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Søren KIERKEGAARD La vita
Nasce a Copenhagen, in Danimarca, il 5 maggio 1813; è il più giovane di sette figli di una famiglia di umili origini (Kierkegaard significa, infatti, «masseria della chiesa», dove venivano accolti i poveri senza alloggio e dove furono probabilmente accolti i suoi antenati). Fu educato dal padre Michael, che si era arricchito grazie al commercio e si era ritirato dal lavoro a 40 anni. Michael proveniva da una severa comunità religiosa e la sua visione della vita era fondata su concetti come colpa, punizione e sofferenza; temeva per la salvezza della sua anima e credeva, che a causa di una colpa di cui si era macchiato, Dio avesse maledetto la sua famiglia. Solo due dei suoi figli, fra cui Søren, superarono i 34 anni. Nel 1835, dopo la morte della madre e di tre fratelli, K. Scrisse nel Diario di essere venuto a conoscenza di «una qualche colpa del padre» che «doveva gravare sulla famiglia intera» e che produsse «un gran terremoto» nella sua vita . Dal padre K. Ereditò in parte la visione del mondo, la malinconia e l’amore per la lettura e la discussione. Nel Diario K. parla di «un tormento che io posso chiamare il mio pungolo nella carne», una sorta di incapacità di vivere la vita degli altri uomini, «un fardello pesante», ma con ciò anche la consapevolezza di dover adempiere con la sua attività di scrittore a un compito straordinario.
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La vita 1830: K., a 17 anni, si iscrive all’Università di Copenhagen per conseguire la laurea in Teologia. Studia filosofia ed estetica; frequenta teatri, partecipa a feste e si dedica alla mondanità, ma, al tempo stesso, si interroga su quale sia la sua vocazione, ciò a cui Dio l’ha destinato. 1838: muore il padre di K. 1840: K. Supera l’esame finale di teologia e nel 1841 ottiene il titolo di magister in filosofia, discutendo una tesi Sul concetto di ironia in riferimento costante a Socrate. 1840: K. si fidanza ufficialmente con Regina Olsen; nel Diario, poco dopo, K. Scrive: «se non fossi stato un malinconico, l’unione con lei mi avrebbe dato una felicità quale mai avevo sognata», ma essendo «purtroppo […] quello che ero» bisogna dire che «avrei potuto avere maggiore felicità nella mia disgrazia senza di lei che con lei» [140] 1841: K. rompe il fidanzamento con Regina Olsen e si rifugia a Berlino, dove tra il 1841 e il 1842 segue le lezioni di Schelling. La rottura del fidanzamento segna anche l’inizio della sua carriera da scrittore, a cui K. può dedicarsi senza preoccupazioni di carattere economico, visto che può contare sull’eredità ricevuta dal padre.
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L’attività di scrittore
K. Scrive moltissimo, pubblicando a volte un’opera a poche settimane di distanza da un’altra; scrive opere filosofiche e religiose, ma anche critiche letterarie, recensioni e discorsi. K., inoltre, pubblica molte delle sue opere più importanti sotto vari pseudonimi: Victor Heremita, Johannes de Silentio, Constantin Constantius, Inter et Inter, Anti--Climacus, Johannes Climacus, Vigilius Haufniensis, Hilarius il Rilegatore, H. H. Gli Pseudonimi in Kierkegaard: da un lato, essi stanno ad indicare il suo rifiuto di presentarsi come “pensatore ufficiale”, il desiderio di apparire, piuttosto, come un “testimone della verità”; dall’altro, il suo desiderio di esprimere le molteplici possibilità che egli percepiva compresenti nella sua personalità e l’adesione a un criterio di “comunicazione indiretta” della verità, attraverso la “testimonianza”, appunto, e non la “dimostrazione”. Si tratta di una sorta di «io poetici» in cui la verità personale si contrappone all’astrattezza ed alla verità oggettiva; Rivelano, infine, l’intenzione di prendere le distanze dalle proprie opere e dai loro personaggi, compiendo un esercizio di «ironia» nei confronti delle loro vicende. K. Presenta, infatti, l’ironia come la capacità dell’esistenza di porsi al di là delle sue forme storiche per descriverne ed analizzarne i comportamenti e, contemporaneamente, per descrivere se stessa nella propria essenza.
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Principali Pubblicazioni pseudonime di Kierkegaard
OPERA DATA PSEUDONIMI Enten Eller (Aut-aut) 1843 Victor Eremita, editore A, editore/autore della prima parte (Enten) B, Giudice Wilhelm, editore/autore della seconda parte (Eller) La ripetizione Costantin Costantius Timore e tremore Johannes de Silentius Briciole filosofiche 1844 Johannes Climacus Il concetto dell’angoscia Vigilius Haufniensis (colui che vigila a Copenhagen) Postilla conclusiva non scientifica 1846 La crisi 1848 Inter e inter («fra» e «fra») Due saggi minori etico-religiosi 1849 HH La malattia mortale Anti-Climacus Esercizio di Cristianesimo 1850
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Ciclo estetico (o di Regina) – ciclo filosofico – ciclo religioso
Aut-aut (Victor Eremita; Giudice Wilhelm) 1843 Vengono analizzati due stadi dell’esistenza: estetico ed etico Briciole di filosofia (Johannes Climacus) 1844 Analizza l’approccio soggettivo alla conoscenza in contrapposizione a quello oggettivo e la natura paradossale della religione e del Cristianesimo La malattia mortale (Anti-Climacus) 1849 Analizza la disperazione, che riguarda il rapporto dell’uomo con se stesso Timore e tremore (Johannes de Silentius) 1843 Viene analizzato lo stadio religioso dell’esistenza Postilla conclusiva non scientifica (Johannes Climacus) 1846 Riprende e approfondisce la discussione dei problemi della fede, dell’insufficienza della ragione e del paradosso Esercizio di Cristianesimo (Anti-Climacus) 1850 Si interroga su: «Che cosa significa essere cristiano nella cristianità?» Il concetto dell’angoscia (Vigilius Haufniensis) 1844 Il tema centrale è quello dell’angoscia e delle sue cause Discorsi edificanti (Søren Kierkegaard) K. Si propone di aiutare l’individuo ad elevarsi alla dimensione della fede
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La polemica di Kierkegaard…
Con la chiesa di Stato La concezione di matrice agostiniana del cristianesimo, che conferisce grande importanza alla dimensione interiore della religiosità, pone K. in aperto contrasto con la chiesa luterana danese che era una Chiesa di Stato. Nel 1854 muore il vescovo J.P. Mynster che, secondo K., aveva condotto una vita troppo comoda, materialistica e mondana, in contrasto con gli autentici valori cristiani. H.L. Martensen, docente di teologia di formazione hegeliana, pubblica un sermone in sua memoria e lo descrive come un «testimone della verità». K. allora reagisce con un attacco rivolto alla chiesa danese dalle pagine di una rivista da lui fondata, intitolata «Il momento». K. sostiene che non può essere chiamato «testimone della verità» chi ha sempre vissuto nel lusso, mirando al potere. Attraverso Martensen K. critica la Chiesa danese per la sua collusione con lo Stato e il suo cristianesimo di facciata, privo di una dimensione interiore, capace di coinvolgere l’esistenza del singolo credente. Con la stampa Il settimanale satirico «Il Corsaro», che beffeggiava le persone più note di Copenhagen, lo attacca prendendo di mira le sue abitudini personali e pubblicando diverse caricature che mettevano in evidenza i suoi problemi fisici. K. Si sente profondamente umiliato e descrive la sua sofferenza nel Diario.
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La morte Nell’Ottobre del 1855, dopo essere caduto per la strada, fu ricoverato al Frederick Hospital Morì l’11 Novembre del 1855 all’età di 42 anni. Fu sepolto nella tomba della famiglia Kierkegaard a Copenhagen e sulla lapide furono incisi i seguenti versi: «Un poco ancora e vinto io avrò. la lotta tutta sarà svanita. Così riposar potrò in una sala di fiori e in un colloquio eterno bearmi con il mio Gesù».
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La centralità dell’esistenza e la critica ad Hegel
La filosofia di Kierkegaard si segnala per l’attenzione rivolta all’esistenza, al Singolo: in una netta contrapposizione allo spirito di sistema dello hegelismo, il filosofo danese intende sottolineare la irriducibilità dell’esistenza del Singolo ad un Assoluto che si presume spieghi tutto e risolva ogni contraddizione. Nel Diario K. Scrive: «Eppure se io dovessi domandare un epitaffio per la mia tomba, non chiederei che «Quel singolo» – anche se ora questa categoria non è capita». Singolo: soggetto esistente, un soggetto «infinitamente interessato all’esistente» a cui della sua esistenza preme, mentre di essa sente la precarietà; Esistere: divenire, non essere saldi all’esistente, non avere in sé la ragione del proprio essere, ma in un Altro.
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La centralità dell’esistenza e la critica ad Hegel
Hegel ha fatto dell’uomo un genere animale poiché solo negli animali il genere è superiore al singolo. Il genere umano ha, invece, la caratteristica che il singolo è superiore al genere (insegnamento fondamentale del Cristianesimo, secondo K.). In realtà anche Hegel aveva sostenuto che l’idea della libertà dell’uomo in quanto tale è stata introdotta nel mondo dal Cristianesimo; la differenza tra Hegel e K. sta nel fatto che per il primo, una volta inaugurato il tempo del soggetto, il Cristianesimo ha esaurito il suo compito, mentre per K. l’idea di uomo libero non può essere disancorata dalla sua fonte, dal Cristianesimo, appunto. L’hegelismo rappresenta il livellamento dell’esistenza singola nella generalità del mondo storico, ovvero la dispersione del singolo nel processo del mondo. Si finisce così per confondersi con il tempo, il secolo, la generazione, la massa dell’umanità… Hegel concepisce la storia del mondo come conclusione della realtà già esistita, escludendovi il vero divenire che implica azione e decisione.
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La centralità dell’esistenza e la critica ad Hegel
Nell’astrazione idealistica il singolo è ricompreso in un sistema che ne garantisce l’universalità e l’eternità: non però come singolo, ma come elemento del sistema. L’idealismo garantisce l’immortalità del singolo solo uccidendolo in quanto tale (non considerandolo in quanto individuo) sottraendolo all’esistenza concreta. Il singolo non può essere dedotto dall’universale (idealismo) K. avversa proprio l’identificazione della realtà con il pensiero, la ridicola pretesa della filosofia hegeliana di far coincidere gli sviluppi della ragione con le trame della realtà. La verità non è l’oggetto del pensiero, ma il processo con cui l’uomo se l’appropria, la fa sua e la vive; l’appropriazione della verità è la verità. La riflessione deve essere soggettiva , connessa con l’esistenza; la riflessione in cui il singolo è direttamente coinvolto quanto al suo destino non è oggettiva e disinteressata, ma soggettiva, appassionata e paradossale (non si giunge alla verità attraverso categorie logiche, ma attraverso lo scandalo e la contraddittorietà). L’esistenza non può venire inscritta in categorie universali o in programmi definiti. Le categorie del pensiero soggettivo sono il singolo e la possibilità (K. Si colloca nell’ottica agostiniana della ricerca interiore, del pensiero come analisi di sé).
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La centralità dell’esistenza e la critica ad Hegel
«La ragione dell'insufficienza di Hegel di fronte alla realtà non è posta da Kierkegaard in una difettosa deduzione dal principio, come sembra a Marx, ma nel fatto che in genere Hegel vuole inserire l’essenza nell’esistenza. Per questo appunto egli non fa mai risultare un’esistenza “reale”, ma sempre soltanto un’”esistenza concettuale” ideale. Infatti l’essentia di qualcosa, ossia che cosa qualcosa sia, riguarda l’essenza generale; per l’existentia, ossia che qualcosa sia, l’esistenza singola e momentanea, mia e tua, è invece decisivo il fatto che sia oppure non sia. La critica contro Hegel di Kierkegaard ritorna alla critica kantiana della prova ontologica di Dio, allo scopo di giustificare la distinzione contenutavi tra essenza ed esistenza come l’unico pensiero onesto riguardo l’esistenza”[…] La categoria della singolarità non è peraltro una categoria come le altre, ma rappresenta la determinazione distinta della realtà; già per Aristotele, , infatti, realmente esistente è sempre soltanto” questo qualcosa qui” determinato, cioè il singolo, quale si presenta qui ed ora. Nella dottrina hegeliana del concetto la singolarità è si postulata come l’unica realtà, ma nella mediazione indifferente con il particolare e l’universale. La realtà singola significa per lui la determinatezza riflessa in sé e particolare di ciò che è universale, e l’uomo singolo rappresenta quindi una determinatezza particolare dell’universale esser-uomo, la cui essenza è lo spirito. Questa universalità dell’esser-uomo, cioè l’universalmente-umano, non è stata negata da Kierkegaard, ma è da lui stata ritenuta come realizzabile soltanto dal singolo, mentre la universalità dello Spirito (Hegel) o dell’umanità (Marx) è a lui sembrata esistenzialmente nulla. […]
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La centralità dell’esistenza e la critica ad Hegel
Il concetto polemico di K. dell’esistenza reale (un’esistenza che è di supremo interesse per chi esiste) non è soltanto diretto contro Hegel, ma rappresenta in pari tempo un correttivo contro le esigenze dell’epoca. L’esistenza isolata in se stessa è, in primo luogo, la realtà distinta ed unica di fronte al sistema, che abbraccia in egual modo ogni cosa, ed appiana le differenze (tra essere e nulla, tra pensiero ed essere, tra universalità e singolarità) in un essere indifferente. In secondo luogo, è la realtà del singolo di fronte alla universalità storica (della storia mondiale e della generazione presente, della folla, del pubblico e dell’epoca), per la quale l’individuo in quanto tale non conta nulla. Essa è, in terzo luogo, l’esistenza interiore del singolo di fronte all’esteriorità dei rapporti; in quarto luogo un’esistenza cristiana di fronte a Dio, che si contrappone all’esteriorizzazione dell’esser-cristiani nel senso della cristianità propagata storicamente. In quinto luogo, in mezzo a queste determinazioni, essa è innanzitutto un’esistenza che si decide, pro o contro l’esser-cristiani. In quanto esistenza che si decide in un senso o nell’altro, essa rappresenta l’antitesi dell’epoca “intellettuale” e della concettualità di Hegel, che non conosce questa alternativa». (Karl Löwith, Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del XIX secolo, PBE, To, 1994, pp )
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Categorie di Kierkegaard
distinto originale SINGOLO irriducibile irripetibile Dimensione: Futuro POSSIBILITÀ unico solo SCELTA LIBERTÀ ANGOSCIA
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La definizione di esistenza
Il termine esistenza si applica solo all’uomo e non alle cose: l’uomo esiste, le cose sono. L’esistenza è «il continuo divenire»: «colui che è esistente è sempre in divenire» e nello stato di divenire nulla è determinato o predestinato: «il continuo divenire è l’incertezza della vita terrena, in cui tutto è incerto». L’animale ha un’essenza ed è, quindi, determinato, giacché l’essenza è il regno del necessario, di cui la scienza cerca le leggi. L’esistenza è il regno della libertà: l’uomo è ciò che sceglie di essere, quello che diventa Esistere significa aspirare ad uno scopo che è infinito, aspirare quindi infinitamente. Per sottolineare il carattere di infinita aspirazione che definisce l’esistenza K. utilizza (nella seconda parte della Postilla) una famosa tesi di Lessing sulla verità: «Se Dio tenesse nella sua destra ogni verità e nella sua sinistra l’unica e sempre mobile aspirazione alla verità, sia pure con l’aggiunta di sbagliare sempre e in eterno, e mi dicesse: scegli, io mi getterei umilmente in ginocchio alla sua sinistra e direi: Padre, dammi questa! La verità pura è riservata a Te soltanto!». In accordo con Lessing, K. ritiene che la verità compiuta appartenga solo a Dio e oppone polemicamente questa tesi alla pretesa di Hegel e degli hegeliani di essere in possesso, come Dio, della verità compiuta nel loro sistema.
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Per Kierkegaard la verità non è oggettiva (come nella speculazione hegeliana), ma soggettiva nel senso che in essa ne va del soggetto, in quanto è decisiva per lui e per la sua vita. Caratteri della oggettività: Astrattezza (la verità è un oggetto tra gli altri) Disinteresse (la verità non tocca il soggetto) Indifferenza (una verità oggettiva vale l’altra) Certezza (la verità oggettiva è inconfutabile, ma vuota) Linearità (una dialettica conciliativa del tipo: et … et) Il pensiero oggettivo supera la contraddizione nella sintesi (dialettica hegeliana) Caratteri della soggettività: Concretezza (non abbandona il terreno dell’esistenza) Interesse (la verità è per il soggetto) Passione (ne va dell’esistenza del soggetto) Incertezza (un rischio, nessuna garanzia per il soggetto) Biforcazione (una dialettica esclusiva del tipo: aut … aut) Sul piano dell’esistenza (indagata dal pensiero soggettivo) la contraddizione fra realtà parziali non si risolve , ma impone una scelta fra alternative inconciliabili.
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La possibilità Alla categoria della necessità si sostituisce quella della possibilità, alla totalità il singolo, alla sintesi rassicurante l’aut-aut impegnativo Se la storia è regolata dalla necessità, la singola esistenza si muove nell’ambito della categoria della possibilità , che implica, per il singolo, una scelta pratica, e non teoretica, una scelta che riguarda la propria vita e non le teorie filosofiche. Il possibile è l’elemento costitutivo dell’uomo. K. ha messo in luce il carattere negativo e paralizzante della possibilità: ogni possibilità è, infatti, oltre che possibilità-che-sì, anche, sempre, possibilità-che-non: implica la nullità possibile di ciò che è possibile, quindi la minaccia del nulla. K. sente, allora, l’esigenza di chiarire le possibilità fondamentali che si offrono all’uomo, gli stadi o i momenti della vita che costituiscono le alternative dell’esistenza e tra le quali l’uomo è chiamato a scegliere.
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Gli stadi dell’esistenza
Le tre sfere dell’esistenza sono esclusive l’una dell’altra, e perciò il passaggio dall’una all’altra impegna il Singolo con un atto libero di scelta, che può essere soltanto suo: più che un passaggio dialettico, è un salto. Non è possibile un «et…et» fra due stadi fra loro contraddittori, ma solo un’antitesi radicale, che si esprime come «aut…aut» Il Singolo si trova davanti a tre alternative principali, cioè a tre modelli esistenziali inconciliabili: Lo stadio estetico; Descritti in Lo stadio etico; «Aut-aut» Lo stadio religioso. Descritto in «Timore e tremore»
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Lo stadio estetico Victor eremita trova due pacchi di carte: le «carte di A» e le «carte di B»; Il primo gruppo contiene gli scritti di estetica, tra cui un Saggio sul Don Giovanni di Mozart e il Diario del seduttore (il cui autore si chiama Johannes) Lo stadio estetico è una vita di piacere e di gioia: è la vita del dilettante, che si rifiuta di impegnarsi in un compito definito e non vuole affrontare il rischio della scelta; dell’esteta, che si compiace delle belle parvenze e coltiva i piaceri raffinati dell’arte; del seduttore, che al celibato chiede la garanzia di una libertà irresponsabile. L’esteta vive in un presente che non si protende verso il futuro, ma si esaurisce in se stesso; gode dell’attimo; egli non sceglie e non si impegna, non assume ruoli o responsabilità sociali, passa di esperienza in esperienza, senza mai definirsi come identità stabile. Don Giovanni non ama nessuna donna in particolare, ma la sensualità in quanto tale. Il seduttore non ha continuità e per questo non ha neppure un’individualità. L’esteta si disperde nelle cose e nelle esperienze, non costruisce se stesso e manca perciò di un «io» inteso come riferimento continuativo della propria esistenza. Totalmente proiettato verso le circostanze l’esteta si identifica con ciò che gli accade; egli vive, quindi, all’esterno di sé, inseguendo e moltiplicando ad arte le occasioni piacevoli allo scopo di allontanare la disperazione che accompagna il pensiero della loro precarietà.
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Diario del seduttore Il seduttore psichico del Diario del seduttore, Johannes, mette in atto una seduzione mediata poiché ha bisogno di «tempo» per predisporre i suoi piani, e anzi egli fa del tempo stesso uno strumento di seduzione. Il suo obiettivo non è tanto quello di possedere una donna fisicamente, quanto quello di possederla psichicamente. Il suo godimento è frutto d'un egoismo raffinato e sottile in quanto consiste nel condurre la donna scelta (Cordelia) ad uno stato di soggiogamento totale, senza essere a sua volta soggiogato in quest'opera di seduzione. Per mettere in atto il proprio progetto egli si mostra alla sua preda ora distaccato e assente, ora interessatissimo e presente, ora furioso come un temporale d'autunno, ora dolcissimo come uno strumento musicale ricco di armoniche. Il suo obiettivo è infatti di rendere la relazione «interessante», ed essa è tale quando, lungi dal rinchiudersi nel vincolo delle decisioni e delle scelte, rimane sospesa sull'indeterminato, sul regno dell'«infinita possibilità». Perciò, quando una relazione è compiuta e determinata, essa smette d'essere interessante e allora bisogna trovare ogni mezzo per mollare la preda, giacché «introdursi in immagine nell'intimo d'una fanciulla è un'arte, uscirne fuori in immagine è un capolavoro». Si tratta di conquistare l’immaginario della donna, senza possederla mai realmente; quello messo in atto da Johannes è un gioco autoreferenziale.
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Lo stadio etico Il secondo gruppo, «carte di B» contiene due saggi di argomento etico: la Validità estetica del matrimonio e L’equilibrio tra l’estetico e l’etico nell’elaborazione della personalità. Lo stadio etico è la vita dedicata al dovere. Qui l’individuo si sottopone ad una forma, si adegua all’universale e rinuncia ad esser l’eccezione, si è sposato, si è formato una famiglia, ha assunto delle responsabilità di marito, di cittadino, di professionista. La figura caratteristica di questo tipo di vita è l’assessore Guglielmo, il quale è essenzialmente un marito fedele, un professionista onesto e laborioso, un funzionario esemplare. Se nella concezione estetica dell’amore una coppia di persone eccezionali può essere felice in forza della sua eccezionalità, nella concezione etica del matrimonio può diventare felice ogni coppia di sposi. Assumendo come proprie le obbligazioni comuni, inserendosi nella società, l’uomo etico si sceglie ed esiste in modo autentico: chi vive eticamente sceglie la propria vita e in questo modo definisce e costruisce se stesso, afferma la propria identità nella continua ripetizione dei propri compiti, costruisce un’identità e una durata. La vita etica insegna che non si è uomini eroici nel compiere imprese strabilianti, ma nel realizzare l’universale umano, che consiste nell’accettare la propria concretezza storica e nel realizzare in essa il proprio dovere. La vita estetica rivela la sua insufficienza e la sua miseria nella noia. Chiunque viva esteticamente è disperato, lo sappia o non lo sappia; la disperazione è l’ultimo sbocco della concezione estetica della vita. Essa è l’ansia di una vita diversa che si prospetta come un’altra alternativa possibile, ma per raggiungerla bisogna attaccarsi alla disperazione: «Scegli dunque la disperazione, dice Kierkegaard; la disperazione stessa è una scelta giacché si può dubitare senza scegliere di dubitare ma non si può disperarsi senza sceglierlo. Disperandosi si sceglie di nuovo e sceglie se stesso, non nella propria immediatezza, ma si sceglie se stesso nella propria validità eterna».
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TESTO: LA VITA ESTETICA: AUT-AUT «La vita è una mascherata, tu dici, e questo per te è fonte inesauribile di divertimento, e sei così abile che ancora non è riuscito a nessuno di smascherarti: poiché ogni manifestazione tua è sempre un inganno; solo in questo modo tu puoi respirare e far sì che la gente non si serri intorno a te e ostacoli la tua respirazione. In questo sta la tua attività, nel mantenere il tuo nascondiglio, e questo ti riesce, perché la tua maschera è la più misteriosa di tutte; infatti non sei nulla, e sei sempre soltanto in relazione agli altri, e ciò che tu sei, lo sei per questa relazione. All'amorosa pastorella porgi languido la mano, e nello stesso istante ti mascheri in un pastore sentimentale; un venerando padre della chiesa lo tradisci con un bacio fraterno, eccetera. […] non sai che giungerà l'ora della mezzanotte in cui ognuno dovrà smascherarsi? Credi che si possa sempre scherzare con la vita? Credi che si possa di nascosto sgaiattolar via un po‘ prima della mezzanotte per sfuggirla? Non inorridisci a questo pensiero? Nella vita ho visto persone che tradirono tanto a lungo gli altri che alla fine il loro vero essere non poteva più manifestarsi; ho visto persone, che per tanto tempo giocarono a nascondersi, che alla fine in essi la pazzia ributtantemente mostrava agli altri quei segreti pensieri che essi, fino ad allora, avevano orgogliosamente tenuti celati. O puoi pensare qualche cosa di più terribile di ciò, che alla fine il tuo essere si disfi in una molteplicità, che tu veramente divenga più esseri, divenga una legione come gli infelici esseri demoniaci, e che così tu perda ciò che è più intimo, più sacro nell'uomo, il potere che lega insieme la personalità? In verità non dovresti scherzare su questo argomento, che non solo è molto serio, ma terribile. In ogni uomo vi son degli ostacoli che, in un certo senso, non gli permettono di diventare completamente trasparente a se stesso; la cosa può raggiunger tali proporzioni, egli può, a sua insaputa, venir talmente coinvolto in circostanze di vita che stanno al di fuori di lui, che egli perde la capacità di manifestarsi; ma chi non si può manifestare non può amare, e chi non può amare è l'essere più infelice. E tu, per divertimento, ti eserciti nell'arte di diventare misterioso per tutti».
