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PROMESSI SPOSI CAPITOLO II.

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Presentazione sul tema: "PROMESSI SPOSI CAPITOLO II."— Transcript della presentazione:

1 PROMESSI SPOSI CAPITOLO II

2 Personaggi: Luoghi: Tempo: Temi: Trama:
Renzo, don Abbondio, Perpetua, Lucia, Agnese, Bettina Il paese di Renzo e Lucia 8 novembre 1628, mattina La giustizia, Nobiltà e potere, Chiesa e religione Don Abbondio trascorre una notte angosciosa. Renzo va dal curato per prendere accordi, ma don Abbondio lo convince con pretesti a rimandare le nozze. Renzo parla con Perpetua, che si lascia sfuggire che dietro la cosa c'è un "prepotente". Renzo costringe il curato a fare il nome di don Rodrigo, quindi si reca a casa di Lucia e Agnese. Breve colloquio fra i due promessi.

3 La notte angosciosa di don Abbondio
Diversamente dal principe di Condé, che prima della battaglia di Rocroi trascorse una notte di placido sonno, il povero don Abbondione passa una piena di pensieri e tormenti, nell'incertezza di cosa fare il giorno dopo in cui è fissato il matrimonio di Renzo e Lucia. Il curato esamina alcune possibilità e, scartata subito quella di celebrare le nozze, esclude anche di dire la verità a Renzo, come un'improbabile fuga dal paese. Alla fine decide di guadagnare tempo e di rimandare le nozze con qualche pretesto, confidando nel fatto che il 12 novembre inizierà il "tempo proibito" in cui non si possono celebrare matrimoni per due mesi, che saranno per il curato un periodo di respiro. Don Abbondio si rende conto che Renzo è innamorato di Lucia, ma il curato è troppo timoroso di rimetterci la pelle, pensando alle minacce dei bravi. Verso il mattino riesce a prendere sonno, anche se è assediato da terribili incubi popolati dai bravi, da don Rodrigo, da fughe e inseguimenti.

4 Renzo si reca da don Abbondio
Al mattino Renzo si reca a casa di don Abbondio, per prendere accordi circa l'ora in cui lui e Lucia dovranno trovarsi in chiesa. Egli è un giovane di vent'anni, rimasto orfano dall'adolescenza, che ora esercita la professione di filatore di seta: nonostante la stagnazione del mercato, Renzo trova tuttavia di che vivere grazie alla sua abilità e anche alla scarsità di operai, emigrati in gran numero negli Stati vicini in cerca di lavoro. Il giovane possiede anche un piccolo podere che lavora quando non è impegnato come filatore, per cui la sua condizione economica si può dire discretamente agiata (specie perché egli amministra le sue sostanze con giudizio, da quando si è fidanzato con Lucia). Si presenta dal curato vestito di tutto punto, con un cappello ornato di piume variopinte e il manico del pugnale che spunta dal taschino dei pantaloni, che gli conferisce un'aria un po' spavalda che a quei tempi era comune anche agli uomini più pacifici. Il curato accoglie Renzo con fare un po' reticente, il che insospettisce subito Renzo.

5 Il curato convince Renzo a rimandare le nozze
Renzo chiede a don Abbondio quando lui e Lucia dovranno trovarsi in chiesa, ma il curato finge di cadere dalle nuvole e di non sapere di cosa parla: il giovane gli ricorda delle nozze e don Abbondio ribatte che non può celebrarle, accampando prima motivi di salute e poi impedimenti burocratici che sarebbero di ostacolo al matrimonio. Il curato spiega che avrebbe dovuto eseguire più accurate ricerche per stabilire che nulla vieta ai due promessi di sposarsi, mentre per il suo buon cuore ha affrettato le pratiche: accenna ai superiori cui deve rendere conto e, per confondere le idee a Renzo, inizia a parlare in latino citando il diritto canonico. Il giovane, irritato, gli chiede di parlare in modo comprensibile e il curato ribadisce che si tratta di rimandare le nozze di qualche tempo, proponendo a Renzo una dilazione di quindici giorni. La reazione del giovane è alquanto stizzita, al che don Abbondio gli chiede di pazientare almeno una settimana: invita Renzo a dire alla gente in paese che è stato un suo sbaglio e a gettare la colpa di tutto su di lui, cosa che appaga il giovane solo in parte (Renzo non è molto convinto delle ragioni esposte dal curato). Alla fine Renzo se ne va, ribadendo al curato che aspetterà una settimana e non un giorno di più per sposarsi con Lucia.

