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La ragione in una strada senza uscita
I Sofisti La ragione in una strada senza uscita
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Il contesto storico I sofisti sono un gruppo di filosofi assimilabili per dottrina, atteggiamento complessivo di fronte alla realtà e contesto storico-geografico in cui agiscono. La fioritura del movimento sofistico è da collocarsi nell’Atene del V secolo, appena uscita vittoriosa dalle guerre contro i Persiani e governata, non senza discussioni, ripensamenti e conflitti interni, da un regime democratico, il cui maggior esponente è Pericle ( a.C.).
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Il termine “sofista” La parola deriva dal greco “sophistés” che significa “sapiente”. Quindi possiede una connotazione decisamente positiva. Tuttavia, anche a causa delle reazioni dei filosofi successivi (soprattutto Platone e Aristotele), il termine assunse un significato spregiativo. Infatti nei sofisti vennero indicati coloro che utilizzavano il sapere per il proprio vantaggio personale, adattandolo alle esigenze di coloro da cui venivano pagati, con una sostanziale indifferenza per la verità delle cose, cui associavano un’elevata competenza retorica, in grado di elaborare discorsi convincenti, belli, apparentemente giusti quanto capziosi e sottilmente ingannevoli.
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Una rivalutazione? La critica filosofica si è da tempo emancipata dai giudizi di condanna espressi da Platone e Aristotele (e da molti contemporanei), cercando di valutare con più equilibrio la loro filosofia. Di essa oggi viene rivalutata la componente “illuministica” particolarmente affine ai temi della riflessione moderna.
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Illuminismo 1 A che cosa si allude con la locuzione “componente illuministica”? Si allude alla consonanza della riflessione dei sofisti con l’atteggiamento di un movimento filosofico nato nel secolo XVIII che, insistendo sul primato assoluto della ragione umana, le affidava il compito di emancipare l’uomo da tutte le credenze religiose, da tutte le tradizioni civili, sociali e culturali provenienti da un passato considerato preda della superstizione e dell’ignoranza. Il tutto per costruire un mondo umano e politico più a misura d’uomo, finalmente capace di riconoscere l’autonomia di ogni individuo, l’uguaglianza universale tra gli uomini e la possibilità di una grande impresa associata dell’umanità nel progresso tecnico finalizzato al dominio su tutte le forze della natura. Di tale movimento bisogna sottolineare certo gli aspetti positivi della promozione della critica razionale delle idee tradizionali e dei luoghi comuni, cosa che peraltro è una caratteristica della filosofia di tutti i tempi.
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Illuminismo 2 Nondimeno non si può tacere la sua componente prometeica: cioè l’atteggiamento di orgoglio e superbia verso tutte le produzioni delle diverse tradizioni culturali e civili che non avessero con loro una sufficiente affinità. A ciò si aggiunga l’ambizione di dominio nei confronti della natura, considerata come il luogo di libera azione della volontà umana, non trattenuta da una verità superiore, non limitata da nulla se non da se stessa e dai propri scopi, ritenuti di per sé razionali. Questo generale atteggiamento di superbia, tramutatosi in azione politica, generò il Terrore durante la Rivoluzione francese e l’arrogante imperialismo napoleonico che, tra le altre cose, senza liberare nessuno dalla tirannia dell’autorità, depredò l’Italia di innumerevoli tesori d’arte e di civiltà.
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Illuminismo sofistico
L’illuminismo dei sofisti, influenzò molti personaggi della politica ateniese, anche se non determinò un grande rivolgimento sociale, civile e, diremmo, epocale, come la Rivoluzione francese della fine del XVIII sec. L’analogia con il periodo dei philosophes si deve pertanto prudentemente limitare 1) all’ esaltazione dell’autonomia della ragione umana; 2) alla critica serrata delle credenze religiose e delle filosofie che ambivano a giungere ad un concetto univoco di verità; 3) all’idea, presente solo in alcuni filosofi, di un’uguaglianza universale degli uomini fondata sul possesso del logos, in grado di superare le differenze culturali tra le varie civiltà e le differenze sociali all’interno di ciascuna di esse.
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Sofisti in politica I sofisti in politica usufruirono dei vantaggi del clima aperto alla discussione offerto dall’ordinamento democratico. Essi quindi in gran parte appoggiarono scelte politiche democratiche, quando i loro interessi non furono orientati più direttamente da una vicinanza a uomini politici di diversa estrazione. In tal caso i sofisti, (per esempio Callicle) non ebbero remore a stabilire che la legge di natura alla quale far riferimento nell’organizzazione dello Stato doveva identificarsi con il “diritto del più forte” e che le leggi civili non erano altro che stratagemmi inventati dai deboli per salvaguardarsi dai potenti. In ogni caso essi furono oggetto di una severa accusa: l’aver favorito la decadenza di Atene con la loro educazione amorale, che avrebbe creato le condizioni per il successo di demagoghi senza scrupoli, ammaliatori del popolo, senza una precisa linea politica e senza valori di riferimento (sul modello, per esempio, di Alcibiade).
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Caratteristiche teoretiche e culturali del movimento sofistico
Al di là delle diversità tra filosofo e filosofo, possiamo individuare ulteriori caratteristiche comuni alla speculazione dei sofisti: Lo spostamento dell’asse della riflessione filosofica dalla PHYSIS all’UOMO. Consapevoli delle diverse e inconciliabili soluzioni che i fisici avevano proposto al problema fisico-cosmologico, i sofisti lo abbandonarono in quanto privo di reale interesse, per dedicarsi alle questioni ANTROPOLOGICHE, ETICHE e POLITICHE Coerentemente con la loro critica del sapere e delle usanze tradizionali, ritennero che la cultura potesse essere appannaggio di chiunque avesse ascoltato con seria applicazione i loro discorsi. Ebbero dunque a cuore il problema educativo, dedicandosi all’insegnamento e alla ricerca di allievi ai quali comunicare la loro prospettiva filosofica. L’insegnamento era per loro una «professione» nel senso che essi richiedevano un compenso ai loro allievi, con il quale potevano condurre la loro vita itinerante di città in città, al servizio di chiunque avesse voluto ascoltarli. Anche tale abitudine fu aspramente stigmatizzata da Platone e Aristotele, che li accusarono, non senza una qualche ragione, di offrire al committente di turno la verità che egli voleva sentirsi dire e gli strumenti tecnici migliori per difenderla.
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Il metodo argomentativo dei sofisti
I sofisti sono considerati gli inventori delle tecniche di persuasione, cioè di un metodo atto a rendere ogni discorso convincente e affascinante ossia di un’arte della retorica. Essa anzitutto si qualifica come un’eristica.
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L’eristica Eris=contesa. I sofisti prediligevano la discussione con l’avversario. Cercavano il contrasto per far prevalere la propria tesi contro una tesi contraria. Il loro atteggiamento era dunque dialettico (cioè fondato sul confronto di argomenti contrari) e polemico. La finalità particolare e occasionale di far prevalere una tesi sull’altra indicava che l’atteggiamento dei sofisti non ambiva alla ricerca di una verità comune, ma semplicemente, grazie all’uso di specifiche tecniche del discorso, alla vittoria nei confronti dell’avversario. Per questo motivo, in Platone e Aristotele, l’eristica diverrà sinonimo di arte di ingannare, cioè di affermare una qualsiasi opinione a prescindere dalla sua verità.
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Macrologia e brachilogia
Il discorso a seconda delle circostanza poteva essere lungo e articolato, per fornire un adeguato sostegno ad una tesi e per anticipare le possibili obiezioni (discorso macrologico da macròs = lungo, grande + logos = discorso). Oppure poteva essere breve e pungente, per far cadere con una battuta penetrante la tesi avversaria (discorso brachilogico da brachýs = breve + logos = discorso).
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L’antilogia Molto spesso di fronte ad un’affermazione di qualsiasi tipo, i sofisti opponevano l’esatto contrario, per evidenziare l’inconciliabilità tra i due opposti. Se ciò era possibile, diventava sufficiente sostenere la tesi preferita, per escludere necessariamente l’altra, oppure dimostrare l’inconsistenza della tesi avversaria per affermare automaticamente la propria (come già aveva fatto Zenone). Il problema stava tutto nel fatto che i sofisti si vantavano di possedere una tecnica tale per cui a seconda delle circostanze potevano far prevalere una qualsiasi delle due opinioni sull’altra, dissolvendo quindi l’idea che vi fosse una verità certa da raggiungere e su cui fondare il proprio modo di vedere le cose.
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Il pregio dell’antilogia
Se utilizzata come metodo di confutazione dell’avversario, l’antilogia appare come uno strumento retorico senza ulteriore significato. Tuttavia esso può essere estremamente utile al ragionamento filosofico in generale. Infatti attraverso l’antilogia noi siamo chiamati ad uscire dalla nostra usuale opinione, per porre attenzione all’altra faccia delle cose, al lato nascosto che all’inizio non avevamo considerato. Allora, lungi dal concludere che le cose non hanno né un senso, né una realtà, possiamo conoscerle in modo più completo ed esaustivo, tenendo adeguatamente conto di tutti i loro aspetti.
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Il linguaggio Se era possibile, con consumata abilità, sostenere qualsiasi tesi e il suo contrario, ciò significa che il linguaggio, cioè le nostre parole che vogliono descrivere una realtà, perde la sua stretta correlazione con l’essere. Il linguaggio non dice più l’essere delle cose, diviene una convenzione umana, cioè l’invenzione di vocaboli e di regole grammaticali-sintattiche cui, grazie ad un accordo collettivo si assegnano, alcuni significati, senza relazione con la verità di ciò che di volta in volta viene detto e descritto. Se infatti posso sostenere qualsiasi tesi e il suo contrario, non vi è alcun rapporto tra quello che dico e l’unica realtà che ho di fronte. La finalità del linguaggio non è più quindi quella di “dire” l’essere, come in Parmenide, ma di convincere l’interlocutore: essa è perciò persuasiva e non descrittiva.
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Protagora Nacque ad Abdera ,cittadina situata sulle coste della Tracia, nel 490 a.C. circa. Subì l’influenza di Eraclito e, nel corso della sua vita si spostò spesso di città in città per insegnare, ottenendo notevoli successi. Fu anche amico di Pericle, capo carismatico dell’Atene democratica al culmine della sua potenza politica. Ad Atene, malgrado l’appoggio di Pericle, le sue idee suscitarono scandalo ed egli dovette abbandonare la città. Morì in esilio nel 411, probabilmente in occasione di un naufragio. Tra le sue opere: le Antilogie e Sulla Verità (o i Ragionamenti demolitori).
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L’uomo misura L’affermazione fondamentale della filosofia protagorea è la seguente: «L’uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono» (fr. 1, in Platone, Teeteto, 152a).
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Che cosa significa dire che «l’uomo è misura»?
L’affermazione sostiene che la qualità di tutte le cose dipende dal modo in cui l’uomo le vede e le valuta. Insomma l’uomo è il metro di tutto ciò che noi indichiamo con il nome di «cosa». Ma che cosa si intende per «uomo»? E che cosa si intende per «cosa»?
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Secondo Platone Secondo l’interpretazione di Platone, l’uomo cui si riferisce Protagora è il SINGOLO INDIVIDUO e le cose sono gli OGGETTI PERCEPITI CON I SENSI. Questa è la lettura che ha avuto più successo nella storia della filosofia e che ha contrassegnato la filosofia protagorea come RELATIVISTA.
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Il RELATIVISMO Il relativismo è quell’impostazione filosofica per la quale «tutto è relativo» e non vi è dunque un verità assoluta cui far riferimento. Tutto è relativo vuol dire che tutto dipende dal modo in cui il singolo individuo interpreta e legge la realtà sensibile. Per esempio: relativamente a me il gelato è buono; relativamente a un’altra persona lo stesso gelato è cattivo. Relativamente a me un corpo è pesante, relativamente ad Hulk Hogan lo stesso corpo è leggero. Ciò è particolarmente evidente quando noi ci affidiamo ai nostri sensi, la cui conformazione cambia da persona a persona (diverso sarebbe per le verità logico-matematiche, in cui è più difficile dire «relativamente a me 2+2=4 e relativamente a te 2+2=5).
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Una seconda interpretazione
La stessa affermazione di Protagora sull’ «uomo misura» potrebbe essere intesa in modo da attribuire alla parola «uomo» il significato di «umanità», «razza umana» e alla parola «cosa» il significato di «realtà in generale». In questo caso il relativismo verrebbe meno, perché ci troveremmo sempre, di fronte alla realtà, ad essere concordi fra gli uomini, cioè fra tutti coloro che posseggono la ragione. Le nostre valutazioni sarebbero allora stabili e non cambierebbero da individuo ad individuo.
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Umanismo In quest’ultimo caso ci si troverebbe di fronte solamente ad una filosofia umanista (e non come prima umanista e relativista). Per umanismo si intende un pensiero che si concentra sull’uomo, inteso quale centro primario dell’interesse filosofico, attorno a cui ruota tutto l’universo delle cose e della realtà. Ciò avviene in modo tale che senza l’uomo, in fondo, la realtà non avrebbe alcun senso.
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Una terza interpretazione
Nicola Abbagnano suggerisce anche la possibilità di una terza interpretazione, quella per cui «uomo» significa «persona che appartiene ad una data civiltà». In quest’ultimo senso la frase di Protagora affermerebbe che la valutazione sulle cose in generale cambierebbe a seconda dei popoli e delle culture, infatti la cultura di una data comunità sarebbe «metro» di tutte le cose. Per esempio (l’esempio non è ovviamente di Protagora) se per un cristiano mangiare maiale non è un’azione sbagliata, per un mussulmano lo è. Per gli uni la carne di maiale va benissimo, per gli altri è «impura».
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Relativismo In questo caso ci si troverebbe di fronte ad una diversa forma di relativismo, che assumerebbe come criterio di riferimento non il singolo, ma la collettività. Non vi potrebbero essere giudizi stabili e veritieri, giacché la verità cambierebbe da regione a regione a seconda dei popoli e dei gruppi umani che le abitano. La terza interpretazione dunque, quanto alle conseguenze filosofiche, sarebbe del tutto assimilabile alla prima.
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In ogni caso Ogni interpretazione della frase protagorea dovrebbe comunque convenire sul fatto che a Protagora interessa comprendere come le cose APPAIONO all’uomo. L’essere delle cose, cioè la loro verità più profonda, dipende dal modo in cui le cose appaiono al soggetto che le vede, le pensa, le soppesa e le valuta. Questa impostazione si può chiamare FENOMENISTA (feonomeno=ciò che appare).
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L’interpretazione preferibile: il relativismo
Due delle tre interpretazioni fornite dagli studiosi insistono sul carattere relativistico della filosofia di Protagora. Se fosse vera la rimanente, cioè quella che afferma l’idea che le cose appaiono all’uomo in quanto «umanità fornita di logos», difficilmente il pensiero del nostro filosofo avrebbe suscitato le reazioni che ha prodotto nei contemporanei e nei filosofi immediatamente successivi e difficilmente la sofistica successiva avrebbe proseguito su questa strada, radicalizzando addirittura le impostazione del pensatore di Abdera. Dunque possiamo definire la filosofia di Protagora umanista, fenomenista e relativista. L’uomo è il metro di valutazione, le cose hanno una loro consistenza in quanto appaiono all’uomo che le valuta, ma le valutazioni divergono da uomo a uomo e quindi non esiste una verità univoca per tutti.
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Conseguenze del relativismo
Per essere coerente con un’impostazione relativista bisogna abituarsi a convivere con il caos e il disordine più assoluto nella propria e nell’altrui vita. Infatti se tutto è relativo, nulla è propriamente vero, e se nulla è vero, come debbo regolarmi per agire nella mia vita? Poiché i giudizi sulle cose dipendono dallo stato momentaneo di una persona o dalla casualità che lo ha posto a vivere in una regione della terra piuttosto che in un’altra, manca un criterio assoluto per agire e mantenere un comportamento piuttosto che un altro.
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Per esempio Per esempio ci si può domandare:
È giusto compiere un sacrificio umano ad un dio? Il relativista coerente risponderebbe: «Se per chi lo compie è giusto, allora è giusto; se per un altro è sbagliato, allora è sbagliato» Come dunque regolarsi ?
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Per uscire dall’impasse
Per tentare di superare questo scoglio, Protagora opta per una soluzione UTILITARISTA. Cioè elegge, in mancanza di una verità valida per tutti, il criterio dell’utile come modello per orientare l’azione. Pertanto quando ci si appresta a compiere un’azione, ci si domanderà sempre quale sia l’utilità di quell’azione per chi la compie. Tale utilità i sofisti, però, agganciavano alla comunità in modo da ricercare sempre l’utile collettivo più che quello individuale.
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Razionalità debole: il criterio dell’utile
È tuttavia innegabile che anche il criterio dell’utile o è vero e giusto per tutti (cioè tutti dovrebbero farlo proprio in quanto superiore agli altri), e allora contraddice l’impostazione relativista, oppure non lo è, e allora non può essere assunto in maniera filosoficamente giustificata. Per questo si parla di una razionalità “debole”, cioè di un’indicazione di massima, senza pretese di universalità e validità, ma solo come rimedio particolare alla mancanza di criteri, data la necessità per gli individui di prendere comunque delle decisione su che cosa fare nella quotidianità della vita. La razionalità debole ha un carattere dunque provvisorio, locale, limitato nello spazio e nel tempo, non pienamente giustificato e non giustificabile, senza pretese di verità, di contro alla ricerca di una verità autentica e stabile propria della razionalità “forte”.
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La religione L’atteggiamento di Protagora nei confronti della religione è fondamentalmente agnostico (a- gnosis= non-conoscenza; quindi degli dei non possiamo dire nulla perché non si possono conoscere): “Degli dei non sono in grado di sapere né se sono, né se non sono, né quali sono: molte sono infatti le difficoltà che si frappongono: la grande oscurità della cosa e la limitatezza della vita umana” (fr. 4).
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La politica e le leggi Le leggi civili non hanno una natura divina, bensì sono esclusivamente convenzioni umane, cioè norme che l’uomo ha deciso, di elaborare al fine di poter rendere possibile la convivenza. Ciò è avvenuto attraverso un accordo dei singoli su alcuni comportamenti che è necessario mantenere o evitare. Dunque non possiedono una verità superiore, ma sono ugualmente da rispettare, perché altrimenti la società non potrebbe sussistere, e senza la società non sarebbe possibile nemmeno la vita del singolo.
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Il nichilismo di Gorgia
Gorgia di Lentini, città situata nelle colonie della Magna Grecia (in Sicilia, nell’odierna provincia di Siracusa), nacque nel 485 circa e morì a 109 anni a Larissa in Tessaglia (Grecia). Fu discepolo di Empedocle e scrisse, tra le altre opere, Sul non essere e l’Encomio di Elena (di cui rimangono solo alcuni frammenti). Egli è l’altra grande personalità del movimento sofistico, insieme a Protagora. La sua filosofia può essere definita nichilistica.
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Nichilismo Il termine è ovviamente successivo, e deriva dal latino NIHIL=niente, nulla. Una filosofia si dice nichilistica quando giunge a negare la possibilità di conoscere la realtà da parte dell’uomo. Anzi, quando tale negazione è associata all’idea che nulla può esistere, e che l’essere delle cose in realtà è pura illusione.
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Nulla esiste e nulla è conoscibile né comunicabile
L’atteggiamento relativistico di Gorgia viene portato alle estreme conseguenze. Se tutto dipende dal modo in cui io vedo le cose, e se il mio punto di vista è diverso da quello degli altri, che pure è ugualmente sostenibile attraverso un discorso adeguato, ciò significa che 1) Nulla esiste cioè non c’è una realtà univoca a cui fare riferimento, 2)e se anche ci fosse non riuscirei a conoscerla, 3)e se anche la conoscessi, non potrei comunque comunicarla agli altri.
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La dimostrazione Queste tesi vengono dimostrate con un abile utilizzo di quella stessa modalità di ragionamento inaugurata da Zenone e da Melisso di Samo (seguaci di Parmenide), consistente, da un lato, nel sostenere razionalmente le proprie conclusioni, dall’altro, e soprattutto, nel portare all’assurdo le opinioni contrarie.
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Prima affermazione: l’essere non esiste, ma se l’essere ci fosse…
Secondo le testimonianze convergenti di un testo pseudo aristotelico e di Sesto Empirico, il ragionamento gorgiano avrebbe il seguente andamento. Nulla esiste (tesi di Gorgia, da dimostrare) Se qualcosa esistesse (ammissione della tesi contraria) potrebbe essere (discussione delle conseguenze, fino all’assurdo): 1) Essere (potrebbe esistere l’essere) O 2) Non essere (o potrebbe esistere il non essere).
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L’essere che è, è eterno …ma Se l’essere è, può essere a)eterno,
b)generato, c)oppure eterno e generato insieme. Se l’essere è eterno, non ha principio, cioè non ha un inizio nel tempo. Se non ha un inizio nel tempo, è illimitato. Questo è il passaggio critico del ragionamento. Infatti assume come identici il non aver inizio nel tempo e l’illimitatezza nello spazio, deduzione che appare del tutto arbitraria, ma che Gorgia intende vera. Dunque se l’essere è eterno e non ha principio, esso è illimitato nello spazio. Se l’essere è illimitato, non è in alcun luogo, perché essere in un qualche luogo significherebbe che l’essere è CONTENUTO in quel luogo. Ma non è possibile che qualcosa di illimitato possa essere contenuto in qualche luogo. Ma ciò che non è in nessun luogo, non esiste, quindi, essendo l’essere eterno inesistente, l’ipotesi in questione è da rifiutare.
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L’essere che è, è generato
B) se l’essere, invece, fosse generato sarebbe x) generato dall’essere, ma se così fosse, sarebbe generato da se stesso, e quel se stesso già c’era prima. Quindi non sarebbe generato (e si ritorna al punto A); y) generato dal non essere, ma ciò è impossibile perché dal nulla non può venire nulla. Dunque l’essere non è nemmeno generato.
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L’essere che è, è generato ed eterno assieme
Questo non è possibile perché generazione ed eternità sono termini in contraddizione e si escludono a vicenda. Quindi se l’essere, che è, non è né eterno, né generato, se ne deduce che non può esistere.
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Seconda possibilità: esiste ciò che non è
2) Passiamo ora al secondo punto. Si era detto all’inizio che se qualcosa esiste, può esistere ciò che è e ciò che non è. Al primo punto abbiamo dimostrato che non è possibile che l’essere sia esistente, adesso si dimostra che non è parimenti possibile che il non essere sia esistente. Infatti dire che esiste il non essere significa dire che ciò che è in realtà non è, cioè attribuire, in palese violazione del principio di non contraddizione, due predicati contrari allo stesso soggetto nello stesso tempo e sotto il medesimo punto di vista. Infatti dire «essere» = dire «ciò che è», e dire che l’essere non è significa dire «ciò che è, al tempo stesso , non è». Questo è manifestamente assurdo. Dunque alla fine si è dimostrato che l’essere non può esistere perché non è possibile né che sia, né che non sia.
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Seconda affermazione: se l’essere esistesse non sarebbe conoscibile
Possiamo pensare cose non esistenti: per esempio la chimera, o il sarchiapone (l’esempio ovviamente non è di Gorgia … o forse…?)? Evidentemente sì. Ma se è così, semplificando la complessa deduzione gorgiana, la conclusione è che ciò che è esistente non lo possiamo pensare. Infatti Gorgia la mette così: SE le cose pensate (P) non sono esistenti (non E) ALLORA ciò che esiste (E) non è pensato (non P). Il ragionamento sembra tenere. Proviamo a metterlo in forma di equazione: P= -E dunque E= -P, tutto fila, nevvero?
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Il problema Il guaio è che il ragionamento contiene anche qui un piccolo inganno. Infatti se io dico che POSSO pensare qualcosa di non esistente, come la chimera e il sarchiapone, non significa che tutto ciò che penso sia inesistente. Ma il ragionamento di Gorgia dà per scontato, quando dice «se le cose pensate non sono esistenti», che TUTTO ciò che penso sia inesistente. Solo così il ragionamento funziona. Infatti solo se tutto ciò che penso non esiste, ciò che esiste non lo penso. Ma in realtà bisognerebbe metterla così: qualche cosa che penso non esiste, allora…con questa premessa il ragionamento di Gorgia non funziona. Inoltre un parmenideo direbbe comunque che ciò che non esiste e che tuttavia si pensa non è altro che una composizione di ciò che esiste, se infatti lo descriviamo nei particolari, chiedendoci che cosa è, descriveremmo particolari tratti da cose realmente esistenti: nel caso della chimera la testa di leone, la testa di capra, il corpo di leone e la coda di serpente…
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Terza affermazione: se anche l’essere fosse conoscibile non sarebbe comunicabile
Se l’essere fosse e fosse conoscibile non sarebbe comunicabile. Infatti quando io pronuncio una parola, essa manifestamente non è la cosa che io intendo comunicare con la parola. Infatti la parola «ruota», non è la ruota della mia Opel corsa, poiché la auto non vanno su quattro parole, ma su quattro ruote. Vi è cioè una differenza ontologica fondamentale tra le parole e le cose. Le parole non sono le cose e le cose non sono le parole. Questo secondo Gorgia rende impossibile alle parole significare le cose, cioè essere usate per dire le cose nella loro vera consistenza di cose. Il problema è che le parole, non essendo le cose, nascono come SEGNI per indicare le cose e questo è tutt’altro che impossibile, come non è impossibile che una freccia indichi la direzione in cui andare per raggiungere una meta.
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Le affermazioni gorgiane…
Nonostante i problemi che si sono sottolineati in questo breve percorso, Gorgia sostiene, dunque, e ritiene di aver dimostrato il suo triplice assioma nichilistico. Esso va soggetto ad un altro più generale problema che è proprio anche del relativismo protagoreo:
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…sono assai problematiche
In Protagora dire che tutto è relativo significa dire: «è vero che tutto è relativo», con un evidente contraddizione tra ciò che si dice nella prima parte della frase (qualcosa è vero in senso assoluto), e ciò che si dice nella seconda (tutto è relativo e quindi non esiste una verità assoluta). In Gorgia dire che nulla esiste, implicherebbe l’inesistenza di colui che parla, delle parole che dice, dei significati che esse esprimono…cosa che renderebbe inutile ogni affermazione e ogni idea. Inoltre dire che nulla è conoscibile implica che almeno una cosa è conoscibile: il fatto che nulla è conoscibile…siamo ancora in palese contraddizione. Infine dire che se qualcosa fosse conoscibile non sarebbe comunicabile, analogamente implicherebbe che almeno una cosa sia comunicabile: il fatto che nulla è comunicabile (altrimenti per quale ragione si dovrebbe dire che «nulla è comunicabile»)…terza e finale contraddizione! Così la dialettica sofistica entra in un vicolo cieco e si autodistrugge.
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Scetticismo Il nichilismo che dice «nulla esiste» possiamo considerarlo come una diretta conseguenza dello scetticismo, cioè del dubbio sulle possibilità che l’uomo ha di dire realmente come stanno le cose. Se da un lato tale impostazione lascia grande libertà all’uomo di dire e fare quello che vuole, dall’altro lo consegna ad una disperata consapevolezza della sua fragilità e nullità. Il destino umano è di conseguenza assolutamente privo di un senso superiore, senza alcuna via d’uscita oltre la semplice morte dell’individuo, che è la fine di tutto, la cancellazione di ogni speranza e desiderio, di ogni bellezza e verità, nell’abisso del nulla in cui tutte le cose sono condannate a scomparire.
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