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ARISTOTELE (etica: piacere; amicizia; politica)
Prof. Michele de Pasquale
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l'etica aristotelica è eudaimonistica ma non edonