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Il Canto V è il primo dell'Inferno che ci mostra la pena di una categoria di dannati e Francesca è il primo peccatore a dialogare con Dante: troviamo anche.

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1 Il Canto V è il primo dell'Inferno che ci mostra la pena di una categoria di dannati e Francesca è il primo peccatore a dialogare con Dante: troviamo anche una figura demoniaca, Minosse, che qui rappresenta il giudice dei dannati ed è ridotto a una bizzarra parodia della giustizia divina, essendo descritto come un essere mostruoso e animalesco, con una lunga coda che avvolge intorno a sé per indicare ai dannati il luogo infernale cui sono destinati (Guido da Montefeltro aggiungerà il particolare del dosso duro, cfr. Inf., XXVII, 125). Non sappiamo da dove Dante abbia tratto questa curiosa trasformazione, di cui non c'è traccia nei testi classici cui può essersi ispirato, ma è certo che Minosse qui si limita ad essere esecutore della volontà divina, una sorta di strumento che agisce senza la profonda dignità che aveva in Virgilio o negli altri poeti antichi; è probabilmente anche il custode del II Cerchio, anche se nulla autorizza a collegarlo al peccato di lussuria in quanto nel mito classico egli era descritto piuttosto come re saggio e giusto. I lussuriosi sono trascinati da una bufera incessante, che simboleggia la forza della passione sessuale cui essi non seppero opporsi in vita (Dante li definisce peccator carnali, / che la ragion sommettono al talento). Molto probabilmente tra essi si distingue un'altra schiera, costituita dai lussuriosi morti violentemente, tra cui oltre ai due protagonisti del Canto ci sono vari personaggi del mito e della letteratura, come Didone, Achille, Tristano. Dante intende svolgere un discorso intorno alla letteratura amorosa, per condannarla in quanto fonte potenziale di peccato e pericolosa per quei lettori che potrebbero essere indotti a mettere in pratica i comportamenti descritti nei libri. Non a caso i lussuriosi nominati da Virgilio appartengono quasi tutti alla sfera letteraria o mitologica e Dante li definisce donne antiche e' cavalieri, con un riferimento preciso alla letteratura francese del ciclo arturiano (cui appartengono sia Tristano sia Lancillotto e Ginevra, citati dopo da Francesca). Dante stesso non ha bisogno di spiegazioni per capire che in questo Cerchio sono puniti i lussuriosi e ciò per il fatto che il poeta era stato avido lettore e produttore di letteratura amorosa, quindi si sente coinvolto in prima persona nel loro peccato (di qui il turbamento angoscioso che prova dall'inizio dell'episodio): la sua intenzione è condannare la letteratura che celebra l'amore sensuale e non spiritualizzato, quindi ritrattare parte della sua precedente produzione poetica, rappresentata dalle Petrose e forse anche dallo Stilnovo. Francesca è un personaggio significativo a riguardo, perché il caso suo e di Paolo era un episodio di cronaca che doveva essere ben presente ai lettori contemporanei. INFERNO CANTO QUINTO

2 INFERNO CANTO SESTO La vicenda, di cui non c'è comunque traccia nei cronisti del tempo, era quella di un adulterio tra Francesca da Polenta, figlia del signore di Ravenna, e il cognato Paolo Malatesta, fratello di Gianciotto che la donna aveva sposato in un matrimonio combinato per riappacificare le due famiglie. Gianciotto aveva scoperto la relazione e aveva ucciso entrambi. Dante non intende affatto risarcire i due amanti clandestini della loro morte, né giustificare in alcun modo il loro peccato, ma piuttosto mettere in guardia tutti i lettori dai rischi insiti nella letteratura di argomento amoroso. Francesca, infatti, è una donna colta, esperta di letteratura: cita indirettamente Guinizelli e lo stesso Dante, dei quali riprende alcuni versi nella famosa anafora Amor... amor... amor, nonché le leggi del De amore di A. Cappellano, testo notissimo nel Medioevo e base teorica della lirica provenzale. Il suo amore con Paolo è nato per una reciproca attrazione fisica e l'occasione è venuta proprio dalla lettura di un libro, il romanzo cortese di Lancillotto e Ginevra (che Dante sicuramente non conosceva direttamente, ma attraverso qualche volgarizzamento tardo). La loro colpa non è tanto di essersi innamorati, ma di aver messo in pratica il comportamento peccaminoso dei due personaggi letterari; hanno scambiato la letteratura con la vita e ciò ha causato la loro irrevocabile dannazione. La pietà provata da Dante verso di loro non è dunque una generica compassione né la riabilitazione del loro amore clandestino (errata è dunque l'interpretazione dei critici romantici, come De Sanctis), ma è il turbamento angoscioso di uno scrittore che prende coscienza della pericolosità della poesia amorosa da lui prodotta in passato. Non è del resto un caso che una lussuriosa sia il primo dannato descritto da Dante, mentre gli ultimi penitenti del Purgatorio (Canto XXVI) saranno Guido Guinizelli e Arnaut Daniel, condannati proprio in quanto poeti amorosi. LUSSURIOSI Ingresso nel II Cerchio. Incontro con Minosse. La pena dei lussuriosi; i morti violentemente per amore. Incontro con Paolo e Francesca. È la sera di venerdì 8 aprile (o 25 marzo) del 1300.

