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PubblicatoGianpaolo Guidi Modificato 9 anni fa
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A. A SP 2014 Prof. ord. Uberto MOTTA Storia letteraria moderna: La letteratura dell’Italia Unita ( ) martedí 17-19h, MIS 3026
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Calendario delle lezioni
1) 18 febbraio 2) 25 febbraio 3) 4 marzo 4) 11 marzo 5) 18 marzo 6) 25 marzo 7) 1° aprile 8) 8 aprile 9) 15 aprile 22 aprile: vacanze di Pasqua 10) 29 aprile 11) 6 maggio 12) 13 maggio 13) 20 maggio 14) 27 maggio
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Bibliografia (1) 1. Manuale di riferimento G. Contini, La letteratura dell’Italia unita , Firenze, Sansoni, 1968 (e successive ristampe, fino a: Milano, BUR, 2012). 2. Letture domestiche (una, a scelta, delle opere seguenti) F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana; G. Verga, I Malavoglia oppure Mastro-don Gesualdo; G. D'Annunzio, Il Piacere; L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal oppure Uno, nessuno e centomila; I. Svevo, La coscienza di Zeno.
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Bibliografia (2) 3. Ulteriore bibliografia
G. Contini, La letteratura italiana. Otto-Novecento, Milano, Accademia, 1974. Letteratura italiana. Le opere, diretta da A. Asor Rosa, vol. 3 (Dall’Ottocento al Novecento) e 4/I-II (Il Novecento), Torino, Einaudi, Testi nella storia, a cura di C. Segre e C. Martignoni, voll. 3 e 4, Milano, Bruno Mondadori, 1996. Manuale di letteratura italiana. Storia per generi e problemi, a cura di F. Brioschi e C. Di Girolamo, vol. 4, Dall’unità d’Italia alla fine del Novecento, Torino, Bollati Boringhieri, 1996. Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, vol. 8 (Tra l’Otto e il Novecento) e 9 (Il Novecento), Roma, Salerno, Storia della letteratura italiana, 5, L’Ottocento, a cura di R. Bonavita, Bologna, Il Mulino, 2005. Storia della letteratura italiana, 6, Il Novecento, a cura di A. Casadei, Bologna, Il Mulino, 2005. Atlante della letteratura italiana, a cura di S. Luzzatto e G. Pedullà, vol. 3, Dal Romanticismo a oggi, Torino, Einaudi, 2012.
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l'età postunitaria ( ), tra verismo e simbolismo, estetismo e decadentismo; l'età ‘giolittiana’ o delle avanguardie primonovecentesche ( ); l'epoca tra le due guerre ( ), con le diverse forme di 'rilettura' della tradizione coeve all'avvento della dittatura fascista; l'età del secondo dopoguerra ( ), tra nuovo realismo e nuova avanguardia.
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l'età postunitaria (1861-1903) F. De Sanctis (n. 1817)
: Storia della letteratura italiana G. Carducci (n. 1835) : Giambi ed epodi (1882), Rime nuove (1889), Odi barbare (1893), Rime e ritmi (1898) G. Verga (n. 1840) 1880 Vita dei campi, 1881 I Malavoglia, 1883 Novelle rusticane, 1889 Mastro-don Gesualdo A. Fogazzaro (n. 1842) 1896, Piccolo mondo antico La Scapigliatura ( ) C. Dossi (1849), Vita di Alberto Pisani, 1870; G. Faldella (1846); V. Imbriani (1840) G. Pascoli (n. 1855) 1891 prima edizione di Myricae, 1903 Canti di Castelvecchio G. D’Annunzio (n. 1863) i grandi romanzi, da Il Piacere a Le vergini delle rocce; 1903 Alcyone I. Svevo (n. 1861) Una vita e Senilità L. Pirandello (n. 1867)
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l'età giolittiana (1903-1918) Luigi Pirandello Crepuscolari Futurismo
1904 Il fu Mattia Pascal 1921 Sei personaggi in cerca d’autore 1922 Enrico IV 1926 Uno, nessuno e centomila Italo Svevo 1923 La coscienza di Zeno Benedetto Croce 1902 Estetica; Logica come scienza del concetto puro; 1913 La letteratura della nuova Italia Crepuscolari Gozzano (La via del rifugio, 1907; I colloqui, 1911), Govoni (Le fiale e Armonia in grigio et silenzio, 1903), Moretti (Poesie scritte col lapis, 1911) Futurismo 1912, Manifesto tecnico della letteratura futurista Vociani (G. Papini, R. Serra, P. Jahier, S. Slataper) Clemente Rebora, Frammenti lirici (1913) Dino Campana, Canti orfici (1914) Camillo Sbarbaro, Pianissimo (1914)
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Tra le due guerre (1918-1945) “La Ronda” (1919-23) “Solaria” (1926-36)
Tre grandi poeti Saba (1883) Ungaretti (1888) Montale (1896) Gadda, classe 1893 Cardarelli (Poesie: 1936), Cecchi (Pesci rossi: 1920), Bacchelli (Il mulino del Po: ) E. Vittorini (Conversazione in Sicilia: 1941) Il Canzoniere ( ) L’Allegria (1931), Sentimento del tempo (1936) Ossi di seppia (1925), Le occasioni (1939) L’Adalgisa ( ), La cognizione del dolore ( ), Quer pasticciaccio brutto de via Merulana ( )
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Gli anni Trenta: la poesia (l’ermetismo)
1930, S. Quasimodo, Acque e terre 1932, S. Quasimodo, Oboe sommerso; A. Gatto, Isola; C. Betocchi, Realtà vince il sogno 1933, G. Ungaretti, Sentimento del Tempo; S. Solmi, Fine di stagione; L. De Libero, Solstizio La violetta notturna, a c. di R. Poggioli 1934, A. Bertolucci, Fuochi in novembre; V. Cardarelli, Giorni di piena N. Lisi, Paese dell’anima 1935, M. Luzi, La barca L. Fallacara, Confidenza 1936, L. Sinisgalli, 18 poesie; V. Cardarelli, Poesie; C. Pavese, Lavorare stanca 1937, A. Gatto, Morto ai paesi; L. De Libero, Proverbi 1938, S. Quasimodo, Poesie 1939, E. Montale, Occasioni; L. Sinisgalli, Campi Elisi; S. Penna, Poesie 1941, V. Sereni, Frontiera 1942, P. Bigongiari, La figlia di Babilonia
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Il secondo dopoguerra (1945-1968)
LA POESIA/ I POETI L’ermetismo e la sua eredità Salvatore Quasimodo (1901) Leonardo Sinisgalli (1908) Alfonso Gatto (1909) Vittorio Sereni (1913) Mario Luzi (1914) LA PROSA/I NARRATORI Il neorealismo/Forme di realismo: tra Gli indifferenti del 1929 e Una vita violenta del 1959 Carlo Levi (1902) Mario Soldati (1906) Moravia (1907) Landolfi (1908) Vittorini (1908) Pavese (1908) Bilenchi (1909) Cassola (1917) Fenoglio (1922) Pasolini (1922) Calvino (1923)
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1947-1963 La narrativa 1945 Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi
1947 Se questo è un uomo di Primo Levi 1947 Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino 1947 Cronache di poveri amanti di Vasco Pratolini 1948 Menzogna e sortilegio di Elsa Morante 1950 Le terre del Sacramento di Francesco Jovine 1952 I ventitre giorni della città di Alba di Beppe Fenoglio 1954 Racconti romani di Moravia 1955 Ragazzi di vita di P.P. Pasolini 1958 Il Gattopardo di G. Tomasi di Lampedusa 1959 Il calzolaio di Vigevano di Lucio Mastronardi 1959 La Gilda del MacMahon di Giovanni Testori 1960 La ragazza di Bube di Carlo Cassola 1961 Il giorno della civetta di Leonardo Sciascia 1962 Il giardino dei Finzi Contini di Giorgio Bassani 1962 Memoriale di Paolo Volponi 1963 Libera nos a Malo di Luigi Meneghello
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Poesia 1945-1968: le voci ‘nuove’
Attilio Bertolucci (1911): La capanna indiana (1951) Giorgio Caproni (1912): Il passaggio d’Enea (1956), Congedo del viaggiatore cerimonioso (1965) Franco Fortini (1917): Poesia e errore (1959), Una volta per sempre (1963) Andrea Zanzotto (1921): Dietro il paesaggio (1951), Vocativo (1957), La Beltà (1968) Giorgio Orelli (1921): L’ora del tempo (1962) P.P. Pasolini (1922): Le ceneri di Gramsci (1957) Giovanni Giudici (1924): La vita in versi (1965) Elio Pagliarani (1927): La ragazza Carla (1960) Amelia Rosselli (1930): Variazioni belliche (1964) E. Sanguineti (1930): Laborintus (1956)
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l'età postunitaria (1861-1903): la poesia
G. Carducci (n. 1835) : Giambi ed epodi (1882), Rime nuove (1889), Odi barbare (1893), Rime e ritmi (1898) G. Pascoli (n. 1855) 1891 prima edizione di Myricae, 1903 Canti di Castelvecchio G. D’Annunzio (n. 1863) i grandi romanzi, da Il Piacere a Le vergini delle rocce; 1903 Alcyone
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Primamente intravidi il suo piè stretto
scorrere su per gli aghi arsi dei pini ove estuava l'aere con grande tremito, quasi bianca vampa effusa. 4 Le cicale si tacquero. Più rochi si fecero i ruscelli. Copiosa la résina gemette giù pe' fusti. Riconobbi il colùbro dal sentore. 8 Nel bosco degli ulivi la raggiunsi. Scorsi l'ombre cerulee dei rami su la schiena falcata, e i capei fulvi nell'argento pallàdio trasvolare 12 senza suono. Più lungi, nella stoppia, l'allodola balzò dal solco raso, la chiamò, la chiamò per nome in cielo. Allora anch'io per nome la chiamai. 16 Tra i leandri la vidi che si volse. Come in bronzea mèsse nel falasco entrò, che richiudeasi strepitoso. Più lungi, verso il lido, tra la paglia 20 marina il piede le si torse in fallo. Distesa cadde tra le sabbie e l'acque. Il ponente schiumò ne' suoi capegli. Immensa apparve, immensa nudità. 24
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Surge nel chiaro inverno la fosca turrita Bologna,
e il colle sopra bianco di neve ride. 2 È l'ora soave che il sol morituro saluta le torri e 'l tempio, divo Petronio, tuo; 4 le torri i cui merli tant'ala di secolo lambe, e del solenne tempio la solitaria cima. 6 Il cielo in freddo fulgore adamàntino brilla; e l'aer come velo d'argento giace 8 su 'l fòro, lieve sfumando a torno le moli che levò cupe il braccio clipeato de gli avi. 10 Su gli alti fastigi s'indugia il sole guardando con un sorriso languido di vïola, 12 che ne la bigia pietra nel fosco vermiglio mattone par che risvegli l'anima de i secoli, 14 e un desio mesto pe 'l rigido aere sveglia di rossi maggi, di calde aulenti sere, 16 quando le donne gentili danzavano in piazza e co' i re vinti i consoli tornavano Tale la musa ride fuggente al verso in cui trema un desiderio vano de la bellezza antica
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Dov'era la luna? ché il cielo
notava in un'alba di perla, ed ergersi il mandorlo e il melo parevano a meglio vederla. 4 Venivano soffi di lampi da un nero di nubi laggiù, veniva una voce dai campi: chiù Le stelle lucevano rare tra mezzo alla nebbia di latte: sentivo il cullare del mare, sentivo un fru fru tra le fratte; 12 sentivo nel cuore un sussulto, com'eco d'un grido che fu. Sonava lontano il singulto: chiù Su tutte le lucide vette tremava un sospiro di vento; squassavano le cavallette finissimi sistri d'argento 20 (tintinni a invisibili porte che forse non s'aprono più?...); e c'era quel pianto di morte... chiù
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l'età postunitaria ( ) F. De Sanctis (n. 1817) Storia della letteratura italiana ( ) «La mia vita ha due pagine, una letteraria e l’altra politica, e non penso a lacerare nessuna delle due: sono due doveri che continuerò fino all’ultimo». «La questione critica fondamentale è questa: posti tali tempi, tali dottrine e tali passioni, in che modo questa materia è stata lavorata dal poeta? In che modo quella realtà egli l’ha fatta poesia?». «La parola è potentissima, quando viene dall’anima, e mette in moto tutte le facoltà dell’anima ne’ suoi lettori; ma quando il di dentro è vuoto, e la parola non esprime che se stessa, riesce insipida e noiosa». «La famiglia, la patria, la natura, l’amore sono per il poeta, com’era Dante, cose reali, che riempiono la vita e le dànno uno scopo. Per il Petrarca sono principalmente materia di rappresentazione: l’immagine per lui vale la cosa»; «Gli è che a quest’uomo [Petrarca] mancava quella fede seria e profonda nel proprio mondo, che fece di Caterina una santa e di Dante un poeta. [...] È in abbozzo l’immagine de’ secoli seguenti, di cui fu idolo».
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F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana (Machiavelli)
«Talora ti pare un romano avvolto nel pallio in quella sua gravità, ma guardalo bene e ci troverai il borghese del Risorgimento [...]. Machiavelli in quella sua veste romana è vero borghese moderno, sceso dal piedistallo, uguale tra uguali, che ti parla alla buona e alla naturale»; «Quando Machiavelli scrivea queste cose, l’Italia si trastullava ne’ romanzi e nelle novelle, con lo straniero a casa. Era il popolo meno serio del mondo e meno disciplinato. [...] Senza tempra, moralità, religione, libertà, virtù sono frasi. Al contrario, quando la tempra si rifà, si rifà tutto l’altro»; «Siamo dunque alteri del nostro Machiavelli. Gloria a lui, quando crolla alcuna parte dell’antico edificio. E gloria a lui, quando si fabbrica alcuna parte del nuovo. In questo momento che scrivo, le campane suonano a distesa, e annunziano l’entrata degl’italiani a Roma [20 settembre 1870]. Il potere temporale crolla. E si grida il viva all’unità d’Italia. Sia gloria al Machiavelli».
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Gli scrittori siciliani: da Verga a Camilleri
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l'età postunitaria (1861-1903) G. Verga (n. 1840)
1880 Vita dei campi, 1881 I Malavoglia, 1883 Novelle rusticane, 1889 Mastro-don Gesualdo «Lo scrittore grande è il celebratore della plebe del suo paese, la campagna attorno a Catania. […] Verga ha tanti linguaggi quanti sono gli strati ch’egli indaga, e li gestisce in parallelo. Dalla ‘simpatia’ verso i cosiddetti umili del Verga, che personalmente era conservatore come i ‘galantuomini’ alla cui classe apparteneva, non è lecita alcuna illazione di carattere politico: il Verga rusticano è il frutto più meraviglioso dell’oggettività e della sperimentazione veristica. […] La narrazione si fa di suo, come è stata detta, epica e favolosa, autorevolmente remota nel referto d’un eterno presente» (Contini).
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G. Verga, I Malavoglia, Prefazione (1) Questo racconto è lo studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni le prime irrequietudini pel benessere; e quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola, vissuta sino allora relativamente felice, la vaga bramosìa dell'ignoto, l'accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio. Il movente dell'attività umana che produce la fiumana del progresso è preso qui alle sue sorgenti, nelle proporzioni più modeste e materiali. Il meccanismo delle passioni che la determinano in quelle basse sfere è meno complicato, e potrà quindi osservarsi con maggior precisione. Basta lasciare al quadro le sue tinte schiette e tranquille, e il suo disegno semplice. Man mano che cotesta ricerca del meglio di cui l'uomo è travagliato cresce e si dilata, tende anche ad elevarsi, e segue il suo moto ascendente nelle classi sociali.
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G. Verga, I Malavoglia, Prefazione (2)
Il cammino fatale, incessante, spesso faticoso e febbrile che segue l'umanità per raggiungere la conquista del progresso, è grandioso nel suo risultato, visto nell'insieme, da lontano. Nella luce gloriosa che l'accompagna dileguansi le irrequietudini, le avidità, l'egoismo, tutte le passioni, tutti i vizi che si trasformano in virtù, tutte le debolezze che aiutano l'immane lavoro, tutte le contraddizioni, dal cui attrito sviluppasi la luce della verità. Il risultato umanitario copre quanto c'è di meschino negli interessi particolari che lo producono; li giustifica quasi come mezzi necessari a stimolare l'attività dell'individuo cooperante inconscio a beneficio di tutti. Ogni movente di cotesto lavorìo universale, dalla ricerca del benessere materiale alle più elevate ambizioni, è legittimato dal solo fatto della sua opportunità a raggiungere lo scopo del movimento incessante; e quando si conosce dove vada questa immensa corrente dell'attività umana, non si domanda al certo come ci va. Solo l'osservatore, travolto anch'esso dalla fiumana, guardandosi attorno, ha il diritto di interessarsi ai deboli che restano per via, ai fiacchi che si lasciano sorpassare dall'onda per finire più presto, ai vinti che levano le braccia disperate, e piegano il capo sotto il piede brutale dei sopravvegnenti, i vincitori d'oggi, affrettati anch'essi, avidi anch'essi d'arrivare, e che saranno sorpassati domani.
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G. Verga, I Malavoglia, cap. I (1)
Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza; ce n'erano persino ad Ognina, e ad Aci Castello, tutti buona e brava gente di mare, proprio all'opposto di quel che sembrava dal nomignolo, come dev'essere. Veramente nel libro della parrocchia si chiamavano Toscano, ma questo non voleva dir nulla, poiché da che il mondo era mondo, all'Ognina, a Trezza e ad Aci Castello, li avevano sempre conosciuti per Malavoglia, di padre in figlio, che avevano sempre avuto delle barche sull'acqua, e delle tegole al sole. Adesso a Trezza non rimanevano che i Malavoglia di padron ‘Ntoni, quelli della casa del nespolo, e della Provvidenza ch'era ammarrata sul greto, sotto il lavatoio, accanto alla Concetta dello zio Cola, e alla paranza di padron Fortunato Cipolla. Le burrasche che avevano disperso di qua e di là gli altri Malavoglia, erano passate senza far gran danno sulla casa del nespolo e sulla barca ammarrata sotto il lavatoio; e padron ‘Ntoni, per spiegare il miracolo, soleva dire, mostrando il pugno chiuso – un pugno che sembrava fatto di legno di noce - «Per menare il remo bisogna che le cinque dita s'aiutino l'un l'altro». Diceva pure, «Gli uomini son fatti come le dita della mano: il dito grosso deve far da dito grosso, e il dito piccolo deve far da dito piccolo».
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G. Verga, I Malavoglia, cap. I (2)
E la famigliuola di padron ‘Ntoni era realmente disposta come le dita della mano. Prima veniva lui, il dito grosso, che comandava le feste e le quarant'ore; poi suo figlio Bastiano, Bastianazzo, perché era grande e grosso quanto il San Cristoforo che c'era dipinto sotto l'arco della pescheria della città; e così grande e grosso com'era filava diritto alla manovra comandata, e non si sarebbe soffiato il naso se suo padre non gli avesse detto «sòffiati il naso» tanto che s'era tolta in moglie la Longa quando gli avevano detto «pìgliatela». Poi veniva la Longa, una piccina che badava a tessere, salare le acciughe, e far figliuoli, da buona massaia; infine i nipoti, in ordine di anzianità: ‘Ntoni, il maggiore, un bighellone di vent'anni, che si buscava tutt'ora qualche scappellotto dal nonno, e qualche pedata più giù per rimettere l'equilibrio, quando lo scappellotto era stato troppo forte; Luca, «che aveva più giudizio del grande» ripeteva il nonno; Mena (Filomena) soprannominata «Sant'Agata» perché stava sempre al telaio, e si suol dire «donna di telaio, gallina di pollaio, e triglia di gennaio»; Alessi (Alessio) un moccioso tutto suo nonno colui! ; e Lia (Rosalia) ancora né carne né pesce. – Alla domenica, quando entravano in chiesa, l'uno dietro l'altro, pareva una processione. Padron ‘Ntoni sapeva anche certi motti e proverbi che aveva sentito dagli antichi, «perché il motto degli antichi mai mentì»: – «Senza pilota barca non cammina» – «Per far da papa bisogna saper far da sagrestano» – oppure – «Fa il mestiere che sai, che se non arricchisci camperai» – «Contentati di quel che t'ha fatto tuo padre; se non altro non sarai un birbante» ed altre sentenze giudiziose.
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: la narrativa la linea verista: G. Verga (1881, I Malavoglia), L. Capuana, F. De Roberto (I Viceré, 1894) la linea scapigliata: Milano, post 1860 (Carlo Alberto Pisani Dossi, La vita di Alberto Pisani scritta da Carlo Dossi, 1870) la linea antipositivista e spiritualista di Emilio De Marchi (Demetrio Pianelli, 1890) e soprattutto Antonio Fogazzaro (Piccolo mondo antico, 1895). la linea degli scrittori per l’infanzia: Le avventure di Pinocchio di Collodi (1883); Cuore di Edmondo De Amicis (1886) Gabriele D’Annunzio: tra estetismo (Il piacere, 1889) e superomismo (Le Vergini delle Rocce, 1895)
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Carlo Dossi, Vita di Alberto Pisani, 1870
Cap. IV Degno di paracelso! È lo studio degli studi. Sente il tabacco, l'inchiostro e la citazione latina. È a tramontana, a terreno; è a volta da cui die' in fuori l'umidità. Tien le pareti, tutte a scaffali, con su spaventosi volumi in ramatina come il sospiro dei gatti. Ecco i dieci schienali arabescati di oro della rarìssima òpera "de nùmero atomorum"; presso, è la completa voluminosa sèrie delle gramàtiche (gramàtica, cioè a dire, il modo con cui si apprende a piedi il montare a cavallo); poi, raccolta delle più massiccie disputazioni... e quella sulla parola culex, e l'altra intorno alla lèttera e considerata siccome còpula, e la arcifiera "sulla natura dell'aurèola del Monte Tàbor". Ed ecco, in un tratto dell'ùltimo palco, il famoso trattato "de nuce beneventana" quaranta tomi inoctavo, vestiti di pergamena, i quali, per il manco di uno, sèmbran dentiera priva di un dente occhiale; ecco - tagliando corto - una infinita turba di libraccioni, e nelle scansìe e fuori... spècula, theatra, convìa, thesàuri... di astrologìa, teologìa, etimologìa, ed altre scienze in ìa - tutta marròca.
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Carlo Dossi, Vita di Alberto Pisani, 1870
Cap. I Un dopo-pranzo di estate; il sole fà da trìpoli ancora alle gronde, e stelleggia i vetri a Praverde. Praverde è una brigata di case attorno di un campanile su 'n monticello isolato. Sotto di lui, la pianura. L'occhio, dall'alto, non si lascia mai di còrrere lungo le viti a festone ed i filari di gelsi dalle seguaci ombrettine; di attraversare i verdi pratelli solcati di rivoletti e i campi dalle ande quasi a riga e compasso; nè di girare e le cascine e i tuguri, così puliti, così di pace... in distanza, saltando e risaltando canali, siepi, sentieri. E, come si avesse innanzi una gran planimetrìa a colori. Ma, da lontano, un rintrono. Che vi ha? Niun contadino astròloga il cielo. Vi ha un temporale, ma è copia; quello dell'uomo; cattivo mille volte di più; mille di meno, maestoso.
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Emilio De Marchi, Demetrio Pianelli, 1890
Verso mezzodí Cesarino Pianelli, cassiere aggiunto, vide entrare nell’ufficio il cassiere Martini piú pallido del solito, col viso stravolto, con un telegramma in mano. «Ebbene?» gli domandò, «che notizie mi dà?» «Bisogna che io parta immediatamente. È moribonda!» rispose il Martini, con un groppo alla gola che gli mozzò le parole. Povero diavolo! L’aveva sposata da poco piú di un anno e dopo un anno di tribolazioni, e quasi di agonia continua la poverina moriva consunta a Nervi, dove il medico l’aveva mandata a passare l’inverno. «Vada, vada, Martini, resto io. Si faccia coraggio, vedrà. La gioventú si aiuta sempre.» «Dovrei avvertire il commendatore, ma la corsa parte alle dodici e quarantacinque e non ho tempo. Gli scriverò appena potrò. Guardi, Pianelli, chiudo in questa cassa i valori principali e lascio a lei la chiave di quest’altra cassa. Vuole che gliene faccia la consegna? Saranno dieci o dodici mila lire in tutto.» «Se lei si fida di me, per conto mio non ho bisogno di consegna» soggiunse il cassiere aggiunto, tutto commosso e premuroso. «Mi fa una carità. Tenga conto del movimento di cassa e basta.» «Si fidi di me: vada, non perda tempo» disse premurosamente il Pianelli, confrontando il suo orologio con quello elettrico del cortile. «Se c’è bisogno, mi telegrafi.» «Si faccia animo; fin che c’è vita, c’è speranza.» «Grazie» balbettò il Martini. Strinse la mano al Pianelli, sforzandosi di ingoiare le sue lagrime e se ne andò. «Povero diavolo!» mormorò l’altro, tornando al suo posto. «Se c’è un galantuomo, gli càpitano tutte.»
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Emilio De Marchi, Demetrio Pianelli, 1890
Verso mezzodí Cesarino Pianelli, cassiere aggiunto, vide entrare nell’ufficio il cassiere Martini piú pallido del solito, col viso stravolto, con un telegramma in mano. «Ebbene?» gli domandò, «che notizie mi dà?» «Bisogna che io parta immediatamente. È moribonda!» rispose il Martini, con un groppo alla gola che gli mozzò le parole. Povero diavolo! L’aveva sposata da poco piú di un anno e dopo un anno di tribolazioni, e quasi di agonia continua la poverina moriva consunta a Nervi, dove il medico l’aveva mandata a passare l’inverno. «Vada, vada, Martini, resto io. Si faccia coraggio, vedrà. La gioventú si aiuta sempre.» «Dovrei avvertire il commendatore, ma la corsa parte alle dodici e quarantacinque e non ho tempo. Gli scriverò appena potrò. Guardi, Pianelli, chiudo in questa cassa i valori principali e lascio a lei la chiave di quest’altra cassa. Vuole che gliene faccia la consegna? Saranno dieci o dodici mila lire in tutto.» «Se lei si fida di me, per conto mio non ho bisogno di consegna» soggiunse il cassiere aggiunto, tutto commosso e premuroso. «Mi fa una carità. Tenga conto del movimento di cassa e basta.» «Si fidi di me: vada, non perda tempo» disse premurosamente il Pianelli, confrontando il suo orologio con quello elettrico del cortile. «Se c’è bisogno, mi telegrafi.» «Si faccia animo; fin che c’è vita, c’è speranza.» «Grazie» balbettò il Martini. Strinse la mano al Pianelli, sforzandosi di ingoiare le sue lagrime e se ne andò. «Povero diavolo!» mormorò l’altro, tornando al suo posto. «Se c’è un galantuomo, gli càpitano tutte.»
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Antonio Fogazzaro, Piccolo mondo antico, 1895
Soffiava sul lago una breva fredda, infuriata di voler cacciar le nubi grigie, pesanti sui cocuzzoli scuri delle montagne. Infatti, quando i Pasotti, scendendo da Albogasio Superiore, arrivarono a Casarico, non pioveva ancora. Le onde stramazzavano tuonando sulla riva, sconquassavan le barche incatenate, mostravano qua e là, sino all'opposta sponda austera del Doi, un lingueggiar di spume bianche. Ma giù a ponente, in fondo al lago, si vedeva un chiaro, un principio di calma, una stanchezza della breva; e dietro al cupo monte di Caprino usciva il primo fumo di pioggia. Pasotti, in soprabito nero di cerimonia, col cappello a staio in testa e la grossa mazza di bambù in mano, camminava nervoso per la riva, guardava di qua, guardava di là, si fermava a picchiar forte la mazza a terra, chiamando quell'asino di barcaiuolo che non compariva. Il piccolo battello nero con i cuscini rossi, la tenda bianca e rossa, il sedile posticcio di parata piantato a traverso, i remi pronti e incrociati a poppa, si dibatteva, percosso dalle onde, fra due barconi carichi di carbone che oscillavano appena.
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Antonio Fogazzaro, Piccolo mondo antico, 1895
Soffiava sul lago una breva fredda, infuriata di voler cacciar le nubi grigie, pesanti sui cocuzzoli scuri delle montagne. Infatti, quando i Pasotti, scendendo da Albogasio Superiore, arrivarono a Casarico, non pioveva ancora. Le onde stramazzavano tuonando sulla riva, sconquassavan le barche incatenate, mostravano qua e là, sino all'opposta sponda austera del Doi, un lingueggiar di spume bianche. Ma giù a ponente, in fondo al lago, si vedeva un chiaro, un principio di calma, una stanchezza della breva; e dietro al cupo monte di Caprino usciva il primo fumo di pioggia. Pasotti, in soprabito nero di cerimonia, col cappello a staio in testa e la grossa mazza di bambù in mano, camminava nervoso per la riva, guardava di qua, guardava di là, si fermava a picchiar forte la mazza a terra, chiamando quell'asino di barcaiuolo che non compariva. Il piccolo battello nero con i cuscini rossi, la tenda bianca e rossa, il sedile posticcio di parata piantato a traverso, i remi pronti e incrociati a poppa, si dibatteva, percosso dalle onde, fra due barconi carichi di carbone che oscillavano appena.
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Gabriele D’Annunzio, Il piacere, 1889
L'anno moriva, assai dolcemente. Il sole di San Silvestro spandeva non so che tepor velato, mollissimo, aureo, quasi primaverile, nel ciel di Roma. Tutte le vie erano popolose come nelle domeniche di Maggio. Su la piazza Barberini, su la piazza di Spagna una moltitudine di vetture passava in corsa traversando; e dalle due piazze il romorio confuso e continuo, salendo alla Trinità de' Monti, alla via Sistina, giungeva fin nelle stanze del palazzo Zuccari, attenuato. Le stanze andavansi empiendo a poco a poco del profumo ch'esalavan ne' vasi i fiori freschi. Le rose folte e larghe stavano immerse in certe coppe di cristallo che si levavan sottili da una specie di stelo dorato slargandosi in guisa d'un giglio adamantino, a similitudine di quelle che sorgon dietro la Vergine nel tondo di Sandro Botticelli alla Galleria Borghese. Nessuna altra forma di coppa eguaglia in eleganza tal forma: i fiori entro quella prigione diafana paion quasi spiritualizzarsi e meglio dare imagine di una religiosa o amorosa offerta. Andrea Sperelli aspettava nelle sue stanze un'amante. Tutte le cose a torno rivelavano infatti una special cura d'amore. Il legno di ginepro ardeva nel caminetto e la piccola tavola del tè era pronta, con tazze e sottocoppe in maiolica di Castel Durante ornate d'istoriette mitologiche da Luzio Dolci, antiche forme d'inimitabile grazia, ove sotto le figure erano scritti in carattere corsivo a zàffara nera esametri d'Ovidio. La luce entrava temperata dalle tende di broccatello rosso a melagrane d'argento riccio, a foglie e a motti. Come il sole pomeridiano feriva i vetri, la trama fiorita delle tendine di pizzo si disegnava sul tappeto.
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Le rose folte e larghe stavano immerse in certe coppe di cristallo che si levavan sottili da una specie di stelo dorato slargandosi in guisa d'un giglio adamantino, a similitudine di quelle che sorgon dietro la Vergine nel tondo di Sandro Botticelli alla Galleria Borghese. Nessuna altra forma di coppa eguaglia in eleganza tal forma: i fiori entro quella prigione diafana paion quasi spiritualizzarsi e meglio dare imagine di una religiosa o amorosa offerta.
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1904-1926 La narrativa 1904, Il fu Mattia Pascal di L. Pirandello
1912, Il mio Carso di S. Slataper 1913, Canne al vento di G. Deledda; Un uomo finito di G. Papini [I vecchi e i giovani di L. Pirandello] 1919, Con me e con gli alpini di P. Jahier 1920, Pesci rossi di O. Cecchi 1921 Il podere di F. Tozzi 1923, La coscienza di Zeno di I. Svevo 1926, Uno, nessuno e centomila di L. Pirandello
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E. Montale, da Ossi di seppia, 1925
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco lo dichiari e risplenda come un croco perduto in mezzo a un polveroso prato. Ah l'uomo che se ne va sicuro, agli altri ed a se stesso amico, e l'ombra sua non cura che la canicola stampa sopra uno scalcinato muro! Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. (datato 10 luglio 1923)
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Il mondo di Ossi di seppia è un mondo negativo: secondo luoghi diventati proverbiali, il poeta si sofferma a descrivere il «male di vivere» che ha incontrato, e non è in grado di dire al suo lettore che «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». […] Non è remunerato da quel minimo di vitalità che inerisce anche all’operazione poetica, come appare luminosamente (e da lui pure asserito in modo esplicito) nel maggiore dei poeti «negativi», Giacomo Leopardi. Si aggiunga che la radicalità della poesia negativa è sottolineata dalla mancanza di qualsiasi ostentazione rivoluzionaria tanto nel linguaggio, di cui è facilmente dimostrabile la continuità con la tradizione fino al Pascoli e al Gozzano, quanto nella metrica, che, sia pure in forme non vincolate, libera frequentemente misure tradizionali e rime. (G. Contini)
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1904-1926 La narrativa 1904, Il fu Mattia Pascal di L. Pirandello
1912, Il mio Carso di S. Slataper 1913, Canne al vento di G. Deledda; Un uomo finito di G. Papini [I vecchi e i giovani di L. Pirandello] 1919, Con me e con gli alpini di P. Jahier 1920, Pesci rossi di O. Cecchi 1921 Il podere di F. Tozzi 1923, La coscienza di Zeno di I. Svevo 1926, Uno, nessuno e centomila di L. Pirandello
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L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal, 1904
Una delle poche cose, anzi forse la sola ch'io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal. E me ne approfittavo. Ogni qual volta qualcuno de' miei amici o conoscenti dimostrava d'aver perduto il senno fino al punto di venire da me per qualche consiglio o suggerimento, mi stringevo nelle spalle, socchiudevo gli occhi e gli rispondevo: Io mi chiamo Mattia Pascal. Grazie caro. Questo lo so. - E ti par poco? Non pareva molto, per dir la verità, neanche a me. Ma ignoravo allora che cosa volesse dire il non sapere neppur questo, il non poter più rispondere, cioè, come prima, all'occorrenza: - Io mi chiamo Mattia Pascal. Qualcuno vorrà bene compiangermi (costa così poco), immaginando l'atroce cordoglio d'un disgraziato, al quale avvenga di scoprire tutt'a un tratto che... sì, niente, insomma: né padre, né madre, né come fu o come non fu; e vorrà pur bene indignarsi (costa anche meno) della corruzione dei costumi, e de' vizii, e della tristezza dei tempi, che di tanto male possono esser cagione a un povero innocente. Ebbene, si accomodi. Ma è mio dovere avvertirlo che non si tratta propriamente di questo. Potrei qui esporre, di fatti, in un albero genealogico, l'origine e la discendenza della mia famiglia e dimostrare come qualmente non solo ho conosciuto mio padre e mia madre, ma e gli antenati miei e le loro azioni, in un lungo decorso di tempo, non tutte veramente lodevoli. E allora? Ecco: il mio caso è assai più strano e diverso; tanto diverso e strano che mi faccio a narrarlo.
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L. Pirandello, Uno, nessuno e centomila, 1926
– Che fai? – mia moglie mi domandò, vedendomi insolitamente indugiare davanti allo specchio. – Niente, – le risposi, – mi guardo qua, dentro il naso, in questa narice. Premendo, avverto un certo dolorino. Mia moglie sorrise e disse: – Credevo ti guardassi da che parte ti pende. Mi voltai come un cane a cui qualcuno avesse pestato la coda: – Mi pende? A me? Il naso? E mia moglie, placidamente: – Ma sí, caro. Guàrdatelo bene: ti pende verso destra. Avevo ventotto anni e sempre fin allora ritenuto il mio naso, se non proprio bello, almeno molto decente, come insieme tutte le altre parti della mia persona. Per cui m’era stato facile ammettere e sostenere quel che di solito ammettono e sostengono tutti coloro che non hanno avuto la sciagura di sortire un corpo deforme: che cioè sia da sciocchi invanire per le proprie fattezze. La scoperta improvvisa e inattesa di quel difetto perciò mi stizzí come un immeritato castigo.
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Italo Svevo, La coscienza di Zeno, Prefazione 1923
Io sono il dottore di cui in questa novella si parla talvolta con parole poco lusinghiere. Chi di psicoanalisi s'intende, sa dove piazzare l'antipatia che il paziente mi dedica. Di psico-analisi non parlerò perché qui entro se ne parla già a sufficienza. Debbo scusarmi di aver indotto il mio paziente a scrivere la sua autobiografia; gli studiosi di psicoanalisi arriccerranno il naso a tanta novità. Ma egli era vecchio ed io sperai che in tale rievocazione il suo passato si rinverdisse, che l'autobiografia fosse un buon preludio alla psicoanalisi. Oggi ancora la mia idea mi pare buona perché mi ha dato dei risultati insperati, che sarebbero stati maggiori se il malato sul più bello non si fosse sottratto alla cura truffandomi del frutto della mia lunga paziente analisi di queste memorie. Le pubblico per vendetta e spero gli dispiaccia. Sappia però ch'io sono pronto di dividere con lui i lauti onorarii che ricaverò da questa pubblicazione a patto egli riprenda la cura. Sembrava tanto curioso di se stesso! Se sapesse quante sorprese potrebbero risultargli dal commento delle tante verità e bugie ch'egli ha qui accumulate!... DOTTOR S.
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1904-1926 La narrativa 1904, Il fu Mattia Pascal di L. Pirandello
1912, Il mio Carso di S. Slataper 1913, Canne al vento di G. Deledda; Un uomo finito di G. Papini [I vecchi e i giovani di L. Pirandello] 1919, Con me e con gli alpini di P. Jahier 1920, Pesci rossi di O. Cecchi 1921 Il podere di F. Tozzi 1923, La coscienza di Zeno di I. Svevo 1926, Uno, nessuno e centomila di L. Pirandello
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G. Contini, Introduzione a C.E. Gadda, La cognizione del dolore, 1963
Verga gestisce i suoi esperimenti in vitro con ineccepibile obbiettività positivistica, un’obbiettività talmente geniale da farsi prendere (oggi) per carità. Ma partecipazione e corresponsabilità bisogna cercarle all’altezza del neoverismo, o piuttosto di Pavese; che nell’invenzione narrativa gioca qualcosa di assai vicino alla salute della sua anima. […] E’ ovvio destino degli iniziatori che il loro impulso, coniugato a moventi allotri, si specializzi secondo finalità non coincidenti con le loro. […] Come il primo, così il secondo verismo ebbe rapidamente i suoi illustratori paesano, d’una qualità che anche per i tempi moderni si vorrebbe sempre comparabile alla sostenutezza benpensante dei Fogazzaro, dei De Marchi, delle Deledda.
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Grazia Deledda, Canne al vento, 1913
Tutto il giorno Efix, il servo delle dame Pintor, aveva lavorato a rinforzare l'argine primitivo da lui stesso costruito un po' per volta a furia d'anni e di fatica, giú in fondo al poderetto lungo il fiume: e al cader della sera contemplava la sua opera dall'alto, seduto davanti alla capanna sotto il ciglione glauco di canne a mezza costa sulla bianca collina dei Colombi. Eccolo tutto ai suoi piedi, silenzioso e qua e là scintillante d'acque nel crepuscolo, il poderetto che Efix considerava piú suo che delle sue padrone: trent'anni di possesso e di lavoro lo han fatto ben suo, e le siepi di fichi d'India che lo chiudono dall'alto in basso come due muri grigi serpeggianti di scaglione in scaglione dalla collina al fiume, gli sembrano i confini del mondo. Il servo non guardava al di là del poderetto anche perché i terreni da una parte e dall'altra erano un tempo appartenuti alle sue padrone: perché ricordare il passato? Rimpianto inutile. Meglio pensare all'avvenire e sperare nell'aiuto di Dio.
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Federigo Tozzi: una vita ‘esemplare’
1883, nasce a Siena, ultimo di otto figli e unico a sopravvivere, da una coppia di contadini trasferitisi in città. Il padre, violento volgare e autoritario, gestisce una trattoria; la madre, malata di epilessia, muore nel 1895 Espulso dal Seminario Arcivescovile e dall’Istituto di Belle Arti per cattiva condotta, studia alle scuole tecniche 1901, si iscrive al Partito socialista; inizia l’inquieta relazione con la contadina Isola, che nel 1902 lascia per Emma 1904, una malattia infettiva agli occhi lo costringe a rimanere al buio per mesi 1908, viene assunto dalle Ferrovie dello Stato, come impiegato alla stazione di Pontedera; muore il padre; sposa Emma e si stabilisce nel podere di famiglia dove si dedica alla lettura e alla scrittura 1914, si trasferisce a Roma 1917, pubblica la raccolta di prose Bestie 1918, scrive di getto Il podere e tre croci 1919, pubblica il romanzo Con gli occhi chiusi 1920, muore a Roma di polmonite
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Federigo Tozzi, Il podere, 1921
Nel millenovecento, Remigio Selmi aveva venti anni; ed era aiuto applicato alla stazione di Campiglia. Da parecchio tempo stava in discordia con il padre e non sapeva che al suo piede bucato da una bulletta delle scarpe era ormai venuta anche la cancrena. Invece credeva che stesse meglio; senza sospettare che, se non gliene facevano sapere niente, volevano tenerlo lontano da casa più che fosse possibile. Ma una sera ricevette una cartolina dal chirurgo che lo curava; nella quale era scritto che la malattia non dava più da sperare. La fece leggere al capostazione; ed ebbe il permesso di partire subito, con il diretto che era per passare. Arrivò alla Casuccia la notte: tre miglia da Siena, fuor di Porta Romana; e, trovato l’uscio aperto, entrò nella camera del padre senza che prima nessuno lo vedesse. Giacomo era desto e appoggiato a quattro guanciali; mentre due delle assalariate, Gegia e Dinda, gli sostenevano le braccia lungo la coperta, attente a mettergliele in un altro modo quando non poteva stare più nella stessa positura. Sopra il canterano, una lucernina di ottone; con tutti e quattro i beccucci accesi. Remigio salì in ginocchio sul letto. Ma Giacomo, che aveva la testa ciondoloni sul petto e gli occhi chiusi, non se ne accorse né meno. Allora, gli chiese: «Non mi riconosci?»
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S. Freud, Al di là del principio di piacere, 1921
«Empedocle di Agrigento, nato all'incirca nel 495 a.C., si presenta come una figura fra le più eminenti e singolari della storia della civiltà greca. [...] Il nostro interesse si accentra su quella dottrina di Empedocle che si avvicina talmente alla dottrina psicoanalitica delle pulsioni, da indurci nella tentazione di affermare che le due dottrine sarebbero identiche se non fosse per un'unica differenza: quella del filosofo greco è una fantasia cosmica, la nostra aspira più modestamente a una validità biologica. [...] I due principi fondamentali di Empedocle – philìa (amore, amicizia) e neikos (discordia, odio) – sia per il nome che per la funzione che assolvono, sono la stessa cosa delle nostre due pulsioni originarie Eros e Distruzione».
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S. Slataper, Il mio Carso (1912)
Vorrei dirvi: Sono nato in carso, in una casupola col tetto di paglia annerita dalle piove e dal fumo. C'era un cane spelacchiato e rauco, due oche infanghite sotto il ventre, una zappa, una vanga, e dal mucchio di concio quasi senza strame scolavano, dopo la piova, canaletti di succo brunastro. Vorrei dirvi: Sono nato in Croazia, nella grande foresta di roveri. D'inverno tutto era bianco di neve, la porta non si poteva aprire che a pertugio, e la notte sentivo urlare i lupi. Mamma m'infagottava con cenci le mani gonfie e rosse, e io mi buttavo sul focolaio frignando per il freddo. Vorrei dirvi: Sono nato nella pianura morava e correvo come una lepre per i lunghi solchi, levando le cornacchie crocidanti. Mi buttavo a pancia a terra, sradicavo una barbabietola e la rosicavo terrosa. Poi son venuto qui, ho tentato di addomesticarmi, ho imparato l'italiano, ho scelto gli amici fra i giovani piú colti; ma presto devo tornare in patria perché qui sto molto male. Vorrei ingannarvi, ma non mi credereste. Voi siete scaltri e sagaci. Voi capireste subito che sono un povero italiano che cerca d'imbarbarire le sue solitarie preoccupazioni. È meglio ch'io confessi d'esservi fratello, anche se talvolta io vi guardi trasognato e lontano e mi senta timido davanti alla vostra coltura e ai vostri ragionamenti. Io ho, forse, paura di voi. Le vostre obiezioni mi chiudono a poco a poco in gabbia, mentre v'ascolto disinteressato e contento, e non m'accorgo che voi state gustando la vostra intelligente bravura. E allora divento rosso e zitto, nell'angolo del tavolino; e penso alla consolazione dei grandi alberi aperti al vento.
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G. Papini, Un uomo finito (1913)
Io non son mai stato bambino. Non ho avuto fanciullezza. Calde e bionde giornate di ebbrezza puerile; lunghe serenità dell'innocenza; sorprese della scoperta quotidiana dell'universo: che son mai? Non le conosco o non le rammento. L'ho sapute dai libri, dopo; le indovino, ora, nei ragazzi che vedo; l’ho sentite e provate per la .prima volta in me, passati i vent'anni, in qualche attimo felice di armistizio o di abbandono. Fanciullezza è amore, è letizia, è spensieratezza ed io mi vedo nel passato, sempre, separato, triste, meditante. Fin da ragazzo mi son sentito tremendamente solo e diverso — né so il perchè. Forse perchè i miei eran poveri o perchè non ero nato come gli altri ? Non so : ricordo soltanto che una zia giovane mi dette il soprannome di vecchio a sei o sett'anni e che tutti i parenti l'accettarono. E difatti me ne stavo il più del tempo serio e accigliato: discorrevo pochissimo, anche cogli altri ragazzi ; i complimenti mi davan noia ; i gestri mi facevan dispetto ; e al chiasso sfrenato dei compagni dell'età più bella preferivo la solitudine dei cantucci più riparati della nostra casa piccina, povera e buia. Ero, insomma, quel che le signore col cappello chiamano un «bambino scontroso» e le donne in capelli «un rospo». Avevan ragione : dovevo essere, ed ero, tremendamente antipatico a tutti. E mi ricordo che sentivo benissimo intorno a me questa antipatia la quale mi faceva più timido, più malinconico, più imbronciato che mai.
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Benedetto Croce 1902, Estetica ; 1908, L’intuizione pura e il carattere lirico dell’arte; 1918, Carattere di totalità dell’espressione artistica; 1936, La poesia arte = (1) intuizione pura, (2) attività dello spirito anteriore a ogni logica o ragione o giudizio, (3) forma di conoscenza primitiva e aurorale,(4) espressione e compendio del cuore dell’uomo identità e simultaneità di intuizione ed espressione (o forma) = sintesi a priori autonomia dell’arte >< eteronomia dell’arte (che fa dipendere il valore dell’arte da valori estrinseci come l’edificazione morale, la conoscenza logica, il piacere estetizzante) distinzione di poesia e non poesia (la prima come folgorazione istantanea, come espressione dell’universale che è in noi; la seconda come costume oratorio).
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Benedetto Croce Filosofia: La logica come scienza del concetto puro, ed. definitiva 1909 Storiografia: Storia dell’età barocca in Italia del 1920; Storia d’Italia dal 1871 al 1915, 1928 Filologia: Lirici marinisti, 1910 Critica letteraria: Ariosto, 1920 Autobiografia: Contributo alla critica di me stesso, 1918 (con una finale postilla del 1950)
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B. Croce, Contributo alla critica di me stesso, 1918
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La poesia 1903 Govoni, Armonia in grigio et in silenzio 1907 Gozzano, La via del rifugio 1910 Moretti, Poesie scritte col lapis; [Palazzeschi, L’incendiario] 1911 Gozzano, I colloqui; Moretti, Poesie di tutti i giorni; Sbarbaro, Resine; Saba, Poesie 1912 [Fòlgore, Il canto dei motori] 1913 Rebora, Frammenti lirici 1914 Campana, Canti orfici; Sbarbaro, Pianissimo; Bacchelli, Poemi lirici; [Marinetti, Zang Tumb Tumb] 1915 [Govoni, Rarefazioni e parole in libertà] 1916 Cardarelli, Prologhi; Ungaretti, Il porto sepolto 1918 Boine, Frantumi 1919 Ungaretti, Allegria di naufragi 1920 Cardarelli, Viaggi nel tempo 1921 Saba, Canzoniere 1922 Rebora, Canti anonimi 1925 Montale, Ossi di seppia
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I poeti del Novecento: le generazioni (O
I poeti del Novecento: le generazioni (O. Macrì, Le generazioni nella poesia italiana del Novecento, 1953) I generazione: autori nati tra il 1883 e il 1890 G. Gozzano e gli altri poeti crepuscolari D. Campana (CO 14), C. Rebora (FL 13), C. Sbarbaro (P 14), U. Saba (C 21), V. Cardarelli (P 16), G. Ungaretti (PS 16), A. Palazzeschi II generazione: autori nati tra il 1894 e il 1901 E. Montale (OS 25), S. Quasimodo (AT 30), C. Betocchi (RVS 32), S. Solmi III generazione: autori nati tra il 1906 e il 1914 S. Penna, C. Pavese (LS 36), L. Sinisgalli (CE 39), A. Gatto, A. Bertolucci, G. Caproni, V. Sereni (F 41), M. Luzi (B 35), P. Bigongiari [IV generazione: autori nati tra il 1921 e il 1928] A. Zanzotto (DP 51), G. Orelli, P.P. Pasolini (MG 54), G. Giudici, L. Erba, B. Cattafi [V generazione: autori nati tra il 1930 e il 1935] A. Rosselli (VB 64), E. Saguineti (L 56), G. Raboni (CV 66), A. Porta
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Guido Gozzano, Il suo verso, e in particolare l’endecasillabo, in cui fa le sue prove migliori, applica una sonorità dannunziana e una dilatazione pascoliana (nel senso che fu definito dal Serra) a una materia prosaica che non esclude affatto, nel suo caso, la partecipazione al canto. Con questo, va tuttavia ridotto il credito fatto un po’ troppo corrivamente alla tecnica del Gozzano […]: il suo lassismo nel computo delle sillabe, nell’esattezza delle rime, nell’obbedienza agli schemi formali indica che con questo poeta d’innegabile dono si è avuta, rispetto ai maestri, e soprattutto rispetto al Pascoli, una netta discesa culturale; che fu una componente non trascurabile, se pur preterintenzionale, della fortuna del verso libero in Italia. […] Ma dov’è lo stimolo poetico del Gozzano? Egli rappresenta, con molta compiacenza verso se stesso, la sua parte di morituro, costretto a viaggi esotici per scansare il viaggio definitivo, fissato nel suo ruolo, se non d’infante come il Corazzini, di goliardico adolescente, di eterno amatore di «cameriste», sartine e anche (cinicamente) «signorine»; ma lo schermo, non tragico bensì elegiaco e non privo di voluttà, della morte intercala una certa distanza rispetto al presente e gli contente di fruirlo solo come deposito di passato o come aggancio a «ipotesi» future o immaginarie. (da G. Contini)
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G. Gozzano, La signorina Felicita ovvero la felicità (in I Colloqui, 1911), vv. 1-24
10 luglio: santa Felicita Signorina Felicita, a quest’ora scende la sera nel giardino antico della tua casa. Nel mio cuore amico scende il ricordo. E ti rivedo ancora, e Ivrea rivedo e la cerulea Dora e quel dolce paese che non dico. Signorina Felicita, è il tuo giorno! A quest’ora che fai? Tosti il caffè, e il buon aroma si diffonde intorno? O cuci i lini e canti e pensi a me, all’avvocato che non fa ritorno? E l’avvocato è qui: che pensa a te. vv. 1-2, V. Sereni, Concerto in giardino, in Frontiera 1941: «A quest’ora / innaffiano i giardini in tutta Europa» v. 5, G. Carducci, Piemonte, in Rime e ritmi 1899: «Ivrea la bella che le rosse torri / specchia sognando a la cerulea Dora» v. 6, dolce paese in Carducci e Pascoli Pensa i bei giorni d’un autunno addietro, Vill’Amarena a sommo dell’ascesa coi suoi ciliegi e con la sua Marchesa dannata, e l’orto dal profumo tetro di busso e i cocci innumeri di vetro sulla cinta vetusta, alla difesa… Vill’Amarena! Dolce la tua casa in quella grande pace settembrina! La tua casa che veste una cortina di granoturco fino alla cimasa: come una dama secentista, invasa dal Tempo, che vestì da contadina. vv , E. Montale, Meriggiare pallido e assorto, in OS 1925: «in questo seguitare una muraglia / che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia» v. 22, E. Montale, I limoni, in OS 1925: «soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase» (in rima con case).
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C. Rebora, da Frammenti lirici, 1913
O carro vuoto sul binario morto, ecco per te la merce rude d’urti e tonfi. Gravido ora pesi sui telai tesi; ma nei rantoli gonfi si crolla fumida e viene annusando con fascino orribile la macchina ad aggiogarti. Via dal tuo spazio assorto all’aspro rullare d’acciaio al trabalzante stridere dei freni, incatenato nel gregge per l’immutabile legge del continuo aperto cammino: C. Rebora, da Frammenti lirici, 1913 e trascinato tramandi e irrigidito rattieni le chiuse forze inespresse su ruote vicine e rotaie incongiungibili e oppresse, sotto il ciel che balzàno nel labirinto dei giorni nel bivio delle stagioni contro la noia sguinzaglia l’eterno, verso l’amore pertugia l’esteso, e non muore e vorrebbe, e non vive e vorrebbe, mentre la terra gli chiede il suo verbo e appassionata nel volere acerbo paga col sangue, sola, la sua fede.
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Mario Sironi, Periferia, 1922, Collezione privata
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Camillo Sbarbaro, da Pianissimo, 1914
Padre che muori tutti i giorni un poco, e ti scema la mente e più non vedi con allargati occhi che i tuoi figli, e di te non t'accorgi e non rimpiangi, se penso la fortezza colla quale hai vissuto, il disprezzo ch'hai portato a tutto ciò che è piccolo e meschino, sotto la rude scorza l'istintiva poesia della tua anima, il bene ch'hai voluto alla tua madre, a tua sorella ingrata, a nostra madre morta, tutta la vita tua sacrificata, e poi ti guardo così come sei io mi torco in silenzio le mie mani. Contro l'indifferenza della vita vedo inutile anch'essa la virtù, e provo forte come non ho mai il senso della nostra solitudine. Io voglio confessarmi a tutti, padre che ridi se mi vedi e tremi quando d'una qualche attenzion ti faccio segno, di quanto fui vigliacco verso te. Benché il rimorso mi si alleggerisca che più giusto sarebbe mi pesasse inconfessato sempre sopra il cuore. Io giovinetto imberbe, t’ho guardato con ira, padre, per la tua vecchiezza. Stizza contro te vecchio mi prendeva. Padre che ci hai tenuto sui ginocchi nella stanza che si oscurava, in faccia alla finestra, e contavamo i lumi di cui si punteggiava la collina facendo a gara a chi vedeva primo, perdono non ti chiedo con le lacrime che mi sarebbe troppo dolce piangere, ma con quelle più amare te lo chiedo che non vogliono uscirmi dai miei occhi. Un pensiero soltanto mi conforta di poterti guardar con gli occhi asciutti, il ricordo che piccolo, pensando che come gli altri uomini dovevi morire pure tu, il nostro padre, solo e zitto nel mio letto la notte io di sbigottimento lagrimavo. Di quello che i miei occhi ora non piangono quell'infantile pianto mi consola, padre, perché mi par d'aver lasciata tutta la fanciullezza in quelle lacrime. Se potessi promettere qualcosa se potessi fidarmi di me stesso se di me non avessi anzi paura, padre, una cosa ti prometterei. Di viver fortemente come te sacrificato agli altri come te e negandomi tutto come te povero padre, per la fiera gioja di finir tristemente come te. Camillo Sbarbaro, da Pianissimo, 1914
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La poesia 1903 Govoni, Armonia in grigio et in silenzio 1907 Gozzano, La via del rifugio 1910 Moretti, Poesie scritte col lapis; [Palazzeschi, L’incendiario] 1911 Gozzano, I colloqui; Moretti, Poesie di tutti i giorni; Sbarbaro, Resine; Saba, Poesie 1912 [Fòlgore, Il canto dei motori] 1913 Rebora, Frammenti lirici 1914 Campana, Canti orfici; Sbarbaro, Pianissimo; Bacchelli, Poemi lirici; [Marinetti, Zang Tumb Tumb] 1915 [Govoni, Rarefazioni e parole in libertà] 1916 Cardarelli, Prologhi; Ungaretti, Il porto sepolto 1918 Boine, Frantumi 1919 Ungaretti, Allegria di naufragi 1920 Cardarelli, Viaggi nel tempo 1921 Saba, Canzoniere 1922 Rebora, Canti anonimi 1925 Montale, Ossi di seppia
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D. Campana, Il canto della tenebra, in Canti orfici, 1914
La luce del crepuscolo si attenua: Inquieti spiriti sia dolce la tenebra Al cuore che non ama più! Sorgenti sorgenti abbiam da ascoltare, Sorgenti, sorgenti che sanno Sorgenti che sanno che spiriti stanno Che spiriti stanno a ascoltare… Ascolta: la luce del crepuscolo attenua Ed agli inquieti spiriti è dolce la tenebra: Ascolta: ti ha vinto la Sorte: Ma per i cuori leggeri un'altra vita è alle porte: Non c'è di dolcezza che possa uguagliare la Morte Più Più Più Intendi chi ancora ti culla: Intendi la dolce fanciulla Che dice all'orecchio: Più Più Ed ecco si leva e scompare Il vento: ecco torna dal mare Ed ecco sentiamo ansimare Il cuore che ci amò di più! Guardiamo: di già il paesaggio Degli alberi e l'acque è notturno Il fiume va via taciturno… Pùm! Mamma quell'omo lassù! D. Campana, Il canto della tenebra, in Canti orfici, 1914
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Il «cubismo orfico» (G. Apollinaire)
F. Léger, Nudi nella foresta, , Otterlo, Rijksmuseum F. Léger, Donna in blu, 1912, Basel, Kunstmuseum
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V. Cardarelli, Saluto di stagione, in Prologhi, 1916
Benvenuta estate. Alla tua decisa maturità m'affido. Mi poserò ai tuoi soli, ricambierò alla terra in tanto sudore caldo delle mie adempiute nutrizioni i suoi veleni vitali. Lascio la primavera dietro di me come un amore insano d'adolescente. Lascio i languori e le ottusità, i sonni impossibili, le faticose inerzie animali, il tempo neutro e vuoto in cui l'uomo è stagione. Io che non spunto a febbraio coi mandorli, non mi compiaccio all'arido sapore di sasso che acuisce il gusto dolce dell'acqua dei rivi, alle gocciole chete di nuvola randagia che vanno in punta di piedi in compagnia dei pensieri, non colgo il biancospino; che amo i tempi fermi e le superfici chiare, e ad ogni transizione di meriggio, rotta l'astrale identità del mattino, avverto gli spazi irritarsi, e sento il limite e il male che incrinano ogni cambio d'ora, saluto nel sol d'estate la forza dei giorni più eguali. Ai punti estremi, alle stagioni violente, come sotto il frantoio dei pericoli dove ogni inquietudine si schianta prendo le sole decisioni buone, la mia fuggiasca fecondità ritrovo.
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U. Saba, La capra e Trieste, da Canzoniere, 1921
Ho attraversato tutta la città. Poi ho salita un' erta, popolosa in principio, in là deserta, chiusa da un muricciolo: un cantuccio in cui solo siedo; e mi pare che dove esso termina termini la città. Trieste ha una scontrosa grazia. Se piace, è come un ragazzaccio aspro e vorace, con gli occhi azzurri e mani troppo grandi per regalare un fiore; come un amore con gelosia. Da quest'erta ogni chiesa, ogni sua via scopro, se mena all'ingombrata spiaggia, o alla collina cui, sulla sassosa cima, una casa, l'ultima, s'aggrappa. Intorno circola ad ogni cosa un' aria strana, un' aria tormentosa, l'aria natia. La mia città che in ogni parte è viva, ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita pensosa e schiva. U. Saba, La capra e Trieste, da Canzoniere, 1921 Ho parlato a una capra. Era sola sul prato, era legata. Sazia d’erba, bagnata dalla pioggia, belava. Quell’uguale belato era fraterno al mio dolore. Ed io risposi, prima per celia, poi perché il dolore è eterno, ha una voce e non varia. Questa voce sentiva gemere in una capra solitaria. In una capra dal viso semita sentiva querelarsi ogni altro male, ogni altra vita.
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PROGRAMMA D’ESAME 1. Manuale di riferimento (G. Contini, La letteratura dell’Italia unita ) Autori da preparare: Francesco De Sanctis, Graziadio Isaia Ascoli, Giosue Carducci, Giovanni Verga, Antonio Fogazzaro, Emilio De Marchi, Carlo Dossi, Carlo Collodi, Giovanni Pascoli, Gabriele D’Annunzio, Benedetto Croce, Carlo Levi, Italo Svevo, Luigi Pirandello, Guido Gozzano, Giovanni Papini, Piero Jahier, Clemente Rebora, Dino Campana, Scipio Slataper, Camillo Sbarbaro, Vincenzo Cardarelli, Giuseppe Ungaretti, Eugenio Montale, Umberto Saba, Anna Banti, Elio Vittorini, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Salvatore Quasimodo, Mario Luzi, Vittorio Sereni, Federigo Tozzi, Alberto Moravia, Cesare Pavese, Italo Calvino, Beppe Fenoglio, Vasco Pratolini, Pier Paolo Pasolini, Carlo Emilio Gadda 2. Letture domestiche (una, a scelta, delle opere seguenti) F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana; G. Verga, I Malavoglia oppure Mastro-don Gesualdo; G. D'Annunzio, Il Piacere; L. Pirandello, Il fu Mattia Pascal oppure Uno, nessuno e centomila; I. Svevo, La coscienza di Zeno. 3. Testi e documenti utilizzati a lezione (Gestens)
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S. Quasimodo, Vento a Tindari, da Acque e terre, 1930
Tindari, mite ti so fra larghi colli pensile sull’acque delle isole dolci del dio, oggi m’assali e ti chini in cuore. Salgo vertici aerei precipizi, assorto al vento dei pini, e la brigata che lieve m’accompagna s’allontana nell’aria, onda di suoni e amore, e tu mi prendi da cui male mi trassi e paure d’ombre e di silenzi, rifugi di dolcezze un tempo assidue e morte d’anima. A te ignota è la terra ove ogni giorno affondo e segrete sillabe nutro: altra luce ti sfoglia sopra i vetri nella veste notturna, e gioia non mia riposa sul tuo grembo. Aspro è l’esilio, e la ricerca che chiudevo in te d’armonia oggi si muta in ansia precoce di morire; e ogni amore è schermo alla tristezza, tacito passo al buio dove mi hai posto amaro pane a rompere. Tindari serena torna; soave amico mi desta che mi sporga nel cielo da una rupe e io fingo timore a chi non sa che vento profondo m’ha cercato.
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S. Quasimodo, Vento a Tindari, da Acque e terre, 1930
Tindari, mite ti so fra larghi colli pensile sull’acque delle isole dolci del dio, oggi m’assali e ti chini in cuore. Salgo vertici aerei precipizi, assorto al vento dei pini, e la brigata che lieve m’accompagna s’allontana nell’aria, onda di suoni e amore, e tu mi prendi da cui male mi trassi e paure d’ombre e di silenzi, rifugi di dolcezze un tempo assidue e morte d’anima. A te ignota è la terra ove ogni giorno affondo e segrete sillabe nutro: altra luce ti sfoglia sopra i vetri nella veste notturna, e gioia non mia riposa sul tuo grembo. Aspro è l’esilio, e la ricerca che chiudevo in te d’armonia oggi si muta in ansia precoce di morire; e ogni amore è schermo alla tristezza, tacito passo al buio dove mi hai posto amaro pane a rompere. Tindari serena torna; soave amico mi desta che mi sporga nel cielo da una rupe e io fingo timore a chi non sa che vento profondo m’ha cercato.
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Mario Luzi, Patio, da Avvento notturno, 1940
Forse è un’ombra del cuore l’orrore che disarma e raggela sui vetri lo stupore delle grida chimeriche negli atri. Arrossano le mele sulle fioche erbe di Parma e il tuo sguardo in altrui sguardi succede. Il colore dei cedri sul marmo ti precede. Ma il vento soffermato sulle oscure lanterne, sul tuo viso riflesso nei miraggi vitrei delle città dimenticate! Si fondono irraggiate dalle bianche lucerne della sera le tue immagini strane mentre uguagli nitente le mutevoli diane. Nulla più che un chiarore s’avvicina agli spalti, alle corna spettrali dei palazzi, il vuoto s’avvicenda nelle cave specchiere, nella febbre viola dei basalti. La tua forma nell’aria si ripete lungo un prisma ammaliato e una pallida rete.
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E. Montale, da Le occasioni, II ed. 1940
Ti libero la fronte dai ghiaccioli che raccogliesti traversando l’alte nebulose; hai le penne lacerate dai cicloni, ti desti a soprassalti. Mezzodì: allunga nel riquadro il nespolo l’ombra nera, s’ostina in cielo un sole freddoloso; e l’altre ombre che scantonano nel vicolo non sanno che sei qui.
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V. Sereni, Saba, in Gli strumenti umani, 1965
Berretto pipa bastone, gli spenti oggetti di un ricordo. Ma io li vidi animati indosso a uno ramingo in un'Italia di macerie e polvere. Sempre di sè parlava ma come lui nessuno ho conosciuto che di sè parlando e ad altri vita chiedendo nel parlare altrettanta e tanta più ne desse a chi stava ad ascoltarlo. E un giorno, un giorno o due dopo il 18 aprile lo vidi errare da una piazza all'altra dall'uno all'altro caffè di Milano inseguito dalla radio. "Porca - vociferando - porca". Lo guardava stupefatta la gente. Lo diceva all'Italia. Di schianto, come a una donna che ignara o no a morte ci ha ferito.
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La narrativa: anni ’40 e ’50 1941, Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini (n. 1908) 1945, Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi (n. 1902) 1947, Artemisia di Anna Banti (n. 1895), Cronache di poveri amanti di V. Pratolini (n. 1913) e Il sentiero dei nidi di ragno di I. Calvino (n. 1923) 1952, I ventitre giorni della città di Alba di B. Fenoglio (n. 1922) 1953, Novelle dal ducato in fiamme di C.E. Gadda (n. 1893) 1954, Racconti romani di Alberto Moravia (n. 1907) 1955, Ragazzi di vita di P.P. Pasolini (n. 1922) 1957, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di C. E. Gadda 1958, Il Gattopardo di G. Tomasi di Lampedusa (n. 1896)
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La cultura italiana ed europea: ’40 e ’50
1923, Istituto per la ricerca sociale dell’Università di Francoforte (1947, Dialettica dell’illuminismo di Adorno-Horkeimer) 1945, «Les temps modernes» di J.P. Sartre e S. de Beauvoir 1945, «Il Politecnico» di E. Vittorini Cinematografia: 1945, Rossellini Roma città aperta 1948, De Sica Ladri di biciclette 1948, Visconti La terra trema [1941, M. Alicata e G. De Sanctis, Verità e poesia: Verga e il cinema italiano, «Cinema»] 1948, Lettera a «Rinascita» a firma di numerosi artisti 1950, ed. it. dei Saggi sul realismo di György Lukàcs (1948)
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Lettera a «Rinascita» (1948), a firma di R. Guttuso, G
Lettera a «Rinascita» (1948), a firma di R. Guttuso, G. Turcato, Mario Mafai e altri artisti Noi sappiamo bene che dobbiamo liberarci delle posizioni intellettualistiche di un’arte senza contenuto, di un’arte sfiduciata e solitaria, staccata dai problemi del mondo e della realtà in movimento, obiettivamente al servizio della classe dominante. […] La lotta dunque contro l’arte contemporanea formalistica (e soprattutto contro quelle ideologie di decomposizione, di assenza e di sfiducia che hanno presieduto e presiedono quell’arte) va condotta a fondo. È una lotta quindi contro quelle forme fini a se stesse di negazione della realtà come materialmente esistente fuori di noi, di negazione dell’uomo come protagonista della storia, di negazione di quei contenuti che rispecchiano le aspirazioni e le speranze di tutta l’umanità.
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György Lukàcs, Saggi sul realismo, ed. it. 1950, Introduzione
La categoria centrale, il criterio fondamentale della concezione letteraria realistica è il tipo, ossia quella particolare sintesi che, tanto nel campo dei caratteri che in quello delle situazioni, unisce organicamente il generico e l’individuale. Il tipo diventa tipo […] per il fatto che in esso confluiscono e si fondono tutti i momenti determinanti, umanamente e socialmente essenziali, d’un periodo storico.
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La narrativa: anni ’40 e ’50 1941, Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini (n. 1908) 1945, Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi (n. 1902) 1947, Artemisia di Anna Banti (n. 1895), Cronache di poveri amanti di V. Pratolini (n. 1913) e Il sentiero dei nidi di ragno di I. Calvino (n. 1923) 1952, I ventitre giorni della città di Alba di B. Fenoglio (n. 1922) 1953, Novelle dal ducato in fiamme di C.E. Gadda (n. 1893) 1954, Racconti romani di Alberto Moravia (n. 1907) 1955, Ragazzi di vita di P.P. Pasolini (n. 1922) 1957, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di C. E. Gadda 1958, Il Gattopardo di G. Tomasi di Lampedusa (n. 1896)
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I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, 1947: Prefazione alla II ed
Questo romanzo è il primo che ho scritto […]. Che impressione mi fa, a riprenderlo in mano adesso? Più che come un’opera mia lo leggo come un libro nato anonimamente dal clima generale d’un’epoca, da una tensione morale, da un gusto letterario che era quello in cui la nostra generazione si riconosceva, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. L’esplosione letteraria di quegli anni in Italia fu, prima che un fatto d’arte, un fatto fisiologico, esistenziale, collettivo. […] Questo ci tocca oggi, soprattutto: la voce anonima dell’epoca, più forte delle nostre inflessioni individuali ancora incerte. […] La rinata libertà di parlare fu per la gente al principio smania di raccontare: nei treni che riprendevano a funzionare, gremiti di persone e pacchi di farina e bidoni d’olio, ogni passeggero raccontava agli sconosciuti le vicissitudini che gli erano occorse, e così ogni avventore ai tavoli delle «mense del popolo», ogni donna nelle code ai negozi; il grigiore delle vite quotidiane sembrava cosa d’altre epoche; ci muovevamo in un multicolore universo di storie. Chi cominciò a scrivere allora si trovò così a trattare la medesima materia dell’anonimo narratore orale: alle storie che avevamo vissuto di persona o di cui eravamo stati spettatori s’aggiungevano quelle che ci erano arrivate già come racconti, con una voce, una cadenza, un’espressione mimica. […] La carica esplosiva di libertà che animava il giovane scrittore non era tanto nella sua volontà di documentare o informare, quanto in quella di esprimere. Esprimere che cosa? Noi stessi, il sapore aspro della vita che avevamo appreso allora allora, tante cose che si credeva di sapere o di essere, e forse in quel momento sapevamo ed eravamo. […] Il «neorealismo» per noi che cominciammo di lì, fu quello. […] Il problema ci sembrava fosse di poetica, come trasformare in opera letteraria quel mondo che per noi era il mondo.
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I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, 1947: Prefazione alla II ed
Il «neorealismo» non fu una scuola (Cerchiamo di dire le cose con esattezza). Fu un insieme di voci, in gran parte periferiche, una molteplice scoperta delle diverse Italie, anche - o specialmente - delle Italie fino allora più inedite per la letteratura. Senza la varietà di Italie sconosciute l'una all'altra - o che si supponevano sconosciute -, senza la varietà dei dialetti e dei gerghi da far lievitare e impastare nella lingua letteraria, non ci sarebbe stato «neorealismo». Ma non fu paesano nel senso del verismo regionale ottocentesco. La caratterizzazione locale voleva dare sapore di verità a una rappresentazione in cui doveva riconoscersi tutto il vasto mondo: come la provincia americana in quegli scrittori degli Anni Trenta di cui tanti critici ci rimproveravano d'essere gli allievi diretti o indiretti. Perciò il linguaggio, lo stile, il ritmo avevano tanta importanza per noi, per questo nostro realismo che doveva essere il più possibile distante dal naturalismo. Ci eravamo fatta una linea, ossia una specie di triangolo: I Malavoglia, Conversazione in Sicilia, Paesi tuoi, da cui partire, ognuno sulla base del proprio lessico locale e del proprio paesaggio
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E. Vittorini, Conversazione in Sicilia, cap. 1
Io ero, quell’inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di questo mi son messo a raccontare. Ma bisogna dica ch’erano astratti, non eroici, non vivi; furori, in qualche modo, per il genere umano perduto. Da molto tempo questo, ed ero col capo chino. Vedevo manifesti di giornali squillanti e chinavo il capo; vedevo amici, per un’ora, due ore, e stavo con loro senza dire una parola, chinavo il capo; e avevo una ragazza o moglie che mi aspettava ma neanche con lei dicevo una parola, anche con lei chinavo il capo. Pioveva intanto e passavano i giorni, i mesi, e io avevo le scarpe rotte, l’acqua che mi entrava nelle scarpe, e non vi era più altro che questo: pioggia, massacri sui manifesti dei giornali, e acqua nelle mie scarpe rotte, muti amici, la vita in me come un sordo sogno, e non speranza, quiete. Questo era il terribile: la quiete nella non speranza. Credere il genere umano perduto e non aver febbre di fare qualcosa in contrario, voglia di perdermi, ad esempio, con lui. Ero agitato da astratti furori, non nel sangue, ed ero quieto, non avevo voglia di nulla. Non mi importava che la mia ragazza mi aspettasse; raggiungerla o no, o sfogliare un dizionario era per me lo stesso; e uscire e vedere gli amici, gli altri, o restare in casa era per me lo stesso. Ero quieto; ero come se non avessi mai avuto un giorno di vita, né mai saputo che cosa significa esser felici, come se non avessi nulla da dire, da affermare, negare, nulla di mio da mettere in gioco, e nulla da ascoltare, da dare e nessuna disposizione a ricevere, e come se mai in tutti i miei anni di esistenza avessi mangiato pane, bevuto vino, o bevuto caffè, mai stato a letto con una ragazza, mai avuto dei figli, mai preso a pugni qualcuno, o non credessi tutto questo possibile, come se mai avessi avuto un’infanzia in Sicilia tra i fichidindia e lo zolfo, nelle montagne; ma mi agitavo entro di me per astratti furori, e pensavo il genere umano perduto, chinavo il capo, e pioveva, non dicevo una parola agli amici, e l’acqua mi entrava nelle scarpe.
