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PubblicatoCarlotta Grassi Modificato 6 anni fa
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Si compone di tre elementi: supporto, intonaco, colore.
GLI AFFRESCHI L'affresco è una pittura eseguita sull'intonaco fresco di una parete: il colore ne è chimicamente incorporato e conservato per un tempo illimitato. L'affresco è un'antichissima tecnica pittorica che si realizza dipingendo con pigmenti generalmente di origine minerale stemperati in acqua su intonaco fresco: in questo modo, una volta che nell'intonaco si sia completato il processo di carbonatazione il colore ne sarà completamente inglobato, acquistando così particolare resistenza all'acqua e al tempo. Si compone di tre elementi: supporto, intonaco, colore. Il supporto, di pietra o di mattoni, deve essere secco e senza dislivelli. Prima della stesura dell'intonaco, viene preparato con l'arriccio, una malta composta da calce spenta o grassello, sabbia grossolana di fiume o, in qualche caso, pozzola e, se necessario, acqua, steso in uno spessore di 1 cm circa, al fine di rendere il muro più uniforme possibile.
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L'intonaco è l'elemento più importante dell'intero affresco
L'intonaco è l'elemento più importante dell'intero affresco. È composto di un impasto fatto con sabbia di fiume fine, polvere di marmo, o pozzolana setacciata, calce ed acqua. Il colore, che è obbligatoriamente steso sull'intonaco ancora umido (da qui il nome, "a fresco"), deve appartenere alla categoria degli ossidi, poiché non deve interagire con la reazione di carbonatazione della calce. La principale difficoltà di questa tecnica è il fatto che non permette ripensamenti: una volta lasciato un segno di colore, questo verrà immediatamente assorbito dall'intonaco, i tempi stretti di realizzazione complicano il lavoro dell'affrescatore, la carbonatazione avviene entro tre ore dalla stesura dell'intonaco. Per ovviare a questo problema, l'artista realizzerà piccole porzioni dell'affresco (giornate). Eventuali correzioni sono comunque possibili a secco, ovvero mediante tempere applicate sull'intonaco asciutto: sono però più facilmente degradabili. Un'altra difficoltà consiste nel capire quale sarà la tonalità effettiva del colore: l'intonaco bagnato, infatti, rende le tinte più scure, mentre la calce tende a sbiancare i colori. Per risolvere il problema, è possibile eseguire delle prove su una pietra pomice o su un foglio di carta fatto asciugare con aria o vento di scirocco ossia aria calda.
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GLI AFFRESCHI DI SAN GENNARO
Gli affreschi della cappella del Tesoro di san Gennaro sono un ciclo di affreschi barocchi databili dal 1631 al 1643 compiuti dal Domenichino e Giovanni Lanfranco per le volte e la cupola della reale cappella del Tesoro di san Gennaro del duomo di Napoli. Si tratta di una delle più rilevanti espressioni pittoriche locali nonché centro del barocco emiliano a Napoli. Su indicazione dei consiglieri romani, l'istituzione civica nata per volere popolare con lo scopo di seguire i lavori di edificazione della reale cappella del Tesoro di san Gennaro, denominata Deputazione, decise in un primo momento di affidare i lavori di decorazione delle volte e della cupola a Giuseppe Cesari detto il Cavalier d'Arpino. Il pittore laziale, affermatosi a Roma sotto il pontificato di Clemente VIII Aldobrandi e tra i più richiesti ancora al tempo di Paolo V Borghese, venne contattato nel settembre 1616 e dopo che i deputati furono costretti a sollecitarlo più volte si presentò solo nel Il contratto venne stipulato il 7 marzo del 1618 e il Cavalier d'Arpino si impegnò a iniziare quanto prima il lavoro assegnatogli, ma l'endemica lentezza unita ai troppi impegni assunti lo tenne lontano da Napoli senza dare alcun segnale di vita alla Deputazione che a quel punto si rivolse nel 1620 a Guido Reni.