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4 Ingresso nel II Cerchio. Minosse (1-24) (1-12)
Così discesi del cerchio primaio giù nel secondo, che men loco cinghia e tanto più dolor, che punge a guaio. Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia: essamina le colpe ne l'intrata; giudica e manda secondo ch'avvinghia. Dico che quando l'anima mal nata li vien dinanzi, tutta si confessa; e quel conoscitor de le peccata vede qual loco d'inferno è da essa; cignesi con la coda tante volte quantunque gradi vuol che giù sia messa. Così discesi dal I Cerchio al II, che cinge uno spazio minore, ma contiene tanto maggior dolore che spinge a lamentarsi. Minosse sta orribilmente sulla soglia e ringhia: esamina le colpe dei dannati che si presentano; li giudica e li destina a seconda di come attorcigli la coda. Dico che quando l'anima dannata si presenta davanti a lui, rende piena confessione; e quel conoscitore dei peccati stabilisce in quale zona dell'Inferno debba andare; si cinge con la coda tante volte quanti sono i Cerchi che il dannato deve discendere. Così discesi del cerchio primaio giù nel secondo, che men loco cinghia e tanto più dolor, che punge a guaio. Stavvi Minòs orribilmente, e ringhia: essamina le colpe ne l'intrata; giudica e manda secondo ch'avvinghia. Dico che quando l'anima mal nata li vien dinanzi, tutta si confessa; e quel conoscitor de le peccata vede qual loco d'inferno è da essa; cignesi con la coda tante volte quantunque gradi vuol che giù sia messa. Dante è disceso dal primo cerchio giù nel secondo, il quale è contenuto in una circonferenza un po' più stretta, ma che tanto più dolore contiene, dolore che pungola ai lamenti. Vi sta Minosse piantato sull'entrata (e chissà cos'è l'entrata di questa immensa cava circolare senza porta? forse il punto dello zoccolo di roccia per dove passa la fenditura provocata dal terremoto che ha lesionato l'intera struttura dell'inferno all'atto della morte di Cristo). Lì, comunque, sono convogliate tutte le anime dei dannati, e lì Minosse giudica e manda secondo ch'avvinghia ... Spiegazione: quando l'anima malnata gli capita davanti, confessa tutto. E lui, Minosse, nella sua gran competenza di peccati, individua il comparto dell'inferno che fa per lei, e lo comunica avvolgendosi nella coda un numero di volte pari all'ordinale del grado o cerchio in cui l'anima deve precipitare. Ottavo cerchio: otto giri di coda. Se si tratti d'un unico avvolgimento multiplo o di singoli avvolgimenti successivi, il poeta non lo dice. Ma, in assenza di contro-argomenti seri, è bello immaginare Minosse che, dovendo spedire qualcuno in fondo al pozzo , si passa il gusto di mimare la struttura dell'inferno, di travestirsi da inferno con la sua stessa coda.

5 (13-24) Sempre dinanzi a lui ne stanno molte: vanno a vicenda ciascuna al giudizio, dicono e odono e poi son giù volte. «O tu che vieni al doloroso ospizio», disse Minòs a me quando mi vide, lasciando l'atto di cotanto offizio, «guarda com' entri e di cui tu ti fide; non t'inganni l'ampiezza de l'intrare!». E 'l duca mio a lui: «Perché pur gride? non impedir lo suo fatale andare: vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare». Davanti a lui ci sono sempre moltissime anime; una dopo l'altra vanno a sottoporsi al suo giudizio; parlano e ascoltano, poi sono precipitati giù. E Minosse, quando mi vide, mi disse questo, tralasciando un momento il suo alto compito: «O tu che vieni in questo luogo di dolore, bada al modo in cui entri e a chi ti stai affidando! Non ti inganni la facilità dell'ingresso!» E Virgilio rispose: «Perché continui a gridare? Non impedire il suo viaggio voluto da Dio: si vuole così in Cielo, dove è possibile tutto ciò che si vuole, quindi non dire altro». Sempre dinanzi a lui ne stanno molte: vanno a vicenda ciascuna al giudizio, dicono e odono e poi son giù volte. «O tu che vieni al doloroso ospizio», disse Minòs a me quando mi vide, lasciando l'atto di cotanto offizio, «guarda com' entri e di cui tu ti fide; non t'inganni l'ampiezza de l'intrare!». E 'l duca mio a lui: «Perché pur gride? Non impedir lo suo fatale andare: vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare». Minosse è il mitico re di Creta, figlio di Giove e di Europa, che siede nell'antinferno dell’Eneide di Virgilio, dove emette sentenze inappellabili con la solennità d'un giudice del processo penale romano, qui è ridotto un torvo e ringhioso funzionario della burocrazia di Satana: sembra più il direttore d'una colonia di ergastolani, che un giudice. Con meticolosa rabbia di vendetta, applica sentenze di morte eterna irrogate da una Legge, della quale ignora i disegni (e che ha condannato anche lui). Mansione improba la sua, diciamocelo, priva di qualsiasi maestà (il ‘cotanto offizio' , forse è ironico e spregiativo, come se Dante dicesse 'quel po' po' di lavoro'). Come vede Dante in carne ed ossa, Minosse lo diffida alzando la voce: "Tu che te ne vieni in quest'ospizio di dannati, non fidarti tanto di quello lì, e non farti ingannare dalla ampiezza dell' ingresso." "Perché urli tanto?" gli ribatte quello lì, cioè Virgilio: "Non tagliargli la strada! Vuolsi così colà... ", e ripete alla lettera la formula che aveva fatto cascare la faccia a Caronte. Chiuso con Minosse.

6 I lussuriosi (25-72) (25-36) Or incomincian le dolenti note a farmisi sentire; or son venuto là dove molto pianto mi percuote. Io venni in loco d'ogne luce muto, che mugghia come fa mar per tempesta, se da contrari venti è combattuto. La bufera infernal, che mai non resta, mena li spirti con la sua rapina; voltando e percotendo li molesta. Quando giungon davanti a la ruina, quivi le strida, il compianto, il lamento; bestemmian quivi la virtù divina. Ora inizio a sentire le note dolenti; ora sono giunto in un luogo dove molta sofferenza mi colpisce. Io giunsi in un luogo totalmente buio, che risuona come il mare in tempesta quando soffiano venti contrari. La bufera infernale, che è incessante, trascina rapinosamente le anime; li tormenta sbattendoli e percuotendoli. Quando arrivano davanti alla rovina, allora emettono urla, pianti, lamenti; qui bestemmiano Dio. Or incomincian le dolenti note a farmisi sentire; or son venuto là dove molto pianto mi percuote. Io venni in loco d'ogne luce muto, che mugghia come fa mar per tempesta, se da contrari venti è combattuto. La bufera infernal, che mai non resta, mena li spirti con la sua rapina; voltando e percotendo li molesta. Quando giungon davanti a la ruina, quivi le strida, il compianto, il lamento; bestemmian quivi la virtù divina. Qui Dante viene al nocciolo del racconto, e passa al presente: ora incomincian le dolenti note (la sinfonia del dolore) / a farmisi sentire; or son venuto / là dove molto pianto mi percuote. Nel buio, il pellegrino percepiva il mugghio d'un mare in tempesta sotto la furia di venti antagonisti (e il buio è ancora silenzio della luce: loco d'ogne luce muto). La bufera infernale che non s'arresta mai trascina le anime dei dannati nella sua rapina e, sbatacchiandole, le tormenta. Quando esse giungono davanti a la ruina, si scatena il coro discorde delle strida, dei singhiozzi e dei lamenti. E delle bestemmie. Ma che cosa sia di preciso questa ruina, se il bocchettone da cui fuoriescono i venti, o l'accesso franoso del cerchio di cui si diceva, non lo sappiamo.

7 (37-51) Intesi ch'a così fatto tormento enno dannati i peccator carnali, che la ragion sommettono al talento. E come li stornei ne portan l'ali nel freddo tempo, a schiera larga e piena, così quel fiato li spiriti mali di qua, di là, di giù, di sù li mena; nulla speranza li conforta mai, non che di posa, ma di minor pena. E come i gru van cantando lor lai, faccendo in aere di sé lunga riga, così vid' io venir, traendo guai, ombre portate da la detta briga; per ch'i' dissi: «Maestro, chi son quelle genti che l'aura nera sì gastiga?». Capii che a questa pena sono dannati i peccatori di lussuria, che sottomettono la ragione al piacere. E come d'inverno gli stornelli sono trasportati in volo dalle loro ali, formando una larga schiera, così quel vento trasporta gli spiriti malvagi; li trascina qua e là, su e giù; non hanno alcuna speranza che li conforti, né di riposo né di una diminuzione della pena. E come le gru emettono i loro lamenti, formando in cielo una lunga riga, così vidi venire sospirando delle anime, trasportate da quella tempesta; allora dissi: «Maestro, chi sono quelle anime castigate così dalla oscura bufera?»  Intesi ch'a così fatto tormento enno dannati i peccator carnali, che la ragion sommettono al talento. E come li stornei ne portan l'ali nel freddo tempo, a schiera larga e piena, così quel fiato li spiriti mali di qua, di là, di giù, di sù li mena; nulla speranza li conforta mai, non che di posa, ma di minor pena. E come i gru van cantando lor lai, faccendo in aere di sé lunga riga, così vid' io venir, traendo guai, ombre portate da la detta briga; per ch'i' dissi: «Maestro, chi son quelle genti che l'aura nera sì gastiga?». In questo mezzo, Dante apprende che i dannati sottoposti a quel tormento sono i peccator carnali, / che la ragion sommettono al talento, cioè che subordinano l'ordine della ragione ai disordini del desiderio. Perifrasi un po' protocollare di 'Lussuriosi' . Evidente, la congruenza fra colpa e pena ('contrapassum', nel latino di san Tommaso; 'contrapasso', nell'italiano di Dante): in balìa delle passioni da vivi, da morti questi lussuriosi saranno sbatacchiati per i secoli dei secoli in un'irrefrenabile bufera. E il racconto si anima di due famose similitudini aeree. Sarà bene precisare appena che gli spiriti mali, paragonati alla schiera larga e piena degli storni (stornelli, stornèi) , sono la totalità dei Lussuriosi, i quali, nella massa compàtta, turbinano alla rinfusa; mentre le ombre che, travolte dalla medesima tormenta (da la detta briga), striano gemendo quel volo di storni, come gru che disposte in lunga riga cantino i loro lamenti, dovrebbero essere le anime selezionate, ch 'amor di nostra vita dipartille, cioè: che han perso la vita a causa dell' amore. Causa che, però, non sembra sempre così evidente e stringente da giustificare l'iscrizione dei vari personaggi in un unico ruolo...

8 (52-63) «La prima di color di cui novelle tu vuo' saper», mi disse quelli allotta, «fu imperadrice di molte favelle. A vizio di lussuria fu sì rotta, che libito fé licito in sua legge, per tòrre il biasmo in che era condotta. Ell' è Semiramìs, di cui si legge che succedette a Nino e fu sua sposa: tenne la terra che 'l Soldan corregge. L'altra è colei che s'ancise amorosa, e ruppe fede al cener di Sicheo; poi è Cleopatràs lussurïosa. «La prima di coloro di cui vuoi avere notizie,» mi rispose allora Virgilio, «fu imperatrice di molti popoli. Fu così dedita al vizio di lussuria, che rese lecito nella sua legge tutto ciò che le piaceva, per eliminare la condanna morale che le spettava. Ella è Semiramide, di cui si legge che fu sposa di Nino al quale poi succedette: governò la terra che ora è governata dal Soldano. L'altra è colei che si suicidò per amore (Didone), e non tenne fede alla memoria del marito Sicheo; poi c'è la lussuriosa Cleopatra. «La prima di color di cui novelle tu vuo' saper», mi disse quelli allotta, «fu imperadrice di molte favelle. A vizio di lussuria fu sì rotta, che libito fé licito in sua legge, per tòrre il biasmo in che era condotta. Ell' è Semiramìs, di cui si legge che succedette a Nino e fu sua sposa: tenne la terra che 'l Soldan corregge. L'altra è colei che s'ancise amorosa, e ruppe fede al cener di Sicheo; poi è Cleopatràs lussurïosa. Sia quel che sia, la prima è Semiramìs, Semiramide, la leggendaria imperatrice poliglotta, la quale, succeduta al marito Nino, regnò sulla terra che 'I Soldan corregge, cioè sulla città che ora è retta dal sultano d'Egitto (omonimia: in effetti, il soldano ’correggeva' la Babilonia egiziana, che è poi il vecchio Cairo; lei, a suo tempo, la Babilonia mesopotamica): donna, comunque, talmente rotta alla lussuria, questa Semiramide, che per abrogare l'ignominia a cui s'era ridotta, decretò la liceità di qualsiasi sfrenatezza (insomma, come si dice: libito fé licito in sua legge). Tanto si legge nelle Storie di Paolo Grosio. (La truce fiaba secondo la quale Semiramide sarebbe finita assassinata dal figlio, con cui intratteneva rapporti incestuosi, non sappiamo dove Dante, se mai l'ha letta, possa averla letta.) Seconda è colei che si uccise per amore, dopo aver rotto il patto di fedeltà giurato sulle ceneri del marito Sichèo: cioè Didone, fondatrice e regina di Cartagine, la quale, abbandonata da Enea, si lanciò nelle fiamme. Virgilio pudicamente omette il nome della sua eroina. Segue (sfregiata dai dittonghi) Clèopatràs lussuriosa: la celelebre Cleopatra, amante di Cesare, di Antonio e di quanti altri, che si suicidò memorabilmente con un àspide, anche se non proprio per ragioni di cuore.

