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Heidegger
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Dalla fenomenologia all’esistenzialismo all’ontologia
La scoperta husserliana della visione d’essenze come gesto che non si ferma alla superficie delle cose, ma ne coglie l’essenza costituisce per Heidegger l’avvio della ricerca ontologica che Husserl non ha potuto svolgere.
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Oltre la coscienza trascendentale
Heidegger critica Husserl perché secondo lui non è stato pienamente fedele al principio dell’“andare alle cose stesse”, limitandosi a considerare l’intenzionalità come atto della coscienza senza chiedersi quale sia “l’essere dell’ente intenzionale” che ha la coscienza. Ciò gli ha impedito di porre il problema del senso dell’essere stesso, limitandosi alle essenze oggettive costituitesi all’interno della coscienza. Ma oltre la coscienza vi è la questione ontologica dell’essere, implicitamente contenuta ma non sviluppata dalla fenomenologia.
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Il senso dell’essere Se la fenomenologia ha lasciato fuori dall’indagine propriamente l’essere di colui che ha coscienza, Heidegger ritiene che questo vuoto vada colmato. Anzi egli ritiene propriamente che per rispondere alla domanda fondamentale della filosofia, quella relativa all’essere (per lui infatti la filosofia è anzitutto ontologia), è necessario in via preliminare indagare l’essere di colui che si pone la domanda e che pertanto rappresenta il luogo più adeguato per comprendere l’essere. Per capire il senso dell’essere bisogna dunque indagare l’essere dell’uomo come di quell’ENTE che si pone la domanda sull’essere.
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Heidegger sviluppa un’ ANALITICA ESISTENZIALE
In ESSERE E TEMPO (1927) Heidegger sviluppa un’ ANALITICA ESISTENZIALE finalizzata ad indagare l’ente che si pone la domanda sull’essere
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ESSER-CI L’uomo è per Heidegger da indicarsi come l’ESSERCI (DA-SEIN). Tale formulazione indica che l’essere dell’uomo è da sempre collocato in un “ci”, cioè in una situazione, in un mondo, in un contesto nel quale l’uomo stesso è come gettato e verso il quale è originariamente aperto.
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Geworfenheit-gettatezza
L’uomo è gettato in un mondo, cioè si trova ad essere dentro un contesto di cose senza poter sapere il come e il perché. Gettatezza significa «trovarsi ad essere», ossia l’idea di essere stato inserito in un contesto a prescindere da ogni intenzione propria, da ogni propria decisione a proposito: nessuno mi ha interrogato sul mio essere al mondo, semplicemente «sono stato messo al mondo», sono stato appunto gettato.
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Non semplice presenza…
L’essere dell’uomo non si riduce però alla semplice presenza in un mondo od oggettività che caratterizza gli oggetti (Gegenstaende - objecti: ciò che sta contro, ciò che sta davanti). Egli non è mai semplice presenza poiché è quell’ente PER CUI gli oggetti sono presenti.
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Ma ek-sistenza e possibilità
L’essenza dell’uomo è la sua esistenza. Egli sta sempre fuori-di-sé (ek-sistere) proteso verso le cose, il mondo, gli oggetti. Egli è sempre calato e gettato in una determinata situazione. Ma tale esser-ci dentro una situazione, quindi proteso fuori di sé non è solo spaziale ma anche temporale nel senso che in ogni suo rapporto con il mondo egli realizza il proprio essere, costruendolo istante dopo istante.
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Semplice presenza e possibilità
L’oggetto semplicemente presente ha un suo essere determinato e chiuso in sé, è lì nella sua oggettività. L’uomo non ha un suo essere determinato, ma, nel rapporto con il mondo realizza il suo essere, ha da essere, muta se stesso giungendo ad essere qualcosa (qualcuno) che prima non era. L’esserci è dunque ek-sistente nella possibilità e DECIDE del proprio essere nel senso dell’autenticità o della dissipazione di sé.
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PROGETTO L’uomo è dunque un poter-essere, è un ente che progetta se stesso e gli oggetti del mondo si orientano in base a questo suo progetto. Essi si qualificano come degli UTILIZZABILI non nel senso utilitaristico del termine, ma nel senso di un rapporto che viene a definirsi di volta in volta in base a ciò che io posso essere.
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ESSERE-NEL-MONDO (In der Welt-sein)
L’uomo da sempre trascende (oltrepassa) – con il suo progettarsi – se stesso verso il mondo, è sempre proteso oltre se stesso in direzione del mondo, ma non nel senso contemplativo e intenzionale, come asseriva Husserl, bensì nel senso concreto dell’avere a che fare con le cose per trasformare, nel commercio con le cose, se stesso secondo il suo poter-essere.
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La CURA (Sorge) Il commercio dell’uomo con in mondo degli utilizzabili è una CURA, cioè un prendersi cura delle cose, un originaria pre-occupazione per tutto ciò che ci sta attorno e che costituisce il nostro mondo-ambiente (um-Welt, mondo attorno a cui noi siamo). Cura rispetto agli utilizzabili è un prendersi cura mentre la cura nei confronti degli altri uomini è un aver cura.
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Il prendersi cura Il prendersi cura è quella relazione originaria che l’uomo ha con gli oggetti utilizzabili nel suo ambiente vitale. Egli utilizza gli oggetti e in generale il mondo in vista di un proprio progetto esistenziale cui quelle cose sono finalizzate in qualità di strumenti. Questi sono anche i mezzi di sopravvivenza, oppure ciò che permette la normale vita associata, ciò che viene forgiato nel lavoro, ciò che insomma costituisce il correlato di beni necessari alla nostra quotidianità e nel procurarsi il quale si impara a orientarsi nel mondo e a ordinare l’esistenza.
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Aver cura autentico Secondo Martin Heidegger non è pensabile l’essere umano (Esserci) senza un mondo popolato da oggetti ma soprattutto da persone che interagiscono non in modo accidentale e fortuito, ma proprio in base alla loro essenza. Heidegger chiama il modo della loro interazione l’“aver cura”. Questo si declina in due ulteriori modalità. La prima è quella dell’operare affinché l’altro giunga a realizzare consapevolmente e liberamente il proprio progetto e la propria umanità. Si tratta, potremmo dire, di una forma materna e paterna di assistenza dell’altro, in cui questo viene aiutato a diventare ciò che è, a formarsi secondo una valorizzazione di ciò che costituisce la propria autentica e migliore personalità. Per far ciò bisogna attendere in generale al bene altrui, al sostegno del carattere, alla disciplina delle debolezze, alla costruzione di una sensibilità per il bello, il giusto e per la cultura nel senso più ampio, in un rapporto sano e liberante con se stesso e con il proprio ambiente umano e materiale.
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Aver cura scaduto Accanto all’aver cura autentico, vi è un aver cura che “solleva gli altri dalla cura, sostituendosi loro nel prendersi cura, intromettendosi al loro posto”. Infatti il corredo di cose di cui ci si prende cura può essere fornito anche da altri, che possono sostituirsi ad un determinato soggetto nella sua fatica di stare al mondo, una fatica che è tuttavia sommamente educativa e formatrice. Sostituita da un altro in un compito che è proprio, la persona viene “aiutata”, in realtà non in vista del suo autonomo sviluppo, ma della sua dipendenza dall’altro che le fornisce i servizi e con l’esito di una sua sostanziale sottomissione (certe madri iperprotettive, senza volerlo, si comportano precisamente in questo modo con i loro figli).
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MIT-SEIN L’aver cura autentico costituisce il modo autentico di coesistere. L’essere dell’uomo, infatti, non è solo nel mondo, ma con gli altri (Mit-sein = essere-con, essere assieme). L’essere con gli altri costituisce un’altra determinazione essenziale della sua esistenza (un ESISTENZIALE).
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Il Verfallen (scadimento)
La possibilità connessa all’esistenza umana può smarrirsi negli enti di cui si prende cura, cioè perder se stesso nel vortice dei fatti della quotidianità mantenendo la propria comprensione del mondo al livello ONTICO o ESISTENTIVO. Ciò comporta uno scadimento della sua esistenza, un VERFALLEN (che P. Chiodi traduce con scelta infelice con “deiezione”).
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ONTICO-ONTOLOGICO ESISTENTIVO-ESISTENZIALE
Ontico = il piano immediato degli enti considerati come orizzonte ultimo di comprensione della vita. I fatti e le cose oltre i quali non si va, così come nel loro apparire quotidiano sono utilizzati senza una comprensione del loro essere. Ontologico = la riflessione sull’essere dei fatti e sulla loro significatività in ordine ad un progetto autenticamente umano. Esistentivo = ciò che nell’esistenza è dato innanzitutto e per lo più, sul piano della coscienza comune. Esistenziale = tutto ciò che riguarda l’esistenza umana nel suo essere proprio, cioè il poter essere della sua possibilità.
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IL “MAN” (si) L’esistenza scaduta è condotta sul piano della chiacchiera, del “si” dice e “si” fa, della curiosità vana e pettegola e dell’equivoco che non va mai al fondo delle cose in una sorta di vita anonima e priva di significato profondo, in cui più che vivere, ci si lascia vivere nella presa del vortice delle preoccupazioni quotidiane.
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La voce della coscienza
Ma nel mezzo della chiacchiera non tarda a farsi sentire la voce della coscienza che richiama alla ricerca del senso del nostro vivere e del nostro esistere permettendoci di compiere il salto dall’esistentivo all’esistenziale. Ciò significa riportare il nostro progettare umano alla sua radicalità ultima, alla sua possibilità insuperabile, allo scoglio contro il quale non si può non scontrarsi: LA MORTE come possibilità che tutte le possibilità divengano impossibili, come radicale naufragio di ogni progetto mondano.
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La morte La voce della coscienza, ponendo di fronte a noi la morte come esito inaggirabile di ogni progetto, relativizza la portata dei nostri stessi progetti, impedendoci di conferire alla nostra quotidianità una dimensione assoluta che essa non può avere. Solo così il quotidiano è posto in una prospettiva AUTENTICA, quella del nostro essere lì lì per morire, quella del nostro essere-alla-morte (zum Tode sein) o essere-per-la-morte.
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Decisione anticipatrice
Ascoltando la voce della coscienza, noi possiamo decidere di anticipare (non nel senso di suicidarsi, ma in quello di aver sempre presente, di sapere consapevolmente) la nostra morte, dimodoché: “l’anticipante farsi liberi per la nostra morte affranc(hi) dalla dispersione nelle possibilità che si intrecciano casualmente, sì che le possibilità effettive … possano essere scelte autenticamente”.
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Il nulla possibile L’anticipazione della morte ci rappresenta il nulla possibile di noi e di tutti gli altri esseri e/o cose e rimane la nostra possibilità più propria. Essa è decisa a partire da una particolare situazione emotiva, quella dell’angoscia, che è paura senza oggetto, cioè propriamente l’atteggiamento che nasce di fronte al nulla possibile che essa intuisce e che la decisione anticipatrice valorizza e pone di fronte a noi.
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Coraggio di fronte alla finitezza
Assumendo per sé un atteggiamento risoluto, ci si mette nelle condizioni di guardare in faccia alla nostra mortalità per vivere nella dimensione inaggirabile che ci è propria: quella di essere progetti gettati e destinati a fallire. Questo è il coraggio richiesto per vivere autenticamente. Lo scadimento di tale coraggio si ha quando si trasforma l’angoscia per il nulla in paura di qualcosa che di volta in volta si può fuggire giungendo ad un’inautentica tranquillità.
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IL TEMPO futuro FUTURO L’Esserci è possibilità. Il suo essere è dunque temporale; la dimensione più importante della sua temporalità è il FUTURO, cioè l’essere sempre proteso in avanti verso il suo ad-venire. Quindi il progetto che realizza noi stessi lo fa riprendendo il nostro passato: dalla nostra protensione al futuro emerge il nostro passato.
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Il TEMPO passato PASSATO
Ma questo avvenire in quanto apertura alla possibilità non può non tener conto che si è aperti in quanto nessuno ha già pre-stabilito quello che noi saremo, in quanto non vi è un da-dove che determina a priori una direzione. Dunque l’avvenire si apre nella sua possibilità in quanto noi siamo gettati, cioè in quanto la gettatezza è il nostro passato: “è autenticamente adveniente solo l’esserci che è autenticamente stato” cioè assume la sua gettatezza come il suo autentica passato.
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IL TEMPO presente Tra futuro e passato vi è quell’affaccendarsi con le cose che è il presente, il quale è esposto sempre al rischio di SCADERE nella quotidianità indaffarata, oppure di assumere l’istante come istante della DECISIONE. Sono questi due modi di assumere il venir-incontro delle cose nel presente e del nostro stare presso esse.
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Le estasi temporali La temporalità dell’esserci si caratterizza dunque come un “ad-per” che si protende nella possibilità progettuale, un “indietro verso” che riporta al proprio esser-stato originario, e in un “essere-presso” le cose che “vengono-incontro”. Questi elementi determinano l’esserci come tempo cioè come ciò che fa essere l’essere fuori di sé, dunque che lo fa essere in modo EK-STATICO. Il tempo è quindi l’EKSTATIKÒN: la determinazione dell’essere dell’esserci come essere costantemente fuori-di-sé. Da tale originaria determinazione nasce ogni possibilità di misurazione e concettualizzazione scientifica del tempo (che è derivata e inautentica).
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ESISTENZA INAUTENCA e no
L’esistenza temporalmente inautentica fugge la decisione anticipatrice e si preoccupa per le cose assumendo il criterio della riuscita dei progetti quotidiani con la cancellazione del loro autentico sfondo temporale: la morte (futuro), la gettatezza (passato), l’angoscia e la decisione (presente).
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L’incompiutezza di Essere e tempo
Con “Essere e tempo” H. giunge a definire la temporalità come essere dell’esserci, ma non arriva ancora a guadagnare il senso dell’essere in generale. Infatti l’opera rimane incompiuta, dice H., anche e soprattutto perché mancava un linguaggio adatto. Inoltre H. si accorge che la prospettiva dell’indagine sull’essere a partire dall’Esserci è ancora insufficiente.
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Perché l’indagine dell’essere a partire dall’esserci è insufficiente
Perché l’indagine dell’essere a partire dall’esserci è insufficiente? La differenza ontologica (Introduzione a “Che cos’è la metafisica?”, pubblicata nel 1953) L’insufficienza della prospettiva a partire dall’esserci è dovuta al fatto che tale indagine sconta un residuo ontico, cioè rimane ancora legata ad un ente e come tale rischia di nascondere implicitamente la differenza tra ente ed essere cioè la differenza ontologica.
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La differenza ontologica
L’ente è “ciò che è”. Tutte le “cose” che sono, sono enti. L’essere è ciò che fa essere l’ente, è l’elemento, la non-cosa, grazie a cui gli enti sono. Negli enti si distingue il loro essere-cose e dietro di loro l’essere ineffabile, incatalogabile e finora inesprimibile che manifestandosi, concretizzandosi, “lasciandosi essere” nelle cose le rende tali, le fa affiorare alla presenza.
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L’essere non è l’ente L’essere dunque non va confuso con l’oggetto-ente, la cosa ente. L’ente è, l’essere è il ni-ente (Che cos’è la metafisica? – 1929) cioè è il niente di cose, il niente di oggettività concreta, da cui però scaturisce l’ente. L’essere propriamente non “è” ma “si dà” (es gibt) si offre, si manifesta nelle cose che sono, non coincidendo però con esse.
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L’esserci è un ente Ora malgrado la particolare importanza che ha l’esserci, in quanto ente che si pone la domanda sull’essere, esso rimane pur sempre un ente. Già Essere e tempo aveva avanzato questa idea, già lì era adombrata la differenza ontologica. Ma si manteneva una certa fiducia nella possibilità di esposizione del senso dell’essere a partire da un ente privilegiato. Successivamente H. ritiene che l’indagine vada svolta a partire dall’essere, che debba diventare un’indagine sull’essere dal punto di vista dell’essere e non dal punto di vista dell’uomo. Questo è il senso della SVOLTA (Kehre).
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L’uomo in secondo piano
Nella Lettera sull’umanismo (1947) si afferma a chiare lettere tale nuova prospettiva: non più l’essere in rapporto all’ (a partire dall’) uomo, ma l’uomo in rapporto all’ (a partire dall’) essere. Qui l’uomo diventa più passivo, diventa solo il tramite di una rivelazione dell’essere (che solo ci consente di comprenderne appieno il suo essere). Così l’ontologia heideggeriana come ricerca sull’essere e non sull’ente, non può essere qualificata come un umanismo cioè come una filosofia che pone al centro del mondo il soggetto umano.
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LA METAFISICA E IL SUO ERRARE (L’essenza della verità – 1931-32)
La metafisica da Platone in poi ha concepito l’essere come ciò-che-sta-di-fronte, il Gegenstand, l’ob-jectum, cioè propriamente l’oggetto. Così ha confuso l’essere con l’ente, ha oggettivizzato e reificato l’essere. Anche Dio, nella scolastica, è stato pensato come nient’altro che l’ente supremo. Riflettendo sulla storia di questo peculiare “scadimento” del pensiero metafisico, che cercando l’essere ha vagato (errato) fra gli enti, H. è riportato ad una visione più autentica.
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La verità Tale visione indica la verità non come adaequatio rei et intellectus, cioè come adeguamento del nostro intelletto alla cosa (l’ente-cosa) e nemmeno come certitudo (certezza che le cose stanno come io le penso), ma come alétheia (alfa privativo + lanthàno che significa velare, quindi svelamento, disvelamento, non-nascondimento).
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La verità dell’essere La verità non sta nel pensiero del soggetto che giudica ciò che vede (l’idea, dalla radice ID di ORÀO = vedere), ma nel manifestarsi dell’essere attraverso l’ente, al di là e oltre l’ente stesso (come ni-ente). I filosofi pre-socratici avevano pensato la verità in questo modo, prima che la razionalizzazione platonico-aristotelica avesse introdotto questo elemento “giudicante” (la verità, p. es. nel giudizio logico) che da un lato ha entificato l’essere, dall’altro lo ha fatto dipendere dall’uomo. L’esito di tale operazione è stato l’oblio dell’essere nella metafisica occidentale e la progressiva centralità in essa del soggetto (metafisica della soggettività). Il culmine di questa autoesaltazione soggettiva è stato Nietzsche e la sua metafisica della volontà di potenza.
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Nietzsche (1961) Con Nietzsche non emerge un pensiero antimetafisico, come il filosofo di Roecken avrebbe voluto, ma poiché l’essere è fatto dipendere dalla volontà di potenza del soggetto, esso diventa più che mai oggetto di una produzione, cioè della centrale volontà del soggetto. Ma la volontà di potenza, chiusa nella dominio dell’ente risulta in modo peculiare dimentica dell’essere. Essa, dimenticando l’essere, vuole nient’altro che se stessa, come un motore che gira a vuoto, e diventa una nichilistica volontà di volontà. Questo è per H. il compimento nichilistico della metafisica.
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La tecnica (La questione della tecnica – 1950)
Esito ultimo della metafisica della soggettività è la peculiare visione dell’essere veicolata dalla tecnica. Essa non è neutra, non è strumento che si adatta a tutti i pensieri e i fini, ma già presuppone una data comprensione dell’essere dell’ente. Quest’ultimo dal pensiero della tecnica è visto come “fondo-risorsa” (Bestand) cioè come qualcosa che è “a disposizione” per essere calcolato, sfruttato, manipolato, strumentalizzato a prescindere dalla propria significatività. L’essenza della tecnica risiede allora nel “pretende(re) dalla natura che essa fornisca energia che possa essere estratta e accumulata”. Così la tecnica diviene im-posizione (Gestell), costrizione, atto inquisitoriale nei confronti della natura-oggetto, e ne disvela l’essere nella forma più nascosta e obliata possibile.
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Un pensiero in ascolto Invece che “padrone dell’ente” l’uomo deve diventare “pastore dell’essere”, cioè mettersi in ascolto (hoerig), dell’essere che si disvela, nascondendosi nelle cose (si disvela perché l’essere è essere dell’ente, infatti l’ente è ciò che è; si nasconde perché l’essere non coincide con l’ente, ma il vedere tale coincidenza rappresenta per noi una tentazione costante).
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Dove è dato comprendere l’essere?
Il disvelamento dell’essere del mondo si coglie nel LINGUAGGIO che è la “casa dell’essere” (Lettera sull’umanismo), ma non nel linguaggio scientifico che misura gli enti, né nel linguaggio inautentico della chiacchiera, bensì nel linguaggio poetico che dà nome alle cose, le esprime nel loro presentarsi e nel modo in cui il loro essere “colpisce il pensiero” senza volerne diventare un dominatore.
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Chi parla il linguaggio?
Ma il linguaggio è forse una creazione del soggetto? E’ forse l’uomo che genera il linguaggio? Bisogna farsi tale domanda pensando a noi. Noi abbiamo prodotto la lingua con cui parliamo? Oppure siamo da sempre DENTRO un linguaggio. Il linguaggio è semplicemente uno strumento di comunicazione? Oppure noi non possiamo fare a meno di PENSARE con un linguaggio.
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Poeticamente abita l’uomo
L’uomo non parla il linguaggio, ma è parlato da esso. Nella poesia emerge un alludere all’essere delle cose, in una plurivocità di significati mai esauribile, che ci mette in contatto con la loro significatività ultima e mai riducibile a formule logiche. Chi parla nella poesia? Non certo il poeta come soggetto, ma la poesia sembra fare del poeta lo strumento della rivelazione di un significato ultimo e misterioso dell’universo.
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Allora: che cos’è l’essere?
L’essere anzitutto NON è COSA (ente). Alla luce delle riflessioni heideggeriane si può dire che l’essere entifica l’ente, cioè lo lascia essere, lo rende visibile, ma non coincide con l’ente.
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Allora: che cos’è l’essere? (2)
In secondo luogo l’essere, che di per sé non è definibile (definibili sono gli enti), può essere pensato come EVENTO (cfr. Contributi alla filosofia. Sull’evento – corsi ) L’evento è ciò e-viene, viene da: l’essere si dà come evento nella storia del mondo e del pensiero. E’ il manifestarsi di tutto ciò che è (distinto da ciò che si manifesta) che appare come un Destino-Geschick-dono (da schicken = inviare).
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Destino, storia e uomo L’essere come evento-destino sottolinea la sua dimensione temporale e storica. E’ la storia del mondo, dell’uomo e dquell’elemento che ci è stato inviato dall’essereel pensiero. In particolare l’essere si invia nella storia di chi lo pensa, cioè dell’uomo e a lui si manifesta nel suo senso, provocandolo a corrispondervi (la storia della filosofia è manifestazione del senso dell’essere di volta in volta nei concetti di fysis, logos, en, energheia, substantia,oggettività, soggettività, volontà di potenza (cfr. Identità e differenza ). Tale manifestazione suggerisce un’interpretazione dell’essere che cercandone il senso, al tempo stesso lo oblia, come accade nella storia della metafisica. Ma il darsi come obliato è pure una forma dell’evento dell’essere.
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L’evento che (si) appropria
L’essere è il proprio dell’uomo. Ma dell’uomo che lo pensa l’essere si appropria, nel senso che l’uomo ne viene interrogato e coinvolto cioè viene portato in una dimensione ulteriore, che non è più suo possesso, in un significato che egli non costruisce ma può solo ascoltare, nel pensiero che vi si rivolge e nel linguaggio poetico che lo dice. Così l’essere e l’uomo sono l’uno consegnati all’altro. Il “progetto” gettato di Essere e tempo è allora approfondito come progetto gettato dall’essere e promosso grazie all’ascolto di quell’essere che gettando, ci chiama, si appella a noi perché vi corrispondiamo con il pensiero e con la vita.
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Abbandono (Gelassenheit)
L’essere che così si dona, lasciando essere l’ente, non può a maggior ragione essere dominato. Al suo senso che si offe nel linguaggio, nella storia, nel pensiero, nell’arte ci si abbandona. L’atteggiamento dell’uomo deve qualificarsi come un silenzio che ascolta il senso dell’essere e vi si abbandona.