6 Renzo parla con Perpetua
Renzo si accinge a tornare di malavoglia a casa di Lucia, mentre ripensa al colloquio appena avuto col curato e si convince sempre di più che le ragioni accampate da don Abbondio suonano strane e incomprensibili. Sta quasi per tornare indietro a pretendere spiegazioni, quando vede Perpetua che sta per entrare nella porticina dell'orto, quindi la chiama e le si avvicina. Il giovane inizia a parlare con la donna, cui chiede conto del comportamento del suo padrone, e Perpetua accenna subito ai segreti del curato che ella, afferma, non può sapere. Renzo capisce che c'è qualcosa sotto, perciò incalza la donna con altre domande, finché la domestica si lascia sfuggire che la colpa di tutto non è di don Abbondio ma di un prepotente, per cui Renzo capisce che non si tratta certamente dei superiori del curato. Perpetua rifiuta di rispondere ad altre domande ed entra nell'orto, quindi Renzo finge di andarsene e poi, senza farsi vedere da lei, torna indietro ed entra nuovamente nella casa del curato, andando con fare alterato nel salotto dove don Abbondio è seduto.

7 Renzo costringe il curato a parlare
Renzo chiede subito a un esterrefatto don Abbondio chi è il prepotente che si oppone alle sue nozze: il curato impallidisce e con un balzo tenta di guadagnare la porta, ma il giovane lo precede e chiude l'uscio, mettendosi la chiave in tasca. In seguito Renzo chiede nuovamente al curato il nome di chi lo ha minacciato, mettendo forse inavvertitamente la mano sul manico del pugnale, il che riempie di paura il sacerdote che, non senza esitazioni, fa finalmente il nome di don Rodrigo. La reazione di Renzo è furibonda, ma a questo punto don Abbondio descrive il terribile incontro coi bravi e sfoga la collera che ha in corpo, accusando anche il giovane di avergli esercitato una forma di violenza nella sua casa. Renzo si scusa debolmente e riapre la porta, mentre il curato lo implora di mantenere il segreto per il bene di tutti: gli chiede di giurare, ma Renzo esce e se ne va senza promettere nulla, per cui don Abbondio chiama a gran voce Perpetua. La domestica accorre dall'orto con un cavolo sotto il braccio e segue un breve scambio di battute col padrone che l'accusa di aver parlato e lei che nega di averlo fatto; alla fine il curato si mette a letto con la febbre e ordina alla donna di sprangare l'uscio e di non aprire a nessuno, rispondendo dalla finestra a chi eventualmente chiedesse di lui.

8 Renzo medita di assassinare don Rodrigo
Renzo torna infuriato a casa di Agnese e Lucia, sconvolto per l'accaduto e meditando vendetta contro il suo nemico don Rodrigo: egli è un giovane pacifico che non commetterebbe mai violenze, ma in questo momento fantastica di uccidere il signorotto e immagina di correre al suo palazzotto per afferrarlo per il collo. Poi pensa che non potrebbe mai penetrare in quell'edificio, dove il signore è circondato dai suoi bravi, quindi progetta di tendergli un'imboscata e di sparargli col suo schioppo, per poi correre al confine e mettersi in salvo riparando in un altro Stato. Ma Lucia? Il pensiero della sua promessa sposa tronca questi pensieri sanguinosi e lo induce a pensare ai genitori, a Dio, alla Madonna, rallegrandosi di aver solo pensato un'azione così scellerata. Tuttavia il giovane è preoccupato all'idea di dover informare la ragazza dell'accaduto e sospetta che Lucia lo abbia tenuto all'oscuro di qualche cosa, il che lo riempie di dubbi e di sospetti. Renzo passa davanti alla propria casa e raggiunge quella di Lucia, che si trova in fondo al paese; entra nel cortile, cinto da un piccolo muro, sentendo un vociare femminile che proviene dalle stanze del primo piano e immagina che si tratti delle donne venute ad aiutare Lucia a prepararsi per le nozze.

9 Renzo informa Lucia dell'accaduto
Una ragazzetta di nome Bettina si fa incontro a Renzo nel cortile, chiamandolo a gran voce, ma il giovane le impone di fare silenzio e le chiede di salire a chiamare Lucia, facendola venire al pian terreno senza che nessuno se ne accorga. La fanciulla sale subito e trova Lucia che sta ultimando di vestirsi: la giovane ha i lunghi capelli bruni raccolti in trecce, con spilli d'argento infilati che formano una specie di aureola sopra la testa (secondo la moda delle contadine milanesi); al collo porta una collana di pietre rosse e bottoni dorati, indossa un busto di broccato a fiori, una gonnella corta di seta di scarsa qualità, calze rosse e due pianelle di seta. Bettina le si accosta e le dice qualcosa all'orecchio, quindi Lucia si congeda dalle donne e scende al pian terreno: qui trova Renzo, che le dice subito cos'è successo e fa il nome di don Rodrigo, al che la giovane è sconvolta dal rossore. Renzo la accusa di essere a conoscenza della cosa, ma Lucia lo prega di pazientare e corre di sopra a licenziare le donne, mentre intanto la madre Agnese è scesa e si è unita a Renzo. Lucia dice alle donne che il curato è ammalato e per questo il matrimonio è rimandato, quindi le sue compagne vanno via e si spargono per il paese, raccontando a tutti l'accaduto. Alcune vanno alla casa di don Abbondio per verificare se sia davvero malato e qui trovano Perpetua, la quale si affaccia dalla finestra e dice loro che il curato ha un febbrone. Le donne, alquanto deluse per non poter spettegolare oltre, si ritirano nelle proprie case.

10 Temi principali e collegamenti
Il capitolo si apre con il paragone ironico tra don Abbondio e il principe di Condé, che suona beffardo non solo per l'accostamento tra il nobile condottiero e il povero curato, ma anche perché mette a confronto la celebre battaglia di Rocroi con i guai del religioso, che deve trovare un pretesto per sottrarsi al suo dovere. Il vero protagonista dell'episodio è Renzo, che entra in scena nel romanzo e dimostra subito il suo carattere: giovane impulsivo e alquanto incline alla collera, intuisce che il curato lo sta imbrogliando e poi fa abilmente leva sull'ingenuità di Perpetua per farla parlare; nel secondo confronto con don Abbondio arriva di fatto a minacciarlo, cosa di cui in seguito si scusa (ottiene comunque lo scopo di estorcere al curato una confessione). In seguito progetta di uccidere don Rodrigo, benché poi abbandoni subito questi pensieri sanguinosi e dimostri di non essere tipo da abbandonarsi alla violenza (anche se nel cap. VII indurrà Lucia a tentare il "matrimonio a sorpresa" facendole credere che, in caso contrario, commetterà una pazzia; e il pensiero di uccidere il signorotto lo coglierà anche verso la fine del romanzo, nel cap. XXXV). Lucia è introdotta verso la fine del capitolo e di lei c'è la celebre descrizione nel suo abbigliamento da sposa, che in seguito ha influenzato l'iconografia di questo personaggio: viene subito presentata come una giovane molto timida, riservata, dotata di una "modesta bellezza" contadina (non tale, dunque, da giustificare una passione morbosa da parte di don Rodrigo). La giovane fa poi capire a Renzo che è a conoscenza dei motivi che hanno spinto il signorotto a impedire le nozze, per cui l'episodio si chiude con un'atmosfera di attesa per le rivelazioni che Lucia farà all'inizio del capitolo seguente.

11 Temi principali e collegamenti
Le "gride" erano i provvedimenti di legge che il governo del Ducato di Milano emanava nel XVII secolo e venivano chiamate così per l'uso da parte dei banditori di gridarle, appunto, sulla pubblica piazza (gran parte della popolazione era infatti analfabeta, anche se una copia di queste leggi veniva affissa nelle strade ed esibita all'occorrenza). L'autore sottolinea nel cap. I l'assoluta inutilità di questi provvedimenti, che "diluviavano" (erano cioè numerosissimi) e minacciavano pene e castighi assai severi, che naturalmente non venivano mai applicati a causa dell'inefficienza e della corruzione del sistema giudiziario: ne è una prova la sfilza interminabile delle gride che Manzoni cita nel cap. iniziale del romanzo, per dimostrare che i bravi prosperavano ed erano impuniti, nonostante fossero minacciati di essere incarcerati, posti alla tortura o peggio ad arbitrio del giudice (addirittura si proibiva a chiunque di portare il "ciuffo" come segno distintivo dell'essere un bravo e si minacciavano pene ai barbieri che tagliassero i capelli in quel modo, come citato dall'autore nel cap. III). Fu proprio la lettura di una grida, quella datata 15 ottobre 1627 in cui si contemplava il reato di minacce a un curato per non celebrare un matrimonio, che diede a Manzoni l'idea per la trama del romanzo: questa legge compare nell'episodio di Renzo allo studio del dottor Azzecca-garbugli (cap. III), in cui l'avvocato scambia il giovane per un bravo e gli mostra la grida per fargli paura, per fargli credere che è in un brutto guaio e gli servirà il suo aiuto per uscirne. Il dottore dice che la grida è "fresca", cioè recente, e quindi di "quelle che fanno più paura", in quanto il gran numero delle leggi toglieva a queste l'efficacia; spiega a Renzo che lui saprà imbrogliare le carte e farlo assolvere dall'accusa, invocando la protezione di personaggi potenti e minacciando le persone coinvolte, in quanto "a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, nessuno è innocente" (dunque la giustizia non è certo assicurata da questi provvedimenti che, oltre ad essere inefficaci, sono passibili di controverse interpretazioni).

12 La lingua come strumento del potere
Spesso nei Promessi sposi i personaggi potenti usano la lingua come strumento per confondere le idee ai popolani, dissimulando le loro vere intenzioni o non facendo capire quanto in realtà stanno dicendo, sfruttando l'ignoranza delle persone più umili: ciò è parte di quella questione linguistica che sta tanto a cuore al Manzoni, in quanto le parole possono essere mezzo per diffondere le idee e preservare la libertà, ma anche per esercitare soprusi ai danni dei più deboli (ovviamente la cosa ha anche risvolti politici). Ne è un chiaro esempio don Abbondio, che durante il primo colloquio con Renzo nel cap. II si mette a parlare latino per metterlo in soggezione e non fargli capire cosa sta dicendo: la reazione del giovane è alquanto stizzita ("Si piglia gioco di me?... Che vuol ch'io faccia del suo latinorum?") e si comprende anche alla luce del fatto che Renzo è semi-analfabeta, in grado di leggere a fatica ma non di scrivere e ciò è un elemento di debolezza che lo espone al rischio di essere "messo nel sacco" da chi ha un maggior grado di istruzione. Anche Ferrer, del resto, mescola abilmente italiano e spagnolo nel corso del salvataggio del vicario di Provvisione (XIII), per indurre il popolo a credere che lo sta portando in carcere, mentre è evidente che il funzionario è innocente e non subirà alcun processo ("Lo condurrò io in prigione: sarà gastigato... si es culpable"), dunque la sua doppia parola è fonte di inganno e di disonestà verso i rivoltosi, sia pure per una buona causa. Manzoni sottolinea a più riprese che chi è istruito e possiede la parola scritta è titolare di un potere discrezionale verso chi è meno dotto, che spesso diventa occasione di esercitare soprusi e prepotenze, ed è quasi sempre Renzo a esemplificare questa condizione, come si vede nel colloquio con l'Azzecca-garbugli (III) in cui l'avvocato gli legge con fare pomposo la grida che commina pene severe a chi minaccia un curato, mentre sarà poi evidente che queste parole non hanno molto valore e garantiscono l'impunità a chi gode di agganci politici e connivenze (il dottore dice che "a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente"). Ciò causerà la profonda sfiducia di Renzo verso le gride e le leggi scritte in generale, come è evidente quando l'ostedella Luna Piena (XIV) gli chiede le sue generalità proprio ai sensi di una norma di legge, che impone al titolare di una locanda di registrare il nome di chi si ferma a dormire: il giovane rifiuta e in seguito afferma che "...tutti quelli che regolano il mondo, voglian fare entrar per tutto carta, penna e calamaio! Sempre la penna per aria! Grande smania che hanno que’ signori d’adoprar la penna!", mentre poco dopo aggiunge che i signori praticano "un’altra malizia; che, quando vogliono imbrogliare un povero figliuolo, che non abbia studiato... e s’accorgono che comincia a capir l’imbroglio, taffete, buttan dentro nel discorso qualche parola in latino, per fargli perdere il filo, per confondergli la testa". Il povero Renzo pagherà le conseguenze del suo essere quasi illetterato anche nel Bergamasco, quando non potrà diventare il factotum della fabbrica in cui lavora "per quella benedetta disgrazia di non saper tener la penna in mano", dunque rappresenta il personaggio che a causa della sua umile condizione e della sua ignoranza è vittima di soprusi e si trova escluso da un possibile avanzamento sociale ed economico, cui potrebbe legittimamente aspirare grazie alle sue qualità di ottimo lavoratore. Queste considerazioni spiegano perché Manzoni, dopo l'unità nazionale del 1861, pensava che la diffusione di una lingua unitaria fosse necessaria per cementare l'unità politica dello Stato da poco creatosi, come del resto affermò nella Relazioneprodotta dalla Commissione parlamentare da lui presieduta che si occupò della questione: non a caso alla base di tutto era l'allargamento progressivo dell'istruzione e l'insegnamento dell'italiano come lingua "del popolo", il che avrebbe consentito (senza per questo attribuire a Manzoni delle velleità liberal-democratiche che non ebbe mai) di trasformare la lingua in strumento di giustizia ed eguaglianza sociale, e non più un mezzo con cui i potenti impongono la loro volontà ai più deboli approfittando della loro scarsa cultura.


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