9 (64-72) Elena vedi, per cui tanto reo tempo si volse, e vedi 'l grande Achille, che con amore al fine combatteo. Vedi Parìs, Tristano»; e più di mille ombre mostrommi e nominommi a dito, ch'amor di nostra vita dipartille. Poscia ch'io ebbi 'l mio dottore udito nomar le donne antiche e ' cavalieri, pietà mi giunse, e fui quasi smarrito. Vedi Elena, per cui si combatté una lunga e sanguinosa guerra, e vedi il grande Achille, che combatté a scopi amorosi. Vedi Paride, Tristano»; e mi indicò col dito più di mille anime, che morirono a causa dell'amore. Dopo aver sentito il mio maestro nominare le donne antiche e i cavalieri, fui presto da turbamento e quasi mi smarrii. Elena vedi, per cui tanto reo tempo si volse, e vedi 'l grande Achille, che con amore al fine combatteo. Vedi Parìs, Tristano»; e più di mille ombre mostrommi e nominommi a dito, ch'amor di nostra vita dipartille. Poscia ch'io ebbi 'l mio dottore udito nomar le donne antiche e ' cavalieri, pietà mi giunse, e fui quasi smarrito. Segue Elena, per cui tanto reo / tempo si volse (sono evidentemente i dieci anni della guerra di Troia); di lei anche si narra , che morisse impiccata ad un albero nell'isola di Rodi, sebbene si nutra molto dubbio che Dante abbia avuto notizia di questa favola tardiva. Mentre è probabile conoscesse la redazione medioevale della leggenda di Achille, che voleva quell'invitto assassinato in un'imboscata nella quale si era lasciato adescare dalla prospettiva di stipulare il contratto di nozze con Polissena, che 'elli amava di «bollente affetto», quantunque figlia del re nemico. Ultimi del lotto: Paris, il vanitoso amante di Elena, e Tristano, il famoso Tristano, che preleva Isotta in Irlanda per trasferirla sposa a suo zio Marco, re di Cornovaglia; i due bevono per sbaglio un filtro d'amore, eccetera... L'elenco dei sette morti in odor di lussuria, completato da mille altri nomi di donne antiche e cavalieri, sgomenta Dante e pietà lo coglie; quando, nel pulviscolo delle storie e delle favole esemplari del tempo andato, irrompe l'attualità. Non senza fulgore.

10 Incontro con Paolo e Francesca (73-108)
(73-87) I’ cominciai: «Poeta, volontieri  parlerei a quei due che ’nsieme vanno,  e paion sì al vento esser leggeri».     Ed elli a me: «Vedrai quando saranno  più presso a noi; e tu allor li priega  per quello amor che i mena, ed ei verranno». Sì tosto come il vento a noi li piega,  mossi la voce: «O anime affannate,  venite a noi parlar, s’altri nol niega!».   Quali colombe dal disio chiamate  con l’ali alzate e ferme al dolce nido  vegnon per l’aere dal voler portate;   cotali uscir de la schiera ov’è Dido,  a noi venendo per l’aere maligno,  sì forte fu l’affettuoso grido.                             Cominciai: «Poeta, parlerei volentieri a quei due che volano insieme e sembrano essere trasportati tanto lievemente dal vento». Mi rispose: «Aspetta quando saranno più vicini a noi: allora pregali in nome di quell'amore che li trascina ed essi verranno». Non appena il vento li portò verso di noi, iniziai a parlare: «O anime affannate, venite a parlarci se Dio ve lo consente!» Come le colombe chiamate dal desiderio volano verso il dolce nido (per accoppiarsi), con le ali ferme e alzate, portate dal desiderio, allo stesso modo i due uscirono dalla schiera di Didone, venendo a noi attraverso l'aria infernale, tanto forte e affettuoso fu il mio richiamo. I’ cominciai: «Poeta, volontieri  parlerei a quei due che ’nsieme vanno,  e paion sì al vento esser leggeri».   Ed elli a me: «Vedrai quando saranno più presso a noi; e tu allor li priega per quello amor che i mena, ed ei verranno». Sì tosto come il vento a noi li piega, mossi la voce: «O anime affannate, venite a noi parlar, s'altri nol niega!». Quali colombe dal disio chiamate con l'ali alzate e ferme al dolce nido vegnon per l'aere, dal voler portate; cotali uscir de la schiera ov' è Dido, a noi venendo per l'aere maligno, sì forte fu l'affettüoso grido. "Mi piacerebbe parlare", mormora Dante a Virgilio, "con quei due che volano insieme e sembrano così leggeri al vento" (non lo ha chiamato 'maestro': l'ha chiamato 'poeta'). "Quando saranno più vicini, pregali in nome dell' amore che li porta, e vedrai che verranno", risponde Virgilio. E Dante Ii interpella con sommo riguardo: "O anime affannate, / venite a noi parlar, s'altri noI niega!", non lo vieta (' altri' = 'Dio o chi per Lui'). Abbiamo visto prima un mareggiare di storni. Nel mareggiare, una riga di gru (la schiera ov'è Didone). Dalla riga di gru si staccano ora, come colombe che planino verso il nido portate dal desiderio, i due, tratti dalla forza dell' appello affettuoso di Dante.