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TESTO: LA VITA ETICA: AUT-AUT
«Solo quando l'individuo stesso è l'universale, l'etica si lascia tradurre in realtà. E' questo il segreto che sta nella coscienza, è questo il segreto che la vita individuale ha in se stessa, di essere insieme individuale e universale, anche se non spontaneamente come tale, ma secondo la sua possibilità. Chi considera la vita eticamente vede l'universale, chi vive eticamente esprime nella sua vita l'universale, diviene uomo universale, non per il fatto che si spoglia della sua concretezza (perché così si dissolverebbe proprio nel nulla), ma col vestirsi di essa e compenetrarla coll'universale. L'uomo universale infatti, non è un fantasma; ogni uomo è uomo universale; cioè: a ciascuno è stata assegnata la via lungo la quale diventare uomo universale. Chi vive esteticamente è l'uomo casuale, egli crede di essere l'uomo perfetto per il fatto che è unico nel suo genere; chi vive eticamente si adopera per diventare uomo universale. Così quando un uomo è innamorato esteticamente, il casuale assume per lui un'importanza enorme, e per lui è molto importante che nessuno abbia amato come lui, con le sue sfumature; chi vive eticamente si sposa e traduce così in realtà l'universale. Perciò egli non diventa una realizzazione dell'universale umano, esso ha per lui una qualità di più che supera incomparabilmente tutte le qualità estetiche dell'amore. Chi vive eticamente ha se stesso come proprio compito. Il suo io è determinato come spontaneamente casuale, e il compito è quello di amalgamare ciò che è casuale e ciò che è universale. […] Chi vive eticamente ha visto se stesso, conosce se stesso, compenetra colla sua coscienza tutta la sua concretezza, non permette a pensieri indefiniti di scorrazzare in lui, a possibilità tentatrici di distrarlo coi loro incanti; egli non è se stesso come una lettera magica dalla quale ora esce una cosa ora un'altra, secondo il modo in cui la si gira. Egli conosce se stesso.
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«L'espressione «"conosci te stesso"» è stata ripetuta abbastanza spesso, e in essa si è vista la meta di tutti gli sforzi dell'uomo. E‘ giustissimo, ma è ugualmente certo che non può essere la meta se non è anche il principio. L'individuo etico conosce se stesso, ma questa conoscenza non è solo contemplazione (perché allora l'individuo si coglierebbe soltanto secondo la sua necessità), è una riflessione su se stessi, che in sé è azione, e perciò di proposito ho scelto l'espressione scegliere se stessi invece che conoscere se stessi. […] Chi ha scelto e trovato se stesso eticamente, ha determinato se stesso in tutta la sua concretezza. Egli allora ha se stesso come un individuo con determinate doti, determinate passioni, determinate inclinazioni, determinate abitudini, esposto a determinate influenze esteriori, sollecitato ora in un senso ora in un altro. Egli ha se stesso come compito, e tale compito consiste soprattutto nell'ordinare, educare, temperare, infiammare, reprimere, in breve, nel raggiungere nell'anima un equilibrio, un'armonia che è frutto delle virtù personali. Lo scopo della sua attività è qui lui stesso, ma non seguendo il suo arbitrio, bensì come un compito che gli è stato posto, anche se è diventato suo perché l'ha scelto. Ma benché egli stesso sia il proprio scopo, pure questo scopo è un altro: poiché quell'io che è lo scopo, non è un io astratto che va bene dovunque e perciò in nessun luogo, ma un io concreto che sta in una viva reciproca comunione con un determinato ambiente, con certe circostanze, con un determinato ordine di cose. Questo io, che è lo scopo, non è soltanto un io personale, ma un io sociale e civile. Egli dunque ha se stesso come compito per una attività, in virtù della quale egli, come personalità ben definita, interviene nelle circostanze della vita. In questo senso il suo compito non è educare se stesso, ma agire; eppure, mentre agisce, educa se stesso; […]»
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Lo stadio etico La scelta etica appare nella sua contraddittorietà ed insufficienza in quanto l’individuo giunge al riconoscimento di sé, che è, al tempo stesso, riconoscimento di fronte a Dio e, quindi, consapevolezza della propria natura limitata e della propria inadeguatezza. È il senso di una colpa irrimediabile, cioè di un peccato commesso contro Dio e perciò non emendabile con mezzi puramente umani, ciò che rivela a Kierkegaard l’insufficienza della vita etica. L’unica via per riscattarsi dal peccato è il pentimento, cioè il riconoscimento della propria miseria, della propria impotenza, è la scoperta della propria disposizione al male e l’abbandono fiducioso a Dio come una possibile fonte di salvezza (laddove Schopenhauer prospettava come via di fuga dalla sofferenza dell’esistenza l’ascesi, il graduale abbandono dei propri desideri) Allora l’ultima parola della scelta etica sarà il pentimento, ovvero il riconoscimento da parte dell’uomo della propria povertà morale di fronte a Dio. «Il pentimento dell’individuo coinvolge se stesso, la famiglia, il genere umano, finché egli si ritrova in Dio. Solo a questa condizione egli può scegliere se stesso e questa è la sola condizione che egli vuole perché solo così può scegliere se stesso in senso assoluto».
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Lo stadio religioso K. Eredita da Pascal ( ) l’idea della fede come rischio: «il supremo passo della ragione sta nel riconoscere che c’è un’infinità di cose che la sorpassano. E’ ben debole se non giunge a riconoscerlo. Se le cose naturali la trascendono che dire di quelle soprannaturali? Nulla è così conforme alla ragione come questa sconfessione della ragione […] La fede è differente dalla dimostrazione: questa è umana, quella è un dono di Dio» Tra vita etica e vita religiosa non c’è alcuna continuità, anzi tra esse c’è un abisso più profondo che tra l’estetica e l’etica, in quanto la fede è incomprensibile e a-razionale, è paradosso. K. chiarisce questa opposizione in Timore e tremore (1843), raffigurando la vita religiosa nella persona di Abramo. Questi, vissuto fino a 70 anni nel rispetto della legge morale, riceve da Dio l’ordine di uccidere il figlio Isacco e di infrangere così la legge per la quale è vissuto. Il comando divino è, quindi, in contrasto con la legge morale e con l’affetto naturale e non trova alcuna giustificazione innanzi ai familiari stessi di Abramo. L’affermazione del principio religioso sospende interamente l’azione del principio morale. Tra i due principi non c’è possibilità di conciliazione, la loro opposizione è radicale. L’uomo che ha fede, come Abramo, opterà per il principio religioso, seguirà l’ordine divino anche a costo di una rottura con la generalità degli uomini e con la norma morale; la fede, infatti, non è un principio generale: è un rapporto privato tra l’uomo e Dio, un rapporto assoluto con l’Assoluto. La fede è il dominio della solitudine: non si entra in essa «in compagnia», non si odono voci umane e non si scorgono regole; da qui deriva il carattere incerto e rischioso della vita religiosa.
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«Ma cosa ha fatto Abramo
«Ma cosa ha fatto Abramo? Egli non arrivò né troppo presto né troppo tardi. Montò sull’asino e si mise lentamente in cammino. In tutto il tempo egli credette, credette che Dio non esigeva da lui Isacco, anche se egli era disposto a sacrificarlo quando ciò fosse richiesto. Egli credeva in virtù dell’assurdo, poiché qui non ci potrebbe essere questione di calcolo umano, e l’assurdo era che Dio, il quale esigeva questo da lui, un istante dopo avrebbe revocato la richiesta. Abramo salì sul monte, persino nel momento in cui il coltello luccicava, egli credeva – che Dio non avrebbe voluto Isacco. Egli fu sorpreso dall’esito della faccenda, mediante un movimento doppio aveva raggiunto la prima posizione e così egli ricevette Isacco con gioia maggiore della prima volta.[…] La differenza fra l'eroe tragico e Abramo balza agli occhi facilmente. L'eroe tragico rimane ancora dentro la sfera etica. Per lui ogni espressione dell'etica ha il suo telos in un'espressione etica superiore; egli riduce il rapporto etico fra padre e figlio o fra padre e figlia a un sentimento che ha la sua dialettica nel suo rapporto all'idea di moralità. Non vi può essere questione di una sospensione teleologica dell'etica. Diversa è la situazione di Abramo. Egli ha cancellato con la sua azione tutta l'etica ottenendo il suo telos superiore fuori di essa, rispetto al quale ha sospeso questa. Infatti mi piacerebbe sapere come si può mettere l'azione di Abramo in rapporto al generale e se è possibile scoprire un punto di contatto qualsiasi fra ciò che Abramo ha fatto e il generale, se non quella trasgressione che Abramo ha compiuta. Non per salvare il popolo, non per affermare l'idea dello Stato, non per placare l'ira degli dei Abramo lo fa. [...]
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«E allora perché Abramo lo fa
«E allora perché Abramo lo fa? In nome di Dio ed è del tutto identico, in questo caso, in nome proprio. Lo fa in nome di Dio, perché Dio esige questa prova della sua fede; lo fa in nome proprio per poter portare questa prova. L'umiltà è espressa benissimo dall'espressione con cui sempre s'indica questa situazione: è una prova, una tentazione. Una tentazione, ma cosa questo vuol dire? Vuol dire di solito ciò che vuol distogliere l'uomo dal compiere il proprio dovere: ma qui la tentazione è la stessa etica che vuol distogliere l'uomo dal fare la volontà di Dio. Ma cos' è allora il dovere? Il dovere è appunto l'espressione della volontà di Dio. Qui si mostra la necessità di una nuova categoria per comprendere Abramo. Un simile rapporto verso la divinità è sconosciuto al Paganesimo. L'eroe tragico non si presenta con un rapporto privato alla divinità, ma è l'etica la realtà divina: qui perciò il paradosso si dissolve nella mediazione dell'universale. Per Abramo non ci può essere mediazione, e questo si può anche esprimere dicendo: Abramo non può parlare. Appena parlo, io esprimo il generale e se non lo faccio nessuno mi capirebbe. Appena allora Abramo vuole esprimersi in termini generali, deve dire che la sua situazione è una tentazione, poiché egli non ha un'espressione più alta del generale che stia al di sopra del generale ch'egli trasgredisce. [...] Egli esiste come il singolo in contrasto al generale. […] Il paradosso consiste infatti ch’egli si pone, come singolo, in rapporto assoluto all’Assoluto.». (S. Kierkegaard, Timore e tremore)
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Lo stadio religioso Laddove nella concezione hegeliana l’individuo si realizza nella misura in cui si identifica con il generale, nel rapporto diretto con Dio, di cui parla K., il singolo si pone al di sopra del generale: Abramo non è di fronte a Dio in quanto membro di un popolo con cui si identifichi. Se ci chiediamo come può l’uomo sapere che egli è l’eletto, colui al quale Dio ha affidato un compito eccezionale, che giustifica e richiede la sospensione dell’etica, dobbiamo rispondere che c’è un unico segno indiretto: la forza angosciosa con cui questa domanda si pone all’uomo che è stato eletto da Dio. La fede è la certezza angosciosa, l’angoscia che si rende certa di sé e di un nascosto rapporto con Dio. L’uomo può pregare Dio che gli conceda la fede, ma la possibilità di pregare è già, essa stessa, un dono divino. La fede è paradosso e scandalo e Cristo è il segno di questo paradosso: è colui che soffre e muore come uomo, mentre parla e agisce come Dio. L’uomo è posto di fronte al bivio: credere o non credere. Da un lato è lui che deve scegliere, dall’altro ogni sua iniziativa è esclusa perché Dio è tutto e da lui deriva anche la fede. La vita religiosa è nelle maglie di questa contraddizione inesplicabile. Questa contraddizione, d’altra parte, è quella stessa dell’esistenza umana: paradosso, scandalo, contraddizione, dubbio, angoscia, sono le caratteristiche dell’esistenza e nello steso tempo sono i fattori essenziali del Cristianesimo. «Se si dovesse agire soltanto per il certo, non si dovrebbe mai far nulla» (B. Pascal) ovvero non optare, sospendere l’assenso è impossibile perché si vive e ogni atto di vita è sempre una scelta che implica, in quanto tale, l’assunzione di un rischio; ogni azione è un atto di fede
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Le tre possibilità di vita (sintesi)
STADIO CARATTERISTICHE SIMBOLI Estetico (immediatezza) Novità Avventura Non-scelta Dispersione Noia Disperazione Don Giovanni Etico (scelta della scelta) Scelta Fedeltà Normalità Continuità Pentimento Il Marito Religioso (Rapporto assoluto con l’Assoluto) Fede Solitudine Paradosso Scandalo Abramo Tra le tre sfere non esiste continuità dialettica progressiva, non c’è mediazione logica: il passaggio dall’una all’altra si compie con un salto, che è opera della scelta, della conversione del cuore. Con esso il Singolo nega la sfera precedente e, con una iniziativa assoluta che è privilegio della sua libertà, rompe improvvisamente con il passato e s’impegna in un’esistenza nuova. La sua libertà è autotrascendimento, e l’atto che essa compie è imprevedibile e logicamente ingiustificabile.
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L’angoscia K. affronta il tema dell’esistenza come possibilità nelle opere: Il Concetto dell’angoscia e La Malattia mortale. La situazione di radicale incertezza, instabilità e dubbio, in cui l’uomo si trova costituzionalmente per la sua natura problematica è chiarita nei confronti del rapporto dell’uomo con il mondo ne Il Concetto dell’angoscia e nei confronti del rapporto dell’uomo con se stesso ne La Malattia mortale. L’angoscia è la condizione generata nell’uomo dal possibile che lo costituisce, ovvero dalla vertigine della libertà e dalle infinite possibilità negative che incombono sulla vita e sulla personalità dell’uomo. Per questi suoi caratteri l’angoscia è diversa dalla paura che si prova al cospetto di una situazione determinata e ad un pericolo preciso; è, inoltre, un sentimento propriamente umano, che viene provato solo da chi ha spirito («Più profonda è l’angoscia più grande è l’uomo»). Essa è profondamente connessa con il peccato ed è a fondamento dello stesso peccato originale.
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L’angoscia L’innocenza di Adamo è ignoranza (del bene e del male); ma è ignoranza che contiene un elemento che determinerà la caduta. L’angoscia si manifesta qui come vertigine di fronte alla possibilità di rompere il divieto e di peccare; l’angoscia precede la scelta. «Il divieto divino rende inquieto Adamo, perché sveglia in lui la possibilità della libertà. Ciò che si offriva all’innocenza come il niente dell’angoscia è ora entrato in lui, e qui ancora resta un niente: l’angosciante possibilità di potere. Quanto a ciò che può, egli non ne ha nessuna idea, altrimenti sarebbe presupposto ciò che ne segue, cioè la differenza tra il bene e il male». Poiché il Singolo è libertà e possibilità, esposto ad ogni istante al rischio della scelta, di fronte all’alternativa di essere solo con se stesso o solo con Dio, l’angoscia è la “possibilità della libertà”, la “vertigine della libertà”, la “infinità autonomia della possibilità”, il “senso di disorientamento totale”, un’“indefinita inquietudine”.
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L’angoscia L’angoscia viene definita da K. Anche come «sentimento del possibile»; essa è completa responsabilità del proprio destino, che si manifesta con l’aprirsi di infinite possibilità, tra cui anche quella del peccato. Ogni scelta, sul piano del singolo, è irreversibile (non si iscrive in un ordine razionale come voleva Hegel) e può determinare il suo destino nell’eternità. La possibilità di peccare è essenziale perché l’uomo diventi spirito, coscienza, ma al tempo stesso espone all’eventualità della colpa e della dannazione. Per questo l’uomo è un essere paradossale: se non potesse peccare non sarebbe un «sé», ma in quanto può peccare è preda dell’angoscia. K. afferma che «L’angoscia è la vertigine della libertà». Adamo diventa un individuo nel momento stesso in cui sceglie e lo stesso avviene per ogni uomo. Senza la scelta, nessuno si distinguerebbe dalla specie, sarebbe indifferenziato, come avviene per gli animali o per gli angeli. «Di solito si dice che la possibilità è leggera perché s’intende come possibilità di felicità, di fortuna, ecc. Ma questa non è affatto la possibilità; questa è un’invenzione fallace che gli uomini nella loro corruzione imbellettano per avere un pretesto di lamentarsi della vita e della provvidenza e per avere un’occasione di farsi importanti ai propri occhi. No, nella possibilità tutto è egualmente possibile e chi fu realmente educato mediante la possibilità ha compreso tanto il lato terribile quanto quello piacevole di essa. Quando si esce dalla sua scuola si sa meglio di come un bambino sa le sue lettere che dalla vita non si può pretendere nulla e che il lato terribile, la perdizione, l’annientamento abitano a porta a porta con ciascuno di noi; e quando si è appreso a fondo che ciascuna delle angosce che noi temiamo può piombare su di noi da un istante all’altro, siamo costretti a dare alla realtà un’altra spiegazione: siamo costretti a lodare la realtà quando anche essa gravi su di noi con mano pesante e a ricordarci che essa è di gran lunga più facile che non la possibilità».
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Angoscia, possibilità e futuro
Il possibile corrisponde all’avvenire: «Per la libertà, il possibile è l’avvenire, per il tempo l’avvenire è il possibile. Così all’uno come all’altro, nella vita individuale corrisponde l’angoscia». L’angoscia è legata a ciò che non è, ma può essere, al nulla che è possibile o alla possibilità nullificante. Essa è strettamente legata alla condizione umana. L’animale, guidato dall’istinto agisce secondo necessità, l’angelo, come puro spirito, non è sottoposto agli sviamenti del mondo materiale, mentre l’uomo dispone di una libertà finita, ovvero condizionata dalle circostanze in cui si trova ad operare, senza sapere cosa accadrà. L’angoscia è la più gravosa di tutte le categorie in quanto «Nel possibile, tutto è possibile». Per questo principio, ogni possibilità favorevole all’uomo è annientata dall’infinito numero delle possibilità sfavorevoli. E’ l’infinità e l’indeterminatezza delle possibilità a rendere insuperabile l’angoscia, rendendola la condizione fondamentale dell’uomo nel mondo.
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La disperazione Se l’angoscia è la condizione in cui l’uomo è posto dal possibile che si riferisce al mondo, la disperazione è la condizione in cui l’uomo è posto dal possibile che si riferisce alla sua stessa interiorità, al suo io. Essa è tematizzata in particolare nell’opera La malattia mortale. La disperazione è strettamente legata alla natura dell’io; infatti l’io può volere, come può non volere, esser se stesso. Se vuole essere se stesso, poiché è finito, quindi insufficiente a se stesso, non giungerà mai all’equilibrio e al riposo. Se non vuole essere se stesso e cerca di rompere il proprio rapporto con sé, che gli è costitutivo, urta anche qui con un’impossibilità fondamentale. La disperazione è malattia mortale, non perché conduca alla morte dell’io, ma perché è il vivere la morte dell’io: è “un eterno morire senza tuttavia morire”, è “un’autodistruzione impotente”. Essa è il tentativo impossibile di negare la possibilità dell’io o rendendolo autosufficiente o distruggendolo nella sua natura concreta. Le due forme della disperazione si richiamano l’un l’altra e si identificano: disperare di sé nel senso di volersi disfare di sé significa voler essere l’io che non si è veramente; voler essere se stesso ad ogni costo significa ancora voler essere l’io che non si è veramente, un io autosufficiente e compiuto.
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«La dottrina del peccato , secondo la quale tu ed io siamo peccatori, dottrina la quale assolutamente spezza «la massa», stabilisce una differenza qualitativa tra Dio e l’uomo così profonda come non è mai stata stabilita […] Il peccato è l’unico predicato che si dà all’uomo che in nessun modo, né via negationis né via eminentiae, si può dare a Dio. Voler dire di Dio (nello stesso senso in cui si dice che Egli non è finito, cioè via negationis, ch’ è infinito) che Egli non è un peccatore sarebbe una bestemmia. Come peccatore l’uomo è separato da Dio dalla profondità più abissale della qualità. E naturalmente Dio è separato dall’uomo dalla stessa profondità abissale della qualità, quando rimette i peccati. […] Lo scandalo, dunque, si rapporta al singolo. E qui comincia il Cristianesimo, facendo di ogni uomo un singolo, un singolo peccatore […] Allora esso (il cristianesimo) dice ad ogni singolo: «Tu devi credere», cioè: «Deciso scandalizzarti o credere». Non una parola di più; non c’è altro da aggiungere. «Ora io ho parlato», dice Dio nel cielo, «nell’eternità ne riparleremo. Ne frattempo tu puoi fare quello che vuoi; ma verrà il giudizio». […] Dipende dal fatto che il concetto di giudizio corrisponde al singolo, perché non si può giudicare en masse; si può ammazzare la gente en masse, lusingarla en masse, innaffiarla en masse, insomma, trattare in diversi modi la gente come bestiame; ma non giudicare gli uomini come bestiame; per quanto sia grande il numero di coloro che si giudicano, se si deve giudicare con serietà e verità, si giudica ogni Singolo. […] Dio e uomo sono due qualità fra le quali esiste una differenza infinita. Ogni dottrina che trascura questa differenza è, umanamente parlando, pazza e, nel senso divino, bestemmia». (S. Kierkegaard, La malattia mortale)
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La disperazione Se ogni uomo, lo sappia o meno, è malato di disperazione l’unica terapia efficacie contro di essa è la fede, ossia quella condizione in cui l’uomo, pur orientandosi verso se stesso e volendo esser se stesso, non si illude sulla sua autosufficienza, ma riconosce la sua dipendenza da Colui che lo ha posto e che, solo, può garantirne la realizzazione. La fede sostituisce alla disperazione la speranza in Dio. «Così la disperazione finita (quella che dipende dalla perdita di beni mondani) è un rinchiudersi nel finito, la disperazione assoluta un dischiudersi all’infinito» (Aut-Aut). Come opposto della fede, la disperazione è il peccato e la fede è l’eliminazione della disperazione, è la condizione in cui l’uomo, pur orientandosi verso se stesso e volendo se stesso, non si illude della propria autosufficienza, ma riconosce la sua dipendenza da Dio. La fede sostituisce alla disperazione la speranza e la fiducia in Dio, ma porta pure l’uomo al di là della ragione e di ogni possibilità di comprensione: essa è assurdità, paradosso e scandalo. Che la realtà dell’uomo sia quella di un individuo isolato di fronte a Dio questo è lo scandalo fondamentale del cristianesimo che nessuna speculazione può togliere o diminuire.
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«La fede è: che l’io essendo se stesso, e volendo essere se stesso, si fonda trasparente in Dio. Ma molto spesso è sfuggito agli uomini che il contrario del peccato non è affatto la virtù. Questa sarebbe un’opinione in gran parte pagana, che si accontenta di una misura meramente umana e proprio non sa che cosa è peccato, non sa che ogni peccato è davanti a Dio. No, il contrario del peccato è la fede, come si dice nella Lettera ai romani: «Tutto ciò che non è dalla fede è peccato» (Rom. , 14, 23). Questa è una delle determinazioni più decisive per tutto il Cristianesimo: che il contrario del peccato non è la virtù, ma la fede . […] Ed eccoci ora col cristianesimo! Il cristianesimo insegna che questo singolo uomo, e quindi ogni singolo uomo, qualunque sia la sua condizione: uomo, donna, ragazza di servizio, ministro, commerciante, studente ecc.; che questo singolo uomo esiste davanti a Dio! Questo singolo uomo che forse sarebbe orgoglioso di aver parlato una volta in vita sua col re, quest'uomo che si vanta tanto di vivere in rapporti cordiali con questo e quell'altro, ecco che quest'uomo esiste davanti a Dio, può parlare con Dio in qualunque momento, sicuro di essere ascoltato: insomma, quest'uomo è invitato a vivere nei rapporti più familiari con Dio! Inoltre, per amor di quest'uomo, anche di quest'uomo, Dio viene nel mondo, nasce, soffre, muore; e questo Dio sofferente prega e quasi supplica l'uomo di accettare l'aiuto che gli viene offerto! In verità, se c'è qualcosa da far perdere il cervello è certamente questo! Chiunque non abbia abbastanza coraggio umile per osare di credervi, si scandalizzerà. Ma perché si scandalizzerà? Perché questo per lui è troppo difficile, perché non può capirlo, non può ritrovare la sua disinvoltura di fronte a ciò; e perciò lo deve eliminare, annientare, prenderlo per una sciocchezza, per un controsenso perché è come se dovesse soffocarlo. Infatti, cos'è lo scandalo? Lo scandalo è ammirazione infelice. Esso è come un'invidia (ammirazione nascosta) che si svolge contro l'uomo stesso, in un senso più stretto: è la peggiore invidia contro se stessi. La grettezza dell'uomo naturale non può invidiare a se stesso il dono straordinario che Dio gli ha voluto concedere; perciò si scandalizza.» (S. Kierkegaard, La malattia mortale) La disperazione
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L’attimo e la storia: l’eterno nel tempo
La storia per K. Non è una teofania, una rivelazione o autorealizzazione dell’Assoluto, come pensava Hegel; il rapporto tra l’uomo e Dio non avviene nella storia, nella continuità del divenire umano, ma nell’attimo, inteso come subitanea inserzione della verità divina nell’uomo. L’uomo, per conto suo, vive nella non-verità; per questo il Cristianesimo si contrappone al socratismo, secondo il quale la verità abita sin dal principio nel discepolo ed il maestro è colui che maieuticamente la fa emergere. Dal punto di vista cristiano, invece, l’uomo è la non verità e si tratta di ricreare l’uomo, farlo rinascere, per renderlo adatto alla verità che gli viene da fuori. Il maestro è qui un salvatore che determina la nascita di un uomo nuovo, capace di accogliere nell’attimo la verità di Dio. L’attimo è l’intersezione paradossale dell’eternità nel tempo e realizza il paradosso del Cristianesimo , che è la venuta di Dio nel mondo. Solo in questo senso il Cristianesimo è un fatto storico ed è un fatto storico che fa appello alla fede e che non ha testimoni privilegiati: la divinità di Cristo non era più evidente per il testimone immediato, per il contemporaneo di Gesù, di quanto non lo sia per qualsiasi cristiano che abbia ricevuto la fede. La fede è, infatti, una condizione che deriva direttamente da Dio.
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