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La comprensione dell’essere: ermeneutica
Grazie al fatto che l’uomo ha da sempre compreso l’essere, è da sempre consegnato all’essere, egli può comprenderlo. In fondo dunque noi comprendiamo ciò che già sappiamo, e ogni ricerca parte sempre da ciò che è cercato. Tale affermazione costituisce il punto di snodo dell’ermeneutica contemporanea (che sarà sviluppata da H. G. Gadamer), la quale sottolinea il fenomeno fondamentale del circolo ermeneutico.
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Circolo ermeneutico Ogni nostra conoscenza parte da un sapere, cioè da un’idea che noi già abbiamo dell’oggetto che dobbiamo conoscere (pre-comprensione). L’atto del conoscere non è altro che un ritornare sulla conoscenza che noi già abbiamo alla luce di nuove indicazioni di senso, la cui lettura la nostra pre-comprensione orienta e definisce preliminarmente. Ciò significa che quando, per esempio ci accostiamo ad un libro, noi già sappiamo di che cosa parla (anzi il più delle volte ci accostiamo ad esso perché già sappiamo di che cosa parla).
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Un circolo virtuoso Il testo viene letto alla luce della pre-comprensione che determina in anticipo una gamma di significati possibili e disponibili. Il circolo che così si dispiega non è però vizioso. Il testo è un’esperienza che può urtare contro la nostra pre-comprensione, in ogni caso la rinnova, e istituisce nuovi sensi. Così noi sappiamo già, ma ogni esperienza orienta nuovamente i significati, pur non prescindendo mai dai presupposti di partenza (ciò significa che rende questi ultimi espliciti in una determinata direzione).
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L’ultimo Heidegger Come abbiamo visto l’ultimo Heidegger, insiste sul linguaggio, sulla poesia, sull’ermeneutica e sui temi dell’essere come e-vento e destino appropriante-espropriante. In tale fase della sua riflessione il nostro filosofo tende a promuovere un approccio molto evocativo, suggestivo ai problemi filosofici con un linguaggio denso di neologismi, talora esso stesso tendente ai toni poetici, molto lontano dallo stile apofantico della prosa filosofica normale. Esempio di questo mdo di procedere è il testo, per molti versi oscuro, sul tema della «cosa»… Che cos’è realmente una «cosa». Heidegger tratta il tema partendo dalla comprensione di un oggetto di uso comune, una brocca.
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LA COSA L’essenza della brocca, in quanto cosa, cosa è “il puro offrente riunirsi della semplicità della Quadratura in un permanere”. Forse alla luce di quanto si è detto è possibile leggere questa criptica definizione heideggeriana (che come tale può essere interpretata nei modi più svariati, qui proviamo solo ad avanzare una tra le tante ipotesi possibili).L’essere della cosa può solo essere detto con il termine coseggiare, perché è appunto indefinibile. MA nella sua essenza vi è la Quadratura che si offre in un permanere. La quadratura sono i Quattro: cielo, terra, divini e mortali come immagine di tutto quanto è possibile pensare, il mondo immanente e qualsiasi immagine di trascendenza-profondità, significatività ulteriore, possiamo farci. Si tratterebbe dunque del Tutto, il tutto che viene al nostro pensiero “in un permanere” cioè in qualcosa di concreto come l’ente che sta qui davanti a noi. In ogni cosa vi è il mistero di una quadratura, di una totalità d’essere che si disvela nel suo senso nascosto e inesauribile, che non può essere detto con definizioni, ma può essere indicato, accennato con la parola poetica e l’arte su cui il pensiero riflette ascoltando. Il tutto è nel frammento,il tutto dell’universo si dà nella più piccola delle cose, si offre a noi allo stesso tempo svelandosi e nascondendosi nel suo essere.
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Una filosofia apofatica
L’essere, lo si evince da quanto abbiamo appena detto, è insomma l’indicibile - apofatico, non definibile positivamente - che solo la poesia può dire, pur in modo parziale e non in grado di esaurire la sua significatività. Il mondo è un’immensa trama poetica di cui noi ci dobbiamo mettere in ascolto, non con la voglia di dominarlo, ma con l’intento di accoglierlo e di corrispondervi. Corrispondere significa guardare ad un significato che si disvela - come quando noi cerchiamo di capire una terzina dantesca - e all’appello che viene da quel significato per il nostro comportamento e la nostra vita.
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