11 (88-99) «O animal grazïoso e benigno che visitando vai per l'aere perso noi che tignemmo il mondo di sanguigno, se fosse amico il re de l'universo, noi pregheremmo lui de la tua pace, poi c'hai pietà del nostro mal perverso. Di quel che udire e che parlar vi piace, noi udiremo e parleremo a voi, mentre che 'l vento, come fa, ci tace. Siede la terra dove nata fui su la marina dove 'l Po discende per aver pace co' seguaci sui. «O creatura cortese e benevola, che nell'aria oscura visiti noi che tingemmo il mondo di sangue, se il re dell'universo ci fosse amico lo pregheremmo perché ti dia pace, visto che mostri pietà del nostro terribile male. Noi vi ascolteremo e vi parleremo di ciò che volete, mentre il vento tace come fa in questo punto. La terra dove sono nata (Ravenna) sorge alla foce del Po, dove il fiume si getta in mare per trovare pace coi suoi affluenti. «O animal grazïoso e benigno che visitando vai per l'aere perso noi che tignemmo il mondo di sanguigno, se fosse amico il re de l'universo, noi pregheremmo lui de la tua pace, poi c'hai pietà del nostro mal perverso. Di quel che udire e che parlar vi piace, noi udiremo e parleremo a voi, mentre che 'l vento, come fa, ci tace. Siede la terra dove nata fui su la marina dove 'l Po discende per aver pace co' seguaci sui. E parlano. Con la voce di lei. Languida e cortese come una gran dama di romanzo cavalleresco, Francesca si dice disposta a dir tutto quello che i due viandanti vorranno sapere da lei, nella momentanea e precaria interruzione dell'urlio del vento: mentre che 'l vento, come fa, ci tace, cioè: tace qui. Ravenna era allora a ridosso del mare, fra due rami del delta del Po. E Francesca, per designare la sua città, si dichiara nata sulla marina dove sfocia il Po per aver pace con i suoi inseguitori (con i suoi affluenti). Se qualche udienza avessero nei cieli, pace pregherebbero lei e Paolo per il pellegrino misericordioso. Pace e nient'altro, è la disperata ambizione di questa giovane signora che, con l'amante, tinse il mondo di sanguigno, e ora mulina furiosamente nell'aere perso del secondo cerchio d'inferno. 'Perso' è colore di stoffe persiane (misto di purpureo e di nero, ma vince lo nero», come spiega iI Convivio); 'sanguigno' è 'color sangue'. Termini entrambi da tintoria, che indicano quasi iI medesimo punto di granata: nella voce di Francesca delicati eufemismi merceologici ad adombrare la condizione atroce di morti ammazzati, che hanno abbrunato di sangue tanto la terra quanto lo spazio della loro dannazione eterna.

