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DAL RANCORE… AL PERDONO
PARROCCHIA MARIA SS. ADDOLORATA OPERA DON GUANELLA – BARI DAL RANCORE… AL PERDONO SECONDA PARTE: …AL PERDONO Anno Pastorale 6° giorno
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6. Itinerari del perdono Quanto abbiamo detto ci fa comprendere che il pervenire al perdono non è semplice, non è qualcosa che si matura dall’oggi al domani, ma è frutto di un itinerario progressivo nel quale sono chiamate in causa tutte le facoltà umane e spirituali, nel quale bisogna lavorare interiormente, scavando nelle zone più recondite del nostro essere per individuare le fragilità, i limiti, e intraprendere, così, l’avventura straordinaria del perdono.
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A tal proposito, scrive il cardinale Godfried Danneels:
Il perdono non è l’atto di un momento unico. È un lungo processo che necessita di tempo. Ha i suoi inizi, il punto culminante e il suo servizio di manutenzione. Il perdono non è un prodotto, ma un frutto1. 1. GOODFRIED DANNEELS, Perdonare. Sforzo dell’uomo, dono di Dio, San Paolo, Milano 2006, pp
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Si tratta, quindi, di un percorso che richiede pazienza, umiltà e capacità di ascolto, in cui c’è bisogno di attuare quel “di più” che va oltre le proprie capacità o la sola buona volontà.
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Perdonare, quindi, non è un puro atto umano, non è solo uno sforzo intellettivo, ma soprattutto un dono di Dio.
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Uno sguardo al significato del termine risulta interessante, in quanto ci permette di collocare il perdono partendo dalla giusta prospettiva.
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Riferendoci al greco “aphiemi”, che tradotto letteralmente significa “buttare fuori, liberare, rilasciare, lasciare dietro di sé”, si comprende il perdono come un’esperienza di liberazione da qualcosa che ci è di peso o ci tiene legati.
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Mentre, nel latino “per-donare” troviamo un’altra importante sfumatura; infatti, la parola è composta dal rafforzativo “per” seguito dal termine “donare”, con cui viene sottolineata la dimensione del dono, qualcosa che ci precede e che ci viene offerto gratuitamente.
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Entrambi i significati fanno intendere come il perdono non è un accessorio, un optional, ma costituisce un elemento fondamentale per la vita dell’uomo.
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Fa bene a chi lo esercita, più che a chi lo riceve, il quale potrebbe anche non essere a conoscenza di essere destinatario del perdono.
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Ma bisogna stare attenti a non fraintendere il significato del perdono, mascherandolo con falsi atteggiamenti che potrebbero illudere di averlo concesso.
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Infatti, come esistono manifestazioni sottili del rancore, così esistono anche modi falsi di intendere il perdono che contribuiscono, anche inconsciamente, a creare fragili equilibri.
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Pertanto, teniamo presente che:
perdonare non significa dimenticare il torto subìto o fare finta di niente;
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perdonare non è un puro atto di volontà, dire con tutta la propria forza: «Io ti perdono» e tutto si risolve, ma un atto che impegna tutte le altre facoltà: i sentimenti, le emozioni, la memoria, l’immaginazione;
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perdonare non è scusare, minimizzando il problema, e neanche può essere inteso come un atto di pietà verso chi ha sbagliato;
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perdonare richiede grande spirito di umiltà, per evitare di sentirsi superiori e di guardare l’altro con superbia.
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Alla luce di tali considerazioni e avendo inteso il processo del perdono come una via percorribile, cercheremo di individuare alcuni possibili itinerari che, in modo progressivo e secondo i tempi e le modalità proprie di ciascuno, possono aiutare a fare verità su se stessi per imparare a dare il perdono e a liberarsi dalle catene del rancore.
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Il processo di individuazione
Per avviare il processo del perdono, per prima cosa bisogna comprendere le ragioni che hanno portato a interrompere un rapporto o a modificarlo.
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Bisogna individuare dove stanno le colpe vere o presunte, attraverso un percorso di profonda introspezione che può aiutare a riconoscere i limiti e le debolezze.
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Questo esercizio, che in ambito spirituale costituisce l’esame di coscienza, richiede grande spirito di umiltà, molta pazienza e perseveranza, ma, se attuato, può aiutare a liberarsi dalla maschera dell’ipocrisia che non permette di essere se stessi e ci illude di essere nella verità.
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Nel Vangelo, Gesù condanna di ipocrisia quella categoria di persone chiamate farisei che presumevano di essere giusti, perché osservanti della legge, falsamente zelanti, chiusi nella loro superbia spirituale, incapaci di guardare i propri limiti e di mettere in discussione le proprie posizioni, fino a sentirsi autorizzati a giudicare gli altri.
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Ma in ciascuno di noi si nasconde un atteggiamento farisaico che bisogna combattere, un’ipocrisia che ci fa sentire superiori e pronti a sottolineare i limiti del fratello di cui spesso diventiamo giudici implacabili.
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