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Raccontare la magia di un mondo primitivo: Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli
Erich Hartmann, 1946 Catlo Levi, La strada delle grotte, 1935
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Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli
Per i contadini, lo Stato è più lontano del cielo, e più maligno, perché sta sempre dall’altra parte. Non importa quali siano le sue formule politiche, la sua struttura, i suoi programmi. I contadini non li capiscono, perché è un altro linguaggio dal loro, e non c’è davvero nessuna ragione perché li vogliano capire. La sola possibile difesa, contro lo Stato e contro la propaganda, è la rassegnazione, la stessa cupa rassegnazione, senza speranza di paradiso, che curva le loro schiene sotto i mali della natura. […] Quando, nei primi giorni, mi capitava d’incontrare sul sentiero, fuori del paese, qualche vecchio contadino che non mi conosceva ancora, egli si fermava, sul suo asino, per salutarmi, e mi chiedeva: ― Chi sei? Addò vades? (Chi sei? Dove vai?) ― Passeggio, ― rispondevo, ― sono un confinato. ― Un esiliato? (I contadini di qui non dicono confinato, ma esiliato). ― Un esiliato? Peccato! Qualcuno a Roma ti ha voluto male ―. E non aggiungeva altro, ma rimetteva in moto la sua cavalcatura, guardandomi con un sorriso di compassione fraterna. Questa fraternità passiva, questo patire insieme, questa rassegnata, solidale, secolare pazienza è il profondo sentimento comune dei contadini, legame non religioso, ma naturale. Essi non hanno, né possono avere, quella che si usa chiamare coscienza politica, perché sono, in tutti i sensi del termine, pagani, non cittadini: gli dei dello Stato e della città non possono aver culto fra queste argille, dove regna il lupo e l’antico, nero cinghiale, né alcun muro separa il mondo degli uomini da quello degli animali e degli spiriti, né le fronde degli alberi visibili dalle oscure radici sotterranee. Non possono avere neppure una vera coscienza individuale, dove tutto è legato da influenze reciproche, dove ogni cosa è un potere che agisce insensibilmente, dove non esistono limiti che non siano rotti da un influsso magico. Essi vivono immersi in un mondo che si continua senza determinazioni, dove l’uomo non si distingue dal suo sole, dalla sua bestia, dalla sua malaria: dove non possono esistere la felicità, vagheggiata dai letterati paganeggianti, né la speranza, che sono pur sempre dei sentimenti individuali, ma la cupa passività di una natura dolorosa. Ma in essi è vivo il senso umano di un comune destino, e di una comune accettazione. È un senso, non un atto di coscienza; non si esprime in discorsi o in parole, ma si porta con sé in tutti i momenti, in tutti i gesti della vita, in tutti i giorni uguali che si stendono su questi deserti.
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La Firenze popolana del dopoguerra: Vasco Pratolini, Cronache di poveri amanti, 1947
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V. Pratolini, Cronache di poveri amanti
Via del Corno è finalmente tutta per i gatti che banchettano a un cumulo più grosso d’immondizia: dai Bellini, al secondo piano del n. 3, c’è stato pranzo nuziale. Milena s’è sposata con il figlio del pizzicagnolo di via dei Neri. Milena ha diciotto anni, è bionda, con gli occhi chiari di colomba: via del Corno ha perduto il secondo dei suoi Angeli Custodi. Dopo il viaggio di nozze Milena andrà ad abitare in un appartamentino delle Cure. Le sveglie sono fatte per suonare. Ce ne sono cinque in via del Corno che suonano nello spazio di un’ora. La più mattiniera è quella di Osvaldo. È la sveglia di un rappresentante di commercio “che batte la provincia”: è piccola, di precisione, ha un trillo di giovinetta e anticipa di un quarto d’ora il fragore della sveglia di casa Cecchi che ha il suono della campanella di un tranvai, ma è quello che ci vuole per rimuovere uno spazzino dal suo sonno di tartaruga. La sveglia di Ugo è della stessa razza urlante: il contrario del suo proprietario che gira tutto il giorno col barroccino di frutta e verdura ed ha una voce di baritono nell’offrire la mercanzia. Ugo occupa una stanza in subaffitto, al n. 2 terzo piano, ed è per questo che la sveglia dei coniugi Carresi non si fa mai sentire. Maria si desta quasi sempre “quando esplode il macinino del suo dozzinante”, allunga una mano per portare sul silence la chiavetta della propria sveglia. Così, Beppino che le dorme accanto, non si desterà. Le proibirebbe di lasciare il letto finché Ugo non fosse uscito.
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Raccontare una donna del passato: Artemisia di Anna Banti (1947)
Anna Banti nel 1934 Raccontare una donna del passato: Artemisia di Anna Banti (1947)
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A. Banti, Artemisia, 1947
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La resistenza e l’etica langarola I ventitre giorni della città di Alba di Beppe Fenoglio (1952)
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B. Fenoglio, I ventitre giorni della città di Alba: dal racconto Il trucco
Moro cercò René e lo vide sul margine dell'aia, appartato con due che parevano i più importanti dopo di lui. S'avvicinò: i tre dovevano aver discusso fino a quel momento sul posto della fucilazione. Uno finiva di dire: - ...ma io avrei preferito a Sant'Adriano. René rispondeva: - Ce n'è già quattro e questo farebbe cinque. Invece è meglio che siano sparpagliati. Va bene il rittano sotto il Caffa. Cerchiamo li un pezzo di terra selvaggio che sia senza padrone. Moro entrò nel gruppo e disse: - C'è bisogno di far degli studi così per un posto? Tanto è tutta terra, e buttarci un morto è come buttare una pietra nell'acqua. René disse: - Non parli bene, Moro. Tu sei col Capitano e si può dire che non sei mai fermo in nessun posto e così non hai obblighi con la gente. Ma noi qui ci abbiamo le radici e dobbiamo tener conto della gente. Credi che faccia piacere a uno sapere che c'è un repubblicano sotterrato nella sua campagna e che questo scherzo gliel'han fatto i partigiani del suo paese?
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Raccontare Roma: Racconti romani di A
Raccontare Roma: Racconti romani di A. Moravia (1954) Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di C.E. Gadda (1957) Ragazzi di vita di P.P Pasolini (1955)
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Alberto Moravia, Racconti romani: Mario
Fu così. Di mattina presto, mi alzai che Filomena ancora dormiva, presi la borsa dei ferri, uscii di soppiatto di casa e andai a Monte Parioli, in via Granisci, dove c'era uno scaldabagno che buttava. Quanto tempo ci avrò messo per fare la riparazione? Certo un paio d'ore perché dovetti smontare e rimontare il tubo. Finito il lavoro, con l'autobus e con il tram tornai a via dei Coronari, dove ho casa e bottega. Notate il tempo: due ore a Monte Parioli, mezz'ora per andarci, mezz'ora per tornare: tre ore in tutto. Che sono tre ore? molto e poco, dico io, secondo i casi. Io ci avevo messo tre ore per rimettere a posto un tubo di piombo; qualcun altro, invece... Ma andiamo per ordine. Alla imboccatura di via dei Coronari, mentre camminavo svelto lungo i muri, mi sentii chiamare per nome. Mi voltai: era Fede, la vecchia affittacamere che sta di casa di fronte a noi. Questa Fede, poveretta, ha due gambe cosi grosse, per via della podagra, che manco un elefante. Mi disse, tutta affannosa: - Che scirocco, oggi... vai in su? mi dai una mano per la sporta? Risposi che l'avrei fatto volentieri. Mi passai la borsa dei ferri sull'altra spalla e afferrai la sporta. Lei prese a camminarmi accanto, trascinando quelle due colonne di gambe sotto la palandrana. Dopo un poco, domandò: - E Filomena dov'è? Risposi: - Dov'ha da essere? A casa. - Già, a casa - disse lei a testa china - si capisce. Domandai, tanto per parlare: - Perché si capisce? E lei: - Si capisce... eh, povero figlio mio. Insospettito, lasciai passare un momento e poi insistetti: - Perché povero figlio mio? - Perché mi fai compassione - disse quella befana senza guardarmi. - E cioè? - E cioè non sono più i tempi di una volta... le donne oggi non sono più come al tempo mio.
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P. P. Pasolini, Ragazzi di vita, 1955, cap. IV
Amerigo stava disteso sul letto col vestito blu nuovo, la camicia bianca e le scarpe nere. Gli avevano incrociato le braccia sul petto, anzi sul doppiopetto di cui da un par di domeniche era tanto orgoglioso, andandosene per Pietralata con la camminata cattiva. I soldi se l’era procurati facendo una rapina in via dei Prati Fiscali: aveva scucito al micco una trentina di mila lire, e per levarsi una soddisfazione lo aveva pestato a sangue: e così s’era fatto il vestito blu, e andava in giro con quello con un umore più da bestia del solito. C’era da far bene attenzione a come lo si guardava, e gli amici suoi della borgata, vigliacchi e falsi con lui, sapevano ungerlo senza mostrarlo troppo, ma altri giovani che non lo conoscevano, incontrati nelle sale da ballo del Partito Comunista, o a qualche biliardo, erano tornati a casa con l’occhi gonfi e le gengive sanguinanti: e fortuna per loro che Amerigo era stato diffidato a andare in giro col coltello. Era un vestito coi calzoni a tubo, la giacca corta con le spalle larghe e rotonde: teneva il colletto della camicia bianca sbottonato e i capelli pettinati alla ghigo. Adesso lì, s’era lasciato mettere pazientemente, come una vittima, le mani in croce sul doppiopetto: ma il colletto gli stava ancora sbottonato alla malandrina incorniciandogli il volto che era stato da morto anche quand’era vivo. Tanto che pareva si fosse appena addormito, e faceva ancora paura. Finita la pennichella, quello avrebbe certamente finito di pazientare e avrebbe spaccato il grugno a quelli che s’erano permessi di conciarlo a quel modo. Se ne stava lì cupo e zitto, sul letto ch’era troppo piccolo per lui, con un cesto di capelli ricci, ancora luccicanti di brillantina sul guanciale grigiastro.
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C. E. Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, 1957, cap. X
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Raccontare la Sicilia: Il Gattopardo di G. Tomasi di Lampedusa (1958)
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G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo
Don Fabrizio quella sensazione la conosceva da sempre. Erano decenni che sentiva come il fluido vitale, la facoltà di esistere, la vita insomma, e forse anche la volontà di continuare a vivere andassero uscendo da lui lentamente ma continuamente, come i granellini si affollano e sfilano ad uno ad uno senza fretta e senza soste dinanzi allo stretto orifizio di un orologio a sabbia. In alcuni momenti d'intensa attività, di grande attenzione questo sentimento di continuo abbandono scompariva per ripresentarsi impassibile alla più breve occasione di silenzio o di introspezione: come un ronzio continuo all'orecchio, come il battito di una pendola s'impongono quando tutto il resto tace; e allora ci rendono sicuri che essi sono sempre stati lì, vigili, anche quando non li udivamo. In tutti gli altri momenti gli bastava sempre un minimo di attenzione per avvertire il fruscio dei granelli di sabbia che sgusciavano via lievi, degli attimi di tempo che evadevano dalla sua mente e lo lasciavano per sempre. La sensazione del resto non era, prima, legata ad alcun malessere. Anzi questa impercettibile perdita di vitalità era la prova, la condizione per così dire, della sensazione di vita; e per lui, avvezzo a scrutare spazi esteriori illimitati, a indagare vastissimi abissi interni, essa non era per nulla sgradevole: era quella di un continuo, minutissimo sgretolamento della personalità congiunto al presagio vago del riedificarsi altrove di una personalità (grazie a Dio) meno cosciente ma più larga. Quei granellini di sabbia non andavano perduti, scomparivano ma si accumulavano chissà dove, per cementare una mole più duratura.
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