12 ( ) Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende, prese costui de la bella persona che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende. Amor, ch'a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m'abbandona. Amor condusse noi ad una morte. Caina attende chi a vita ci spense». Queste parole da lor ci fuor porte. L'amore, che si attacca subito al cuore nobile, prese costui per il bel corpo che mi fu tolto, e il modo ancora mi danneggia. L'amore, che non consente a nessuno che sia amato di non ricambiare, mi prese per la bellezza di costui con tale forza che, come vedi, non mi abbandona neppure adesso. L'amore ci condusse alla stessa morte: Caina attende colui che ci uccise». Essi ci dissero queste parole. Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende, prese costui de la bella persona che mi fu tolta; e 'l modo ancor m'offende. Amor, ch'a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m'abbandona. Amor condusse noi ad una morte. Caina attende chi a vita ci spense». Queste parole da lor ci fuor porte. Quand' io intesi quell' anime offense, china' il viso, e tanto il tenni basso, fin che 'l poeta mi disse: «Che pense?». E ora, per consentirle di tracciare la parabola del suo colpevole amore senza scampo, il poeta assegna a Francesca da Polenta otto versi fra i più famosi del mondo. Questi versi (non è una novità) enunciano ed esemplificano alcuni precetti di dottrina erotica, che tale Andrea, cappellano del re di Francia, aveva codificato sul finire del XII secolo in un suo prontuario in lingua latina. Il prontuario, noto in Italia con il titolo di 'Gualtieri' o con quello di 'Andrea', fu probabilmente il libro più Ietto, tradotto, dibattuto, chiosato e applicato nel bel mondo cristiano del Duecento, dove sviluppò una vera e propria giurisprudenza dell'amore mondano. E sugli articoli del codice di Andrea Cappellano tramarono variazioni infinite molti rimatori: primo per rango, qui in Italia, Guido Guinizelli; non ultimo, il giovane Dante. Infatti, Francesca non mancherà di arieggiare versi giovanili di Dante. Come leggere il suo celeberrimo teorema? Personalmente lo interpreto così: Amore, che in un cuore gentile attecchisce subito (colpo di fulmine), prese questo Paolo del bel corpo di cui sono stata privata, " e il modo ancor m'offende" [passaggio vessatissimo: quantunque l'interpretazione 'e iI modo, anzi la smodatezza della passione di Paolo mi tiene ancora in sua balìa vanti qualche titolo, preferirei intenderlo all'antica: 'e il modo dell'ammazzamento continua a offendermi, a menomarmi', insomma è come se dicesse: sono qui, ammazzata in perpetuo']. "Amore, che non tollera nessuna persona amata dall'amare a sua volta, prese me , dell’ avvenenza di quest'uomo (del costui piacer) con tanta forza che, come vedi, ancor non m'abbandona, e mai mi abbandonerà. Amore ci trascinò ad un'unica morte. Chi ci ha tolto la vita è atteso nel fondo del baratro" (la Caina, di cui Francesca fa menzione nell’ultimo verso: 'Caina attende chi a vita ci spense è la zona del lago di ghiaccio che chiude il cratere infernale, riservata. Come abbiamo visto la volta scorsa, ai traditori dei parenti).

13 Il racconto di Francesca. Dante sviene (109-142)
( ) Quand' io intesi quell' anime offense, china' il viso, e tanto il tenni basso, fin che 'l poeta mi disse: «Che pense?». Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso, quanti dolci pensier, quanto disio menò costoro al doloroso passo!». Poi mi rivolsi a loro e parla' io, e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri a lagrimar mi fanno tristo e pio. Ma dimmi: al tempo d'i dolci sospiri, a che e come concedette amore che conosceste i dubbiosi disiri?». E quella a me: «Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria; e ciò sa 'l tuo dottore. Quando io sentii quelle anime offese, chinai lo sguardo e lo tenni basso così a lungo che alla fine Virgilio mi disse: «Cosa pensi?» Quando risposi, dissi: «Ahimè, quanti dolci pensieri, quanto desiderio portarono questi due al passo doloroso!» Poi mi rivolsi a loro e parlai dicendo: «Francesca, le tue pene mi rendono triste e mi spingono a piangere. Ma dimmi: al tempo della vostra relazione, in che modo e in quali circostanze Amore vi concesse di conoscere i dubbiosi desideri?» E lei mi disse: «Non c'è nessun dolore più grande che ricordare il tempo felice quando si è miseri; e questo lo sa bene il tuo maestro. Quand' io intesi quell' anime offense, china' il viso, e tanto il tenni basso, fin che 'l poeta mi disse: «Che pense?». All'ascolto di quell'anime offense (menomate, lese), Dante abbassa gli occhi, e tanto li tiene bassi, da indurre Virgilio (designato ancora come 'poeta') a domandargli cosa mai gli passi per la testa. Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso, quanti dolci pensier, quanto disio menò costoro al doloroso passo!». Poi mi rivolsi a loro e parla' io, e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri a lagrimar mi fanno tristo e pio. Ma dimmi: al tempo d'i dolci sospiri, a che e come concedette amore che conosceste i dubbiosi disiri?». E quella a me: «Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria; e ciò sa 'l tuo dottore. E lui fa una considerazione assai triste: "Ahimè, quanti dolci pensier, quanto disìo / menò costoro al doloroso passo!" Poi si rivolge a Francesca: "Francesca, le tue pene mi impietosiscono fino alle lacrime." E le sottopone una domanda che gli sta molto a cuore: "Ma dimmi: nella fase del linguaggio soave e indistinto dei sospiri, per quali indizi e in quali circostanze vi ha consentito Amore di conoscere i vostri titubanti e mutui desideri?". Francesca premette che nulla fa più male che ricordarsi del tempo felice nella miseria, come sa bene 'l tuo dottore (il quale sarà senz'altro Virgilio, anche se la frase è una citazione di Severino Boezio),

