavoratori utilizzano nel processo). Non è inutile notare che di queste capacità relazionali fa parte anche la qualità delle relazioni industriali. 20/01/2017 Leonello G. Tronti 13
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Produttività ed efficienza
La produttività esprime l’efficienza di un processo produttivo, di un’impresa, un settore o un’intera economia, Nell’economia attuale, sempre più terziarizzata e legata alla produzione di beni immateriali (conoscenza, informazione, comunicazione, finanza, salute ecc.), anche la produttività si smaterializza, e va misurata come rapporto tra: il valore che il processo produttivo aggiunge alle materie prime, ai beni intermedi e ai servizi esterni consumati nel processo produttivo (o valore aggiunto) e la quantità di servizi di lavoro (offerti dai lavoratori), che nel complesso dell’attività dell’impresa utilizzano: i servizi di capitale umano (offerti dagli stessi lavoratori e dal sindacato) e i servizi di capitale (offerti dall’imprenditore). 20/01/2017 Leonello G. Tronti 14
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La produttività è importante?
La produttività è la variabile fondamentale del progresso economico: Infatti è solo grazie all’aumento della produttività (attraverso l’istruzione e la formazione dei lavoratori, la divisione e specializzazione del lavoro, il miglioramento dell’organizzazione, il conseguimento di economie di scala, l’innovazione tecnologica ecc.) che è possibile contrastare i limiti allo sviluppo imposti dalla scarsità delle risorse. Ed è solo grazie all’aumento della produttività che è possibile incrementare le risorse a disposizione dell’impresa per: Utilizzi degli aumenti di produttività Ridurre i prezzi, a beneficio dei consumatori Aumentare i salari o ridurre gli orari, a beneficio dei lavoratori Aumentare i profitti, a beneficio degli imprenditori o degli azionisti Una qualunque combinazione delle alternative precedenti 20/01/2017 Leonello G. Tronti
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Idee sbagliate Va poi sottolineato con forza, per combattere equivoci purtroppo molto diffusi, che l’indicatore statistico principale della produttività del lavoro – dato dal rapporto tra i risultati del processo produttivo (output) e l’input di lavoro umano necessario a produrlo: non è in alcun modo un indicatore dell’impegno dei lavoratori nel processo produttivo (produttività dei lavoratori), ma è invece un indicatore sintetico dell’efficienza dell’intero processo produttivo, come risultato di un’adeguata combinazione di input di lavoro, di capitale umano e di altri tipi di capitale (fisico, finanziario, organizzativo ecc.): Difficilmente un basso livello di produttività del lavoro è dovuto ad un impegno limitato dei lavoratori; Quasi sempre è dovuto alla mancanza di investimenti dell’impresa in capitale umano, fisico, organizzativo ecc. 20/01/2017 Leonello G. Tronti
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Una semplice rappresentazione formale della crescita (scomposizione)
𝑌 = 𝐿 + 𝜋 + 𝐿 𝜋 NB: il puntino soprascritto indica tassi di variazione %. La scomposizione, che altro non è che un’identità (e dunque non propone relazioni di comportamento tra le variabili), indica che la crescita del prodotto ( 𝑌 ) è pari alla somma: della crescita dell’input di lavoro ( 𝐿 ) e dell’aumento della produttività del lavoro ( 𝜋 ) (oltre a un termine di interazione tra i due, 𝐿 𝜋 , di entità trascurabile). 20/01/2017 Leonello G. Tronti
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Esiste un tradeoff «ricardiano» tra produttività e occupazione?
La scomposizione rende evidente che, perché cresca l’occupazione, è necessario che il prodotto cresca più della produttività del lavoro: In formula, 𝐿 >0↔ 𝑌 > 𝜋 , ovvero: la variazione dell’occupazione è maggiore di zero se e solo se la variazione del prodotto è maggiore della variazione della produttività. E anche, 𝐿 = 𝑌 − 𝜋 , ovvero: la variazione dell’occupazione è pari alla differenza tra la variazione del prodotto e quella della produttività. Da queste relazioni dobbiamo trarre la conclusione che la produttività è nemica dell’occupazione? No, questo vincolo è presente all’impresa in ogni intervallo di tempo, Ma è proprio la crescita della produttività che rende l’impresa competitiva e sostenibile, perché consente di contenere i prezzi e di aumentare i volumi di produzione e, con essi, l’occupazione. L’aumento dell’occupazione dipende dall’aumento del prodotto, che a sua volta dipende da quanto cresce la produttività. 20/01/2017 Leonello G. Tronti
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Produttività dell’impresa e probabilità di aumentare l’occupazione, per classi di addetti dell’impresa (terzo trimestre 2013-terzo trimestre 2015) Fonte: Istat, Rapporto competitività 2016. Produttività misurata in termini di valore aggiunto per addetto; Quartili calcolati all’interno di ciascun settore. Livelli di probabilità espressi in termini percentuali Leonello G. Tronti
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Produttività, prodotto e occupazione
Leonello G. Tronti
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Produttività oraria in Italia, Germania ed Eurozona (1995-2012)
Leonello G. Tronti Fonte: Eurostat 21
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In Italia la produttività ristagna dal 1995 ed è ferma dal 2000
Nell’insieme, tra il 1995 e il 2014 la produttività oraria (per ora lavorata): è cresciuta del 27% in Germania, del 24% nella media dell’Eurozona, e soltanto del 5,5% in Italia, ovvero meno di un quarto di quanto accadeva nei paesi euro. Ricordiamo che, nello stesso periodo, il Pil italiano è cresciuto del 9% in Italia e del 27% nell’Eurozona. Come si lega la crescita della produttività a quella del prodotto? Leonello G. Tronti 22
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Il contributo della produttività alla crescita
Poiché 𝑌 = 𝐿 + 𝜋 , possiamo facilmente calcolare i contributi percentuali che l’occupazione e la produttività offrono alla crescita del reddito: 𝑐𝐿= 𝐿 𝑌 ∙100 𝑐𝜋= 𝜋 𝑌 ∙100 Leonello G. Tronti
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Crescita del prodotto lordo e contributi della produttività e dell’occupazione nei paesi europei (su ogni colonna il valore % del contributo della produttività alla crescita del pil) Leonello G. Tronti Fonte: Eurostat
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Pil per ora lavorata (produttività oraria del lavoro) in rapporto alla media europea – Differenze tra 2007 e 1995 (Differenze tra numeri indice in base media Ue15=100) Fonte: Eurostat
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Quali sono gli effetti della crisi sul mercato del lavoro?
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Prodotto, produttività, occupazione e volume di lavoro (numeri indici, I/2008=100)
Fonte: Istat, Conti nazionali e Forze di lavoro
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Occupazione e disoccupazione
28 Fonte: Istat, Forze di lavoro
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Disoccupati, inattivi e inoccupati (persone in età 15-64; numeri indice, I-2007=100)
Fonte: Istat, Forze di lavoro
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Perché cresce la produttività?
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La visione mainstream (neoclassica)
Leonello G. Tronti
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La visione neoclassica
Fa discendere il concetto di produttività dalla funzione di produzione, più complessa ma anche più discutibile della semplice identità-scomposizione vista nella prima lezione. Inserisce infatti, tra i fattori di produzione, non solo il lavoro, ma anche il capitale, e anche un terzo elemento, la produttività totale (o multifattoriale), che rappresenta il contributo offerto al prodotto, in modo non distinguibile, dalla combinazione dei due fattori, lavoro e capitale. La produttività totale, pur essendo un elemento residuale e di non chiarissima identificazione (Robert Solow la definisce «la misura della nostra ignoranza»), viene generalmente identificata come quella parte del progresso tecnico che non è incorporata: né nel lavoro (migliore qualificazione dei lavoratori), né nei macchinari (miglioramento tecnologico). Si tratta, in altri termini, di un concetto di «progresso tecnico», ma sarebbe meglio dire tecnologico, ampio e confuso, che mette insieme cose molto diverse, come l’innovazione organizzativa, le relazioni industriali, le economie di scala ecc. Leonello G. Tronti
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È possibile distinguere le produttività «parziali»?
La visione neoclassica propone quindi un modello che vorrebbe poter distinguere le produttività parziali, riferite da un lato al lavoro e dall’altro al capitale, dalla produttività totale, riferita all’interazione tra lavoro e capitale, o ad un non meglio specificato progresso tecnologico non incorporato. Leonello G. Tronti
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Ecco il modello nella sua versione più semplice
Leonello G. Tronti
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Punti rilevanti del modello -1
I fattori di produzione (L, K) hanno complessivamente rendimenti costanti (non ci sono economie di scala): a+b=1. Le elasticità del prodotto ai fattori (a, b) non derivano da una misurazione statistica di quanto aumenti il prodotto all’aumentare delle quantità dei fattori utilizzati nel processo produttivo, sono semplicemente ipotizzate acriticamente uguali alla rispettiva quota distributiva nel valore aggiunto, in base all’assunzione teorica che: il mercato sia concorrenziale e paghi ai fattori L e K la loro produttività media. Dunque il modello assume che il mercato sappia giudicare correttamente, attraverso la loro remunerazione, quanto ciascun fattore contribuisce alla realizzazione del valore aggiunto. Leonello G. Tronti
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Punti rilevanti del modello - 2
Le produttività parziali, del lavoro e del capitale: 𝜋 𝐿 =𝑎 𝑌 𝐿 e 𝜋 𝐾 =𝑏 𝑌 𝐾 sono indicatori relativamente poco importanti, perché l’aumento dell’impiego di L e di K si trasferisce al prodotto secondo coefficienti predeterminati (a e b). Ciò che nel modello conta davvero, invece, è c, la produttività totale: 𝑐= 𝑌 ( 𝐿 𝑎 ∙ 𝐾 𝑏 ) che rappresenta, come abbiamo notato, il frutto dall’interazione tra lavoro e capitale, e nella formula è residuale (è infatti l’unica grandezza ignota della funzione di produzione). Leonello G. Tronti
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La produttività totale:
È uguale al rapporto tra il valore aggiunto e il prodotto delle quantità dei fattori, ciascuna quantità elevata all’elasticità del prodotto al fattore, che è approssimata dalla quota distributiva del fattore nel valore aggiunto. Della produttività totale (il cui valore, come detto, non è rilevabile direttamente) si può quindi ottenere per differenza, per ogni periodo, la variazione percentuale, nel modo seguente: 𝑐 = 𝑌 −(𝑎 𝐿 +𝑏 𝐾) NB: il puntino soprascritto indica tassi di variazione %. Leonello G. Tronti
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Punti di grave debolezza
Il calcolo richiede molte, forse troppe assunzioni «eroiche», in particolare sulle elasticità fattoriali (a, b), Tra le quali quella (fattuale) che l’economia sia concorrenziale (e non oligopolistica), e quella (teorica) che i fattori siano remunerati alla loro produttività media. Siamo, in altri termini, di fronte ad un ragionamento circolare: il mercato giudica correttamente e remunera i fattori secondo la loro produttività parziale; ma il modello basa il calcolo della produttività parziale dei fattori sulla loro remunerazione di mercato; Dunque non è possibile stabilire se il mercato è davvero capace di valutare correttamente o meno la produttività parziale dei fattori (l’apporto di ciascun fattore al valore del prodotto). Il tutto per ottenere un risultato che in fin dei conti ha una capacità euristica modesta: Mettiamo che il modello sia, per qualche caso, corretto. A cosa serve? È davvero possibile aumentare, ad esempio, la produttività del lavoro senza avere effetti anche su quella del capitale, o viceversa? Leonello G. Tronti
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Valore aggiunto, input produttivi e misure di produttività
Valore aggiunto, input produttivi e misure di produttività. Totale economia Fonte: Istat, Misure di produttività
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Valore aggiunto e misure di produttività. Totale economia
Fonte: Istat, Misure di produttività
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dell’«austerità espansiva»
La visione europea dell’«austerità espansiva» Leonello G. Tronti
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Una diversa argomentazione macroeconomica: la teoria delle «riforme strutturali» per la crescita
Elaborazione basata su Blanchard, Giavazzi, 2002 Leonello G. Tronti
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Da dove viene la crescita?
In questo modello l’impresa è spinta ad innovare dalla concorrenza, L’innovazione e la concorrenza, a loro volta, consentono e spingono l’impresa ad accrescere la produttività, L’aumento di produttività consente di contenere i prezzi, e dunque di aumentare la competitività di beni e servizi. La crescita deriva: dalla maggior penetrazione nei mercati internazionali e dall’aumento dei consumi sul mercato interno consentito da una moderazione dei prezzi interni inferiore a quella dei salari. Leonello G. Tronti
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Il cuore del modello Nel modello delle Riforme strutturali i motori della crescita sono due: La concorrenza (che stimola anche l’innovazione), E il rapporto cruciale tra la dinamica dei salari e quella dei prezzi al consumo (ovvero la dinamica dei salari reali) con un ruolo di rilievo, e diverso, delle relazioni industriali. La crescita salariale dev’essere moderata, per evitare spinte inflazionistiche e mantenere la competitività internazionale, Ma le imprese debbono «spendere» almeno in parte i guadagni di produttività per contenere la dinamica dei prezzi al consumo al disotto di quella salariale, e assicurare così la crescita della domanda interna. Leonello G. Tronti
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Come funziona nei fatti: domanda interna e domanda estera (1° trimestre 2006-1° trimestre 2016)
Dati Istat, Conti trimestrali
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L’ «austerità espansiva» non funziona: cadono i consumi e la crescita cade con loro
Dati Istat, Conti trimestrali
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Sono davvero solo concorrenza e innovazione a spingere la produttività
Sono davvero solo concorrenza e innovazione a spingere la produttività? Un approccio differente, basato sull’economia classica Leonello G. Tronti
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Secondo Paolo Sylos Labini
La produttività del lavoro cresce se l’impresa deve riorganizzarsi. E questo accade quando l’impresa: è trainata dall’espansione del mercato, è spinta da un aumento del costo del lavoro superiore a quello del prezzo dei macchinari, è spinta da un incremento del clup (costo del lavoro per unità di prodotto) superiore a quello dei prezzi. A fronte di queste forze «di mercato», l’effetto degli investimenti è modesto.
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Il modello di Sylos Labini (1984…2005)
(con m<n,t) NB: il puntino soprascritto indica tassi di variazione %.
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Verifiche econometriche del modello realizzate da PSL
Fonte: Corsi e Guarini, 2007, p. 21.
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1. L’“effetto Smith” Per Adam Smith l’aumento delle capacità produttive del lavoro: dipende dalla divisione del lavoro, che a sua volta dipende dall’estensione del mercato. L’intuizione di Adam Smith precorre di secoli le analisi sul ruolo della domanda nella determinazione della crescita della produttività; L’estensione del mercato interno, ad esempio, dipende dalla dinamica dei salari e quindi da quella degli investimenti e della spesa pubblica, Mentre l’estensione del mercato estero traina la crescita della produttività nelle imprese esportatrici. Dunque, sono la crescita del pil (nei suoi diversi componenti) o quella dei mercati esteri a determinare la dinamica della produttività, e non viceversa.
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L’“effetto Smith” e le invenzioni
Per Paolo Sylos Labini (2004), nella valutazione del funzionamento dell’ «effetto Smith» nei confronti del progresso tecnico è necessario distinguere Le “grandi invenzioni” (degli scienziati) dalle “piccole invenzioni” (di lavoratori e imprenditori). Sono le piccole invenzioni ad essere endogene e più facilmente attivate dall’ «effetto Smith», e quindi in generale più continue e più importanti ai fini della crescita economica.
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La legge di Verdoorn (a)
L’«effetto Smith» combina il ruolo della domanda con quello del progresso tecnico in termini di divisione e specializzazione del lavoro. Le analisi successive sull’influenza della crescita sulla produttività si sono soffermate anche sui rendimenti di scala crescenti, legati alla dimensione delle imprese e alle economie di scala, in termini sia fisici, sia organizzativi. La «legge di Verdoorn» (dall’economista olandese Petrus Johannes Verdoorn), evidenzia, per l’appunto, che un’accelerazione della produzione aumenta la produttività a causa di rendimenti crescenti . «Nel lungo periodo una variazione del volume della produzione, diciamo di circa il 10 per cento, tende ad essere associata con un aumento medio della produttività del lavoro del 4,5 per cento» (Verdoorn, 1949, p . 59).
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La legge di Verdoorn (b)
si differenzia dall’ "ipotesi usuale... che la crescita della produttività sia principalmente spiegata dal progresso delle conoscenze in campo scientifico e tecnologico" (Kaldor, 1966, p . 290), come tipicamente ipotizzato nei modelli di crescita neoclassici (ad esempio, il modello di Solow), Ed è invece solitamente associata con i modelli di causazione cumulativa della crescita, in cui è la domanda piuttosto che l'offerta a determinare il ritmo dell’accumulazione. Un ‘coefficiente di Verdoorn’ vicino a 0,5 si trova anche nelle successive stime della legge. Nicholas Kaldor (1966, p. 289) riporta un coefficiente pari a 0,484, E Sylos Labini, come abbiamo visto, riporta nelle sue stime dell’«effetto Smith» su diversi paesi, periodi e settori, coefficienti con un valore medio di 0,43 (in Italia il coefficiente medio è più alto: 0,55).
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Kaldor e Thirlwall: il ruolo della domanda estera
Nicholas Kaldor (1966) e Anthony Thirlwall (1979) hanno applicato la legge di Verdoorn anche a modelli di crescita export-led: Per un dato paese un'espansione del settore delle esportazioni può causare una specializzazione nella produzione di prodotti destinati all'esportazione. La specializzazione aumenta il livello di produttività e il livello delle competenze nel settore esportatore (divisione e specializzazione del lavoro). Ciò può quindi portare ad una riallocazione di risorse dal settore non esportatore, meno efficiente, al settore esportatore, più produttivo; La riallocazione conduce a prezzi più bassi per i beni esportati e a una maggiore competitività delle esportazioni. L’aumento di produttività quindi porta all’espansione dell’export e alla crescita della produzione. A volte la legge di Verdoorn viene chiamata legge o effetto di Kaldor-Verdoorn.
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Andamento del Pil e del monte salari a prezzi correnti
Fonte: calcoli su dati Istat
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Il ruolo delle relazioni industriali
Con riferimento a questo aspetto della funzione di produttività di Sylos Labini, è evidente che: nel mercato interno, sono gli incrementi salariali – come estensione dei consumi delle famiglie - a trainare la crescita della produttività e non viceversa. Questo effetto, in termini diretti, è tanto maggiore quanto più le imprese operano nel settore dei beni di consumo. L’effetto di traino della produttività da parte dei salari, però, non vale per le imprese esportatrici. Le relazioni industriali sono pertanto vincolate, nella crescita delle retribuzioni, alla considerazione degli effetti espansivi degli aumenti salariali sui mercati di riferimento.
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2. L’“effetto Ricardo” Per Ricardo la produttività cresce come effetto di un risparmio diretto del coefficiente di lavoro a parità di produzione, Il risparmio diventa necessario quando si verifica un aumento del costo relativo del lavoro, Ossia un aumento del costo del lavoro rispetto al prezzo delle macchine. La sostituzione può provocare nel breve periodo, in presenza di una domanda stagnante o rigida rispetto al prezzo, la c.d. «disoccupazione tecnologica» (o «ricardiana»). Punti di contatto con Marx: «Le macchine corrono là dove c’è lo sciopero». Nelle stime di Paolo Sylos Labini, il coefficiente del costo relativo del lavoro, con un ritardo medio tra 2 e 3 anni, è pari a 0,43. Per l’Italia il coefficiente medio è di 0,41.
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Un’analogia con l’effetto Ricardo per le imprese internazionali (un altro tipo di prezzo relativo del lavoro) Nel caso di imprese che operano a livello internazionale, a parità di mercato di sbocco, la redditività aziendale (nb: non la produttività) può crescere attraverso un processo di sostituzione di lavoro nazionale più costoso con lavoro localizzato in paesi esteri, di qualità comparabile ma meno costoso. Un processo di questo tipo aumenta la redditività modificando la distribuzione del valore aggiunto tra salari e profitti, Ma non modifica la produttività dell’impresa. Leonello G. Tronti
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Andamento del prezzo relativo del lavoro
Fonte: calcoli su dati Istat
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Il ruolo delle relazioni industriali
Con riferimento al prezzo relativo del lavoro il ruolo delle relazioni industriali è quello di trovare un giusto equilibrio tra: il livello di pressione salariale che spinge l’impresa a modernizzarsi e a riorganizzare i processi produttivi (la cosiddetta wage whip, o frusta salariale), E le previsioni di estensione del mercato che l’impresa o il settore possono attendersi sulla base dell’aumento di produttività. I margini per aumenti salariali senza ripercussioni occupazionali sono presenti in mercati in espansione o in mercati poco contendibili, dove la spinta della concorrenza al taglio dei costi del lavoro è debole.
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3. Il costo assoluto del lavoro
Il movimento del costo assoluto del lavoro è dato dalla differenza tra la variazione del clup e quella dei prezzi del prodotto. Il costo del lavoro per unità di prodotto in termini nominali (clup) è dato dal rapporto tra il costo del lavoro per unità di lavoro e la produttività del lavoro (clup=cl/π). Si noti che il clup è un rapporto tra una grandezza nominale (il costo del lavoro per unità di lavoro) e una grandezza reale (la produttività del lavoro). Il clup è comunemente considerato uno dei principali indicatori di competitività di costo del sistema economico così come dell’impresa. Ma poiché la sua variazione è fortemente determinata dall’andamento dei prezzi, rispetto ai quali il numeratore è indicizzato, ne rende la lettura poco agevole ai fini della diagnosi delle cause della dinamica della competitività. Il costo assoluto del lavoro, scelto come indicatore di competitività da Sylos Labini, misura pertanto l’andamento del costo del lavoro non in termini nominali, ma in relazione ai prezzi di beni e servizi.
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Costo assoluto del lavoro e distribuzione del reddito - 1
La quota del lavoro totale (corretta per gli indipendenti) nel reddito (Ql) si può scrivere nel modo seguente: dove Nd è l’occupazione dipendente, Ni quella indipendente, w il costo del lavoro unitario, Y il prodotto, p i prezzi, N l’occupazione totale e clup è il costo del lavoro per unità di prodotto. Possiamo quindi esprimere la quota del lavoro come rapporto tra il clup e i prezzi del prodotto: 𝑄 𝑙 = 𝑐𝑙𝑢𝑝 𝑝 Leonello G. Tronti
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Costo assoluto del lavoro e distribuzione del reddito - 2
In termini di tassi di variazione abbiamo: Poiché il moltiplicatore sul lato destro dell’equazione è molto prossimo all’unità, possiamo notare che la variazione della quota del lavoro totale approssima la variazione del costo assoluto del lavoro. Inoltre, dall’equazione possiamo ricavare la condizione di stabilità: Che indica che la quota sarà stabile se la variazione del clup sarà pari a quella dei prezzi; e inoltre: ovvero la quota crescerà/diminuirà se e solo se la variazione del clup sarà superiore/inferiore a quella dei prezzi. Leonello G. Tronti
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Costo assoluto del lavoro/ quota del lavoro corretta
Fonte: calcoli su dati Istat
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Effetti del rapporto tra variazione del clup e inflazione
Se il clup cresce meno dell’inflazione, il costo assoluto del lavoro si riduce e le imprese aumentano i loro margini di guadagno, Se, invece, il clup cresce più dell’inflazione, il costo assoluto del lavoro aumenta, E gli imprenditori tentano di salvaguardare i propri guadagni riducendo l’occupazione o riorganizzando la produzione per rendere i lavoratori più produttivi. In genere l’effetto dell’aumento del costo assoluto del lavoro sulla dinamica della produttività è piuttosto rapido (qualche trimestre-un anno) Nelle stime di Paolo Sylos Labini, il coefficiente del costo assoluto del lavoro, con un ritardo di 1 anno, è pari a 0,18. Per l’Italia il coefficiente medio è di 0,15.
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Costo assoluto del lavoro
Fonte: calcoli su dati Istat
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Il ruolo delle relazioni industriali
Con riferimento al costo assoluto del lavoro va notato che, per il singolo comparto e/o la singola azienda, ciò che conta ai fini dell’alterazione della distribuzione del reddito ai fattori Non è l’andamento dei prezzi al consumo (che conta invece per i lavoratori), E nemmeno quello generale dei prezzi di beni e servizi, Ma conta invece l’andamento dei prezzi dei prodotti del comparto o dell’impresa. L’impresa o il comparto si troveranno pertanto spinta a riorganizzarsi se i propri prezzi crescono meno del clup. E la contrattazione dovrebbe considerare l’entità della spinta salariale in relazione a questi prezzi, non a quelli generali.
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4. Gli investimenti pregressi
Si tratta degli investimenti realizzati negli anni precedenti (t=2 anni); gli investimenti correnti, infatti, sono troppo recenti per causare effetti produttivi di rilevo, e pertanto svolgono un ruolo economico soltanto dal lato della domanda, in termini di ampliamento del mercato dei beni capitali (effetto Smith). Mentre soltanto gli investimenti realizzati in precedenza influenzano sia la capacità produttiva, sia la crescita della produttività nel periodo corrente. In generale, infatti, i nuovi beni capitali impiegano 2 anni a integrarsi nei processi produttivi al punto da accrescerne la produttività. Nelle stime di Paolo Sylos Labini, il coefficiente degli investimenti pregressi, con un ritardo di 2 anni, è pari a 0,08. Per l’Italia il coefficiente medio è di 0,06.