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Il Cavalier d'Arpino tentò invano di recuperare con la Deputazione inviando degli emissari a Napoli, ma era ormai troppo tardi. Dopo un'estenuante trattativa economica Guido Reni rifiutò l'incarico a causa di pressioni e minacce avanzate da alcuni artisti locali, che arrivarono addirittura al ferimento di un suo collaboratore, i quali non intendevano farsi sfuggire l'occasione di lavorare ad un luogo di tale importanza. Il gruppo intimidatorio, definito cabala di Napoli, era formato dai pittori locali Battistello Caracciolo, Belisario Corenzio e Jusepe de Ribera ed intendeva disincentivare i pittori stranieri dall'accettare l'incarico alla reale cappella, luogo troppo importante per la cultura napoletana e quindi altamente appetibile per i pittori del posto. Così l'antica istituzione decise allora di chiamare all'opera il pittore Fabrizio Santafece che a sua volta chiamò al suo fianco Battistello Caracciolo ed il bolognese Francesco Gessi, collaboratore di Guido Reni. Tuttavia i loro lavori non piacquero alla Deputazione; il Santafede morì, Caracciolo e Gessi furono licenziati e la Deputazione decise il 2 dicembre 1628 di indire una sorta di gara d'appalto che comprendesse anche i pittori di scuola napoletana, fino ad allora esclusi dal progetto. Alla richiesta avanzata non vi fu nessuno che rispose felicemente alle aspettative dell'istituzione. Nel 1630 la Deputazione prese contatti con un altro pittore bolognese, Domenico Zampieri, detto il Domenichino, al quale chiese un test che il pittore bolognese realizzò in pietra sanguigna raffigurante il Martirio di San Gennaro, nei pressi del Vesuvio e la solfatara di Pozzuoli. Il quadro, seppur semplice e che oggi è conservato ed esposto nel Museo del Tesoro di san Gennaro, piacque alla Deputazione tant'è che l'11 novembre 1631 fece sottoscrivere il contratto al pittore emiliano.
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Il Cavalier d'Arpino tentò invano di recuperare con la Deputazione inviando degli emissari a Napoli, ma era ormai troppo tardi. Dopo un'estenuante trattativa economica Guido Reni rifiutò l'incarico a causa di pressioni e minacce avanzate da alcuni artisti locali, che arrivarono addirittura al ferimento di un suo collaboratore, i quali non intendevano farsi sfuggire l'occasione di lavorare ad un luogo di tale importanza. Il gruppo intimidatorio, definito cabala di Napoli, era formato dai pittori locali Battistello Caracciolo, Belisario Corenzio e Jusepe de Ribera ed intendeva disincentivare i pittori stranieri dall'accettare l'incarico alla reale cappella, luogo troppo importante per la cultura napoletana e quindi altamente appetibile per i pittori del posto. Così l'antica istituzione decise allora di chiamare all'opera il pittore Fabrizio Santafede che a sua volta chiamò al suo fianco Battistello Caracciolo ed il bolognese Francesco Gessi, collaboratore di Guido Reni. Tuttavia i loro lavori non piacquero alla Deputazione; il Santafede morì, Caracciolo e Gessi furono licenziati e la Deputazione decise il 2 dicembre 1628 di indire una sorta di gara d'appalto che comprendesse anche i pittori di scuola napoletana, fino ad allora esclusi dal progetto. Alla richiesta avanzata non vi fu nessuno che rispose felicemente alle aspettative dell'istituzione. Nel 1630 la Deputazione prese contatti con un altro pittore bolognese, Domenico Zampieri, detto il Domenichino, al quale chiese un test che il pittore bolognese realizzò in pietra sanguigna raffigurante il Martirio di San Gennaro, nei pressi del Vesuvio e la solfatara di Pozzuoli. Il quadro, seppur semplice e che oggi è conservato ed esposto nel Museo del Tesoro di san Gennaro, piacque alla Deputazione tant'è che l'11 novembre 1631 fece sottoscrivere il contratto al pittore emiliano.
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