14 ( ) Ma s'a conoscer la prima radice del nostro amor tu hai cotanto affetto, dirò come colui che piange e dice. Noi leggiavamo un giorno per diletto di Lancialotto come amor lo strinse; soli eravamo e sanza alcun sospetto. Per più fïate li occhi ci sospinse quella lettura, e scolorocci il viso; ma solo un punto fu quel che ci vinse. Ma se tu hai tanto desiderio di conoscere l'origine del nostro amore, allora farò come colui che piange e parla al tempo stesso. Un giorno noi leggevamo per svago il libro che narra di Lancillotto e di come amò Ginevra; eravamo soli e non sospettavamo quel che sarebbe successo. Più volte quella lettura ci spinse a cercarci con gli occhi e ci fece impallidire; ma fu solo un punto a sopraffarci. Ma s'a conoscer la prima radice del nostro amor tu hai cotanto affetto, dirò come colui che piange e dice. Noi leggiavamo un giorno per diletto di Lancialotto come amor lo strinse; soli eravamo e sanza alcun sospetto. Per più fïate li occhi ci sospinse quella lettura, e scolorocci il viso; ma solo un punto fu quel che ci vinse. Ma, visto che Dante manifesta tanta passione di conoscere l'inizio (la prima radice) della loro storia d'amore, Francesca si dispone a raccontare piangendo. Sappiamo come sono andate le cose. Un giorno, per svago, senza essere insospettiti da alcun presentimento, i cognati leggevano insieme un romanzo francese, dov'era narrata la storia d'amore di Lancillotto del Lago e Ginevra la Bella, moglie di re Artù. Più d'una volta la lettura costrinse i loro sguardi ad incrociarsi (li occhi ci sospinse), i loro visi a scolorare: ma a sopraffarli fu una pagina, e proprio quella.

15 E caddi come corpo morto cade.
( ) Quando leggemmo il disïato riso esser basciato da cotanto amante, questi, che mai da me non fia diviso, la bocca mi basciò tutto tremante. Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse: quel giorno più non vi leggemmo avante». Mentre che l'uno spirto questo disse, l'altro piangëa; sì che di pietade io venni men così com' io morisse. E caddi come corpo morto cade. Quando leggemmo che la bocca desiderata di Ginevra fu baciata da un simile amante, costui, che non sarà mai diviso da me, mi baciò la bocca tutto tremante. Galeotto fu il libro e chi lo scrisse; quel giorno non leggemmo altre pagine». Mentre uno spirito diceva questo, l'altro piangeva, così che io venni meno a causa del turbamento, proprio come se morissi. E cadddi come un corpo privo di vita. Quando leggemmo il disïato riso esser basciato da cotanto amante, questi, che mai da me non fia diviso, la bocca mi basciò tutto tremante. Galeotto fu 'l libro e chi lo scrisse: quel giorno più non vi leggemmo avante». Mentre che l'uno spirto questo disse, l'altro piangëa; sì che di pietade io venni men così com' io morisse. E caddi come corpo morto cade. A questo punto Dante resta turbato e per alcuni momenti resta in silenzio, gli occhi bassi. Virgilio gli chiede a cosa pensi e Dante risponde di essere colpito dal desiderio amoroso che condusse i due dannati alla perdizione. Poi parla a Francesca, chiamandola per nome, e chiedendole in quali circostanze sia iniziata la loro relazione adulterina. Francesca risponde dapprima che è doloroso ricordare del tempo felice quando si è miseri, ma se Dante vuole sapere l'origine del loro amore allora glielo racconterà. La donna narra che un giorno lei e Paolo leggevano per divertimento un libro, che parlava di Lancillotto e della regina Ginevra. Più volte la lettura li aveva indotti a cercarsi con lo sguardo e li aveva fatti impallidire. Quando lessero il punto in cui era descritto il bacio dei due amanti, anch'essi si baciarono e interruppero la lettura del libro, che fece da mezzano della loro relazione amorosa. Mentre Francesca parla, Paolo resta in silenzio e piange; Dante è sopraffatto dal turbamento e sviene.


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