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Andamento degli investimenti fissi lordi
Fonte: calcoli su dati Istat
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Il modello di Sylos Labini in un grafico
Fonte: calcoli su dati Istat
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La distribuzione funzionale del reddito:
La “regola di Bowley”
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La regola di Bowley - 1 A seguito dei suoi studi sui redditi in Gran Bretagna (Bowley e Stamp, 1927), è associata al nome di Arthur Bowley l’ipotesi che la quota del lavoro nel reddito Ql si mostri sostanzialmente costante nel tempo, principio divenuto in seguito noto come “legge o regola di Bowley”. La distribuzione funzionale del reddito (tra quota del lavoro e quota del capitale) occupa un ruolo preminente nella teoria economica con il contributo degli economisti post-keynesiani, che la considerano come dipendente dal tasso di crescita del prodotto. Nel breve periodo, un incremento del tasso di crescita dell’economia non viene compensato dalla dinamica salariale e comporta quindi uno spostamento della distribuzione a favore dei redditi da capitale. La contrattazione sindacale tende a riportare la distribuzione all’equilibrio precedente. Gli economisti post-keynesiani forniscono così un’interpretazione delle variazioni di breve periodo della distribuzione funzionale dei redditi, che si accompagna però con la previsione di una costanza delle quote di reddito nel lungo periodo (legge di Bowley).
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La regola di Bowley - 2 Date le diverse propensioni al risparmio di lavoratori e imprenditori, la manovra della distribuzione funzionale del reddito consente di portare i risparmi ad eguagliare gli investimenti necessari per conseguire: il pieno impiego o il tasso di crescita del prodotto desiderato. Di qui l’importanza fondamentale della politica dei redditi per la crescita e l’occupazione. Il tema è stato recentemente ripreso con forza in relazione al tema della disuguaglianza e dell’enorme arricchimento dell’1 per cento più ricco della popolazione negli ultimi 30 anni (v. Piketty, 2013). Per Nicholas Kaldor (1957) la stabilità nel tempo della distribuzione funzionale del reddito, insieme con un flusso di investimenti tale da assicurare la costanza del rapporto tra capitale e reddito, assicurano: la coincidenza del tasso di crescita del rapporto capitale-lavoro con quello della produttività del lavoro e la costanza del saggio di profitto. Queste condizioni, prescrittivamente, consentono all’economia di percorrere un sentiero di crescita stabile e bilanciata (balanced growth).
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Il modello di «crescita bilanciata» di Kaldor (1957) - 1
Il modello di Kaldor indica che, se le quote del lavoro e del capitale nel reddito (QL e QK) sono costanti nel tempo e il rapporto capitale-prodotto (K/Y) è anch’esso costante, anche il saggio di profitto (P/K) sarà costante: se 𝑄 𝐿 =0, allora 𝑄 𝐾 = 𝑃 𝑌 =0, e se 𝑃 𝑌 =0 e 𝐾 𝑌 =0, allora 𝑃 𝐾 =0. Ma perché il rapporto capitale-prodotto sia costante è necessario che il tasso di crescita del rapporto capitale-lavoro (K/NT) coincida con quello della produttività del lavoro (Y/NT), ovvero che lo stock di capitale (K) cresca nella stessa misura del reddito (Y), attraverso l’opportuno flusso di investimenti: 𝐾 = 𝑌 solo se 𝐾 𝑁 𝑇 = 𝑌 𝑁 𝑇 , ovvero solo se 𝐾 𝑌 =0.
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La «crescita bilanciata» di Kaldor - 2
Il tasso di crescita della produttività pertanto, che assicura la crescita dell’economia, rimane costante soltanto in presenza di quote distributive costanti (legge di Bowley), ovvero: di investimenti tali da eguagliare la crescita del rapporto capitale-lavoro a quella della produttività del lavoro e da mantenere costante il rapporto capitale-prodotto. e di retribuzioni reali che crescono nella stessa misura della produttività del lavoro («regola d’oro» dei salari),
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Salario, produttività e regola di Bowley
Sia w il salario di fatto, ND l’occupazione dipendente, Y il reddito reale totale e p i prezzi; la quota del lavoro, o quota del lavoro dipendente nel reddito (QL), può essere definita nel modo seguente: 𝑄 𝐿 =𝑤∙ 𝑁 𝐷 ∙ 1 𝑌 ∙ 1 𝑝 , da cui, moltiplicando e dividendo per l’occupazione totale NT, e sostituendo la produttività del lavoro al reddito per occupato, abbiamo: 𝑄 𝐿 =𝑤∙ 𝑛 𝐷 ∙ 1 𝜋 ∙ 1 𝑝 , dove nD indica l’incidenza dell’occupazione dipendente sul totale. Da questa equazione si ricava agevolmente la «regola d’oro» o condizione di crescita salariale che assicura l’invarianza della quota del lavoro: 𝑄 𝐿 ≈0↔ 𝑤 − 𝑝 ≈ 𝜋 − 𝑛 𝐷 . La quota dei salari nel reddito resta costante solo se la retribuzione media reale cresce nella stessa misura della produttività del lavoro, al netto della variazione dell’incidenza dell’occupazione dipendente.
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Legge di Bowley e «regola d’oro» dei salari
La diapositiva precedente dimostra che la legge di Bowley si verifica soltanto se: la crescita del salario reale eguaglia la variazione della produttività del lavoro («regola d’oro»), al netto della variazione dell’incidenza dell’occupazione dipendente sul totale (che nel breve periodo può essere considerata pari a zero). Questa condizione vale tanto a livello macro, per l’intera economia, quanto a livello micro, per la singola impresa.
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Incentivo alla cooperazione e stimolo ai consumi
Oltre ad essere uno dei pilastri della ‘crescita bilanciata’ à la Kaldor, la legge di Bowley: preserva l’incentivo chiave alla cooperazione tra i partner sociali finalizzata al miglioramento della produttività e alla crescita, e consente il massimo aumento dei consumi delle famiglie raggiungibile senza esercitare pressioni inflazionistiche sul saggio di profitto.
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La regola di Bowley - 3 La regola di Bowley può essere pertanto assunta come “regola aurea della politica salariale”, perché: in parità di altre condizioni, assicura la massima crescita dei salari (e della domanda interna) compatibile con l’assenza di pressioni sul saggio di profitto e, quindi, sui prezzi. Questa condizione comporta come corollario che le retribuzioni reali crescano nell’esatta misura della crescita della produttività del lavoro («regola d’oro» della politica salariale), Ciò non tanto per un’implicita identificazione dei lavoratori come unici autori della crescita della produttività, ma per gli effetti delle retribuzioni sui consumi e sulla crescita.
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Lo “scambio politico masochistico”
Il modello contrattuale del Protocollo di luglio 1993. Lo “scambio politico masochistico”
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L’architrave del nostro modello contrattuale: il Protocollo di luglio 1993
Il meccanismo di negoziazione dei salari previsto dal Protocollo di Luglio 1993 prevede quattro pilastri: Due sessioni annue di concertazione trilaterale (tra Governo, Organizzazioni datoriali e Sindacati) della manovra di politica economica: una («di primavera») in preparazione del DPEF (oggiDEF) e una («d’autunno») in preparazione della legge Finanziaria (oggi di Stabilità). 13/11/2015 Leonello G. Tronti
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Il Protocollo di luglio 1993 - 2
Il Protocollo prevede poi due livelli negoziali, specializzati e non sovrapposti: Il Contratto nazionale di categoria (o CCNL, Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro) (primo livello), che stabilisce gli aumenti degli importi tabellari (minimi) per i diversi livelli di inquadramento, legati all’inflazione programmata (ma non solo); Con una forma di «politica salariale d’anticipo» (tasso di inflazione programmata e recupero degli scostamenti); Il contratto decentrato, a livello aziendale o territoriale (secondo livello), che fissa il salario di risultato, destinato alla crescita del potere d’acquisto delle retribuzioni, legato a obiettivi di produttività, profittabilità e qualità a livello locale. 13/11/2015 Leonello G. Tronti
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Il Protocollo di luglio 1993 - 3
L’ultimo pilastro (la seconda parte del Protocollo) non contiene regole ma indica invece un programma di ammodernamento delle imprese e potenziamento del lavoro, attraverso: Investimenti in ricerca e sviluppo, Diffusione delle nuove tecnologie, Formazione dei lavoratori. Questo pilastro costituisce una sorta di scambio politico tra le imprese e i lavoratori: I lavoratori accettano una regolazione stringente della dinamica salariale In cambio le imprese utilizzano i risparmi sul costo del lavoro per modernizzare le imprese e renderle solide e competitive nei confronti della globalizzazione. Si noti che manca qualunque riferimento alla stabilità delle quote distributive.
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Il Patto per l’Italia (2002) non viene firmato dalla Cgil.
Ma la concertazione della manovra economica (1° pilastro) non è mai divenuta prassi corrente Esperienze di concertazione («partecipazione dall’alto») sparse e poco significative fino al Patto di Natale (1998), che decentra la concertazione a livello regionale, in combinato disposto con la riforma del Titolo V (1999). Il Patto per l’Italia (2002) non viene firmato dalla Cgil. Viene a mancare il presupposto dell’unità sindacale. In seguito il governo passa dalla concertazione della politica economica al «dialogo sociale» e poi abbandona l’idea stessa della concertazione della politica economica. Nel 2012 il governo Monti inaugura una prassi di non-concertazione. 13/11/2015 Leonello G. Tronti
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La contrattazione di secondo livello (3° pilastro) non è mai decollata
Secondo l’indagine Invind della Banca d’Italia (D’Amuri e Giorgiantonio, 2013), la contrattazione decentrata copre all’incirca il 21% delle imprese al di sopra dei 20 addetti nel settore privato dell’economia. Queste imprese rappresentano oltre il 70% degli addetti nel settore dell’industria in senso stretto e quasi il 60% nel comparto dei servizi non finanziari (sempre delle imprese sopra i 20 addetti). Restano quindi privi di contrattazione decentrata: circa il 30% degli addetti dell’industria e più del 40% degli addetti dei servizi nelle imprese sopra i 20 addetti (che occupano il 42% dei dipendenti dell’economia), E, oltre a questi, quasi tutti i dipendenti delle imprese sotto i 20 addetti (che sono il 58% dei dipendenti dell’economia). La contrattazione decentrata, dunque, copre soltanto il 25-30% dei lavoratori dipendenti, in quanto lascia scoperto almeno il 70-75% [≈58%+(35%*42%)], che non ha strumenti per aumentare il proprio potere d’acquisto.
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E il 4° pilastro… È rimasto nel libro dei sogni:
Nessun Governo e nessun Parlamento hanno mai provato a varare nemmeno un elemento del grande piano di ammodernamento delle aziende e di potenziamento del lavoro previsto dalla seconda parte del Protocollo. Né tantomeno vi hanno provveduto autonomamente le parti sociali. Così, di 4 pilastri è rimasto in piedi solo il secondo: i contratti nazionali ancorati all’inflazione.
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Analisi formale del modello contrattuale italiano
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In formule
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Modello contrattuale e regola di Bowley
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Modello contrattuale e regola di Bowley - 2
In termini discorsivi, se la produttività cresce, il Protocollo di luglio ’93 affida la possibilità di rispettare la regola di Bowley a due condizioni: che la contrattazione decentrata (aziendale o territoriale) sia diffusa a tutte le imprese, e quindi sia disponibile per tutti i dipendenti una voce retributiva flessibile, aggiuntiva rispetto alle voci stabilite dal contratto nazionale di categoria; che il salario di secondo livello cresca in misura tale da eguagliare la dinamica della retribuzione di fatto reale (comprensiva di primo e secondo livello retributivo) alla variazione della produttività del lavoro.
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Efficacia della contrattazione decentrata e regola di Bowley
Le due condizioni sono in generale poco probabili, in particolare nel sistema produttivo italiano, che è caratterizzato da un gran numero di imprese piccole e piccolissime (su un totale di 4,4 milioni, circa 4 milioni sono fino a 9 addetti, di cui circa 3 milioni fino a 3 addetti), dove la contrattazione collettiva incontra (e incontrerà sempre) notevoli difficoltà a svilupparsi, a meno che la contrattazione non sia territoriale anziché aziendale.
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La depressione salariale italiana in termini comparati
Fonte: Eurostat
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Il modello contrattuale, dunque, tutela i profitti
I contratti nazionali di categoria non remunerano gli aumenti di produttività ma si limitano a prevenire la perdita di potere d’acquisto del salario fondamentale. Gli incrementi di produttività vengono invece remunerati solo quando derivano da specifici accordi siglati in sede decentrata, aziendale o (assai più di rado) territoriale, e solo se si registrano i risultati attesi. Questi vincoli creano di fatto una ‘clausola di salvaguardia dei profitti’ che nel tempo si è dimostrata insostenibile tanto quanto lo era, per i salari e vent’anni prima, la scala mobile con il punto unico di contingenza.
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Da un eccesso all’altro
Il modello negoziale italiano pone il costo del mancato aumento di produttività, in termini di corrispondente stagnazione del salario reale, in capo ai lavoratori e non alle imprese. Queste infatti, in assenza di pressione salariale (wage whip), possono preservare i margini di profitto senza dover ricorrere a impegnativi recuperi di produttività. Gli imprenditori non affrontano costose riorganizzazioni alla leggera, non sfidano il futuro con massicci investimenti, a meno che non abbiano forti motivi per farlo, tra i quali quello salariale (in termini tanto di pull macroeconomico della domanda di consumi, quanto di push microeconomico della frusta salariale) è, come abbiamo visto, uno dei più rilevanti.
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Perché l’Italia si è data un modello contrattuale favorevole alle imprese e non ai lavoratori?
Nel 1993 l’Italia si trovava nella doppia condizione: Di dover fronteggiare la più grave crisi occupazionale del dopoguerra E di dover “accomodare” l’ultima grande svalutazione della lira (settembre 1992) in vista dell’entrata nel “Club dell’euro” al primo turno. In realtà l’accordo prevedeva la sua revisione dopo 5 anni (superata l’emergenza). Questa venne tentata dalla Commissione Giugni (1997), le cui raccomandazioni di estensione della contrattazione territoriale (a livello regionale, provinciale, di distretto) sono però rimaste senza esito.
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Effetti macroeconomici della rottura della «regola d’oro» della politica salariale
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Effettivo funzionamento del modello contrattuale (1 pilastro su 4)
In condizioni di «normale funzionamento dell’economia», la produttività del lavoro cresce; e il modello tende ad aumentare la quota dei profitti (ovvero a comprimere la quota del lavoro) automaticamente, senza alcuna negoziazione di contropartite in termini di investimenti, occupazione, formazione, riorganizzazione ecc. Paradossalmente, questa tendenza implicita si può arrestare o riequilibrare solo con una caduta della produttività del lavoro.
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Effetto macroeconomico combinato atteso dei due livelli negoziali
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Un rapporto inverso e anticiclico tra produttività e quota del lavoro
In altri termini, nel modello contrattuale italiano, il combinato disposto: della rigidità verso il basso in termini reali del salario “fondamentale” definito dai contratti nazionali (primo livello) e della mancata diffusione della contrattazione integrativa (secondo livello) stabilisce un rapporto inverso e anticiclico tra crescita della produttività e quota del lavoro nel reddito.
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Il meccanismo perverso del modello contrattuale
Se la produttività cresce (come dovrebbe accadere sempre), la scarsa diffusione della contrattazione integrativa fa sì che i guadagni di produttività vadano ad aumentare la quota del capitale nel reddito. Se, viceversa la produttività si riduce (come non dovrebbe accadere mai), la rigidità verso il basso del salario reale fondamentale torna a far crescere la quota del lavoro.
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Il legame inverso tra produttività del lavoro e quota del lavoro nel reddito (numeri indice, I/2006=100) Fonte: Elaborazione su dati Istat, Conti nazionali trimestrali
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Effetti del modello contrattuale dimezzato su consumi, investimenti, crescita, cooperazione per la produttività e la crescita
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Produttività e quota del lavoro
Dagli anni ‘80 al 2008, come ricorda l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, con la crescita della produttività, la quota del lavoro nel reddito è caduta in Italia di 10 punti. Con la crisi, in corrispondenza con la perdita di produttività, per gli effetti descritti la quota ne ha riguadagnati 4. Ma la dinamica dei salari, come abbiamo appreso dal modello di Sylos Labini, influenza la produttività, e quindi la crescita: attraverso l’effetto Smith (i consumi), il prezzo relativo del lavoro (effetto Ricardo) e il costo assoluto del lavoro (quota del lavoro). E influenza anche, assieme alla crescita della domanda, la propensione all’investimento. In altri termini, la compressione della quota del lavoro operata dal modello contrattuale «più che dimezzato» ostacola la crescita.
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Relazione tra livello della quota del lavoro dipendente nell’anno t e crescita media del pil nel triennio t_t+2 (anni ) Fonte: Istat, Conti nazionali
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La quota del lavoro influenza la crescita non solo attraverso i consumi, ma anche attraverso la propensione all’investimento Fonte: Istat, Conti nazionali
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Legge di Bowley e cooperazione per la crescita - 1
L’inapplicazione del Protocollo ’93 ha quindi creato un meccanismo che viola la legge di Bowley, alterando automaticamente la stabilità delle quote distributive, e istituisce un sistema di incentivi evidentemente sfavorevole alla crescita economica: Gli imprenditori trovano un equilibrio tra l’incentivo ad occupare lavoro a basso costo (e bassa produttività) e quello ad accrescere la produttività per spostare automaticamente a loro favore la distribuzione del reddito; I lavoratori sono esposti all’azzardo morale di poter riequilibrare la distribuzione del reddito solo frenando la produttività.
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Regola di Bowley e cooperazione per la crescita - 2
In altre parole, il sistema istituzionale squilibrato di regolazione delle retribuzioni abbatte i consumi, la propensione all’investimento e l’incentivo per i partner sociali a cooperare per la crescita. E il sistema economico viene sospinto dalle reciproche convenienze dei partner sociali a imboccare un sentiero di stagnazione economica. È per questo che lo ‘scambio politico’ alla base del «più che dimezzato» modello contrattuale italiano non può che definirsi, con le parole di Tarantelli, uno scambio masochistico: un gioco in cui alla fine perdono tutti.
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Controprova: l’entità della redistribuzione dai salari ai profitti
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La redistribuzione del reddito dai salari ai profitti
Non è difficile calcolare l’entità della redistribuzione di risorse dai salari ai profitti operata da questo perverso meccanismo istituzionale. In prima approssimazione, e senza tener conto degli effetti della distribuzione del reddito sulla crescita, il computo può essere condotto in modo controfattuale, valutando la differenza tra il valore storico del monte profitti e quello che si sarebbe verificato se i salari reali fossero cresciuti nella stessa misura dei pur modesti aumenti della produttività, e dunque lasciando inalterata la quota del lavoro nel reddito.
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Un contributo ingente Il contributo offerto dalla moderazione salariale ai profitti è stato davvero ingente: a prezzi 2005, oltre 50 miliardi di euro già due anni dopo la sigla del protocollo, fino a più di 75 miliardi l’anno nel triennio e attorno ai 68 miliardi l’anno tra il 2003 e il 2007. Soltanto con la crisi (tra il 2009 e il 2012), in dipendenza dalla tenuta in termini reali dei salari contrattuali a fronte della caduta della produttività del lavoro, il contributo si è ridotto a valori più ‘modesti’: tra i 30 e i 40 miliardi l’anno.
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Contributo della moderazione salariale ai profitti, a prezzi costanti 2005 (differenza tra il valore storico del monte profitti e quello che sarebbe risultato dall’applicazione della quota del lavoro del 1992; valori annuali e valori cumulati) Fonte: Elaborazione su dati Istat, Conti nazionali
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Il valore complessivo Il valore cumulato di questi ‘trasferimenti impliciti’ operati automaticamente dal modello contrattuale «più che dimezzato» dal 1993 al 2012 ammonta a ben miliardi di euro a prezzi costanti del 2005: circa 53 miliardi di euro l’anno! Ovvero circa euro per dipendente l’anno; E circa 64 mila euro per dipendente, in termini cumulati dal 1993 al 2012.
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E l’Italia non cresce Si tratta di una cifra indubbiamente ragguardevole, in grado di influire: non solo sul freno dei consumi e sull’aumento dell’indebitamento delle famiglie, ma anche (e forse soprattutto) sui ritardi di innovazione, i mancati investimenti, la sopravvivenza di imprese marginali i cui prodotti o servizi eccessivamente costosi continuano a gravare sui bilanci delle famiglie e delle imprese competitive, sull’incapacità del «segmento sano» dell’apparato produttivo di crescere sino a trainare fuori dal tunnel l’intero Paese.
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Per crescere è necessario che il potere d’acquisto dei salari aumenti costantemente
Il raffronto tra l’entità delle risorse trasferite e i risultati dell’economia smentisce l’ipotesi di neutralità della distribuzione del reddito ai fini della crescita. Il meccanismo perverso che ha garantito i profitti al di là dei meriti di mercato nel lungo periodo ha minato, per la cospicua parte del sistema produttivo esclusa dalla contrattazione decentrata e dalla concorrenza internazionale, l’incentivo a investire per migliorare la qualità dei processi produttivi e dei prodotti. Il disincentivo ha influito tanto sulle scelte imprenditoriali, garantite sul lato dei profitti, quanto su quelle dei lavoratori, non remunerati in caso di performance produttive migliori.
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Un nuovo modello contrattuale
Il 25 gennaio del 2016 Cgil, Cisl e Uil presentano alle associazioni datoriali, al Governo e al Paese un progetto unitario di riforma del sistema di relazioni industriali che mira a realizzare “uno sviluppo economico fondato sull’innovazione e la qualità del lavoro”. Il documento tocca molti ambiti di rilievo, con riferimento: alla contrattazione (nazionale e decentrata), alla politica salariale, alla partecipazione e all’innovazione organizzativa, al recepimento del Testo unico sulla rappresentanza e alla validità erga omnes degli accordi. Ad oggi sono in corso colloqui e trattative tra le tre confederazioni sindacali e diverse associazioni padronali, ma non ancora con Confindustria. E il Governo ha dichiarato di voler intervenire con una legge che ampli le competenze del secondo livello contrattuale.
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Riformare il modello contrattuale in cinque passi
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1. Coordinare la contrattazione con la politica economica
Qui di seguito si avanza la proposta di cinque misure di riforma del modello contrattuale, in linea con il documento unitario Cgil-Cisl-Uil, che favorirebbero la ripresa di un ruolo economico di sviluppo da parte del sistema delle relazioni industriali e del modello contrattuale, tale da porre termine agli attuali disincentivi alla cooperazione per la crescita. Il primo punto è la riproposizione, se non di una forma di concertazione, almeno di momenti ben determinati di coordinamento macro e microeconomico della contrattazione con le politiche di sviluppo perseguite dal Governo. Il coordinamento – nei termini della presentazione (senza negoziazione) da parte del Governo ai partner sociali degli obiettivi della politica economica con la richiesta esplicita di comportamenti coerenti – può riguardare: Anzitutto l’evoluzione di prezzi e salari con le previsioni di inflazione e crescita dei consumi, Quindi la crescita dell’occupazione e della produttività e quindi il livello della quota del lavoro nel reddito. Un coordinamento macro di questo tipo favorirebbe anche l’autocoordinamento della contrattazione a livello di comparto, territorio e azienda.
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2. Riorganizzare i luoghi di lavoro
Contrattazione di linee guida di riorganizzazione dei luoghi di lavoro (nuove tecnologie, organizzazione flessibile, lavoro in team polifuzionali, rotazione delle mansioni ecc.) per agevolare, dal lato dell’offerta, l’uscita dalla crisi delle imprese in condizioni più difficili, Possibilmente, nel quadro di una strategia di politica industriale e di politica economica promossa dal Governo (e dall’Unione Europea?), che insista sulle indispensabili riforme strutturali ‘sul lato del capitale e dello Stato’ e non più ‘sul lato del lavoro’.
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3. Programmare la crescita del reddito, della produttività e dei salari reali
Contrattazione di: valori obiettivo di crescita del prodotto, dell’occupazione e della produttività (produttività programmata), finalizzati a ridurre il divario di produttività tra l’Italia e i maggiori paesi partner nell’euro in accordo con il coordinamento di cui al punto 1, e crescita salariale reale in linea con essi, in relativa indipendenza dai risultati effettivi, Per creare un forte stimolo – dal lato della domanda – e responsabilizzare le imprese alla riorganizzazione in accordo con le Linee guida di cui al punto 2.
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4. Contrattare la quota del lavoro nel valore aggiunto
La contrattazione di un rapporto prestabilito tra crescita delle retribuzioni reali e crescita della produttività del lavoro, in conseguenza degli elementi di politica salariale di cui ai punti 1, 2 e 3, equivale: alla contrattazione di un valore obiettivo della quota del lavoro nel valore aggiunto (quota del lavoro programmata), a livello sia di comparto sia di azienda o territorio. Gli elementi positivi di questo risultato sono l’avvio di un percorso di crescita stabile, che rafforzi gli investimenti e favorisca l’uscita dalla presente congiuntura deflazionistica.
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5. Diffondere la contrattazione territoriale
Data la struttura dimensionale delle imprese italiane e le forti limitazioni che essa impone allo sviluppo della contrattazione aziendale, il sostegno alla domanda interna va realizzato anche – se non soprattutto – attraverso lo sviluppo della contrattazione territoriale, a livello regionale, provinciale, di distretto, filiera, gruppo ecc., E con la previsione di clausole incentivanti nella contrattazione nazionale di categoria.
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Partner sociali e governo
Sotto i duri colpi della crisi, i partner sociali stanno muovendo assieme, e in modo finalmente unitario, passi importanti per il rinnovamento del sistema di relazioni industriali e, sperabilmente, anche dell’apparato produttivo e del modello di sviluppo. Spetta alle forze di governo: abbandonare gli strascichi di un ventennio perdente, accompagnare gli sforzi dei partner sociali e riprendere il ruolo di guida del progresso del Paese, senza il quale l’uscita dal tunnel rimarrà un miraggio irraggiungibile.
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