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PubblicatoAurelia Bosco Modificato 6 anni fa
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Dobbiamo imparare a guardare la trave che c’è nel nostro occhio prima di guardare la pagliuzza che c’è nell’occhio del fratello, e questo può aiutare a intraprendere la via del perdono dalla giusta prospettiva, che richiede, come primo passo, l’individuazione dei propri lati oscuri.
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A tal proposito, ricorda l’autore dell’Imitazione di Cristo: Chi riflettesse bene e a fondo su se stesso, non giudicherebbe severamente gli altri. L’uomo interiore, prima di occuparsi di altre cose, guarda dentro di sé; e, intento diligentemente a se stesso, è portato a tacere degli altri2. 2. L’imitazione cli Cristo, a cura di UGO NIICOLINI, Paoline, Milano 1990, p. 110.
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L’individuazione dei propri errori per alcuni può risultare non troppo difficile, nel senso che si può pervenire a una chiara coscienza di avere sbagliato, ma l’orgoglio potrebbe innescare un meccanismo di chiusura e di isolamento che condanna a rimanere da soli con le proprie ferite.
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Molti, pur di non apparire nelle proprie debolezze, pur di non darla vinta a qualcuno, diventano prigionieri sarcastici e cinici di se stessi e delle proprie ragioni.
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In questo caso, il processo di individuazione è rimasto fine a se stesso e non ha prodotto nessun risultato, in quanto non ha fatto uscire dalle proprie posizioni per entrare nelle ragioni del fratello che potrebbero anche essere giuste e che, probabilmente, ha dato meno peso al problema o addirittura neanche si è reso conto di avere sbagliato.
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La manifestazione dei sentimenti
L’itinerario del perdono richiede un passaggio che va oltre la sola individuazione dei sentimenti feriti, che non solo devono essere manifestati a se stessi, ma anche alla persona interessata con la quale bisogna creare, nel più breve tempo possibile, un’occasione di incontro.
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Il dialogo, il chiarimento, il mostrare le proprie ragioni, la capacità di esprimere le proprie delusioni, il chiedere scusa, il dire la verità, possono contribuire a ricomporre una relazione frantumata.
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Il passo più difficile da attuare è proprio il passaggio dalla teoria alla pratica, dal perdono pensato, elaborato nella mente, a volte lungamente meditato, all’esercizio concreto del perdono che si realizza esercitandosi sul campo delle relazioni.
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Tale passaggio, che possiamo definire il “momento della verità”, è fondamentale, bisogna affrontarlo con grande determinazione, rimanendo fedeli ai propositi elaborati nella propria mente, a quella carica di bene e di amore suscitata nel cuore, senza lasciarsi distrarre o confondere dai pensieri negativi che invitano a prendere tempo e a rimandare.
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Il rischio, infatti, è quello di ritornare lentamente sulle vecchie convinzioni per cambiare addirittura idea, convincendosi di avere le proprie buone ragioni, di avere una dignità da difendere, la quale non può essere infangata fino ad abbassarsi a compiere il primo passo, presentandosi come un debole che ha ceduto.
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Questo atteggiamento tradisce sentimenti di paura di debolezza, di mancanza di determinazione, ma anche di superbia e di orgoglio.
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Il volere “prendere” tempo, il non sentirsi pronti o l’aspettare che sia l’altro a fare il primo passo, non solo raffredda sempre più la relazione, ma contribuisce a innescare quei meccanismi di difesa, già visti, che rendono più difficile, con il passare del tempo, la pacificazione di una relazione.
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San Paolo esorta a non perdere tempo, a non indugiare, a non rimandare a domani, perché l’attendere è sintomo di mollezza, di mancanza di fortezza e di fede, virtù necessarie per affrontare il combattimento spirituale di cui parla l’Apostolo (cfr. Rm 7, 14-25).
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Così, scrivendo agli Efesini, esorta: «Adiratevi, ma non peccate; non tramonti il sole sopra la vostra ira, e non date spazio al diavolo» (Ef 4, 26-27).
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Il “padre della menzogna”, infatti, coglie il momento opportuno per agire, ama insinuarsi sottilmente nelle fragilità umane, iniettando il veleno dell’incomprensione, dell’invidia, della gelosia e di tanti altri sentimenti negativi che alimentano sempre più il rancore e rallenteranno il processo di guarigione.
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Se il diavolo, quindi, non perde tempo a sollecitarci al peccato facendo leva sui vizi, sulle ferite, sulle tiepidezze e, nel nostro caso, sul rancore, allora chi percorre un cammino di fede non può dormire, ma deve essere sveglio, pronto, rivestito della corazza di Cristo per affrontare il combattimento spirituale e per spiazzare e sconfiggere il nemico con la potente arma dell’amore.
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Non è assolutamente un inno alla debolezza, e neanche si tratta di avallare il male fatto, che rimane oggettivamente qualcosa di negativo da condannare.
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Il perdonare non significa fare finta di niente mettendosi fuori dalla verità, ma entrare in una visione diversa, la visione stessa di Dio che sa andare oltre solo per amore senza soffermarsi esclusivamente sulle colpe.
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Infatti, non bisogna mai identificare il colpevole con la sua azione; il peccato va sempre condannato, ma per il peccatore bisogna usare misericordia, così come precisa il Catechismo: La liberazione nello spirito del Vangelo è incompatibile con l’odio del nemico in quanto persona, ma non con l’odio del male che egli compie in quanto nemico3. 3. CCC, n
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Ma si potrebbe anche verificare che la persona alla quale si manifestano i propri sentimenti, non sia disposta ad accogliere il perdono, mostrando dissenso o totale chiusura.
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In questo caso, anche se tale rifiuto procura delusione e frustrazione, non per questo bisogna pensare di aver fallito, in quanto il gesto in sé non viene vanificato, ma rimane un grande atto di carità, particolarmente gradito agli occhi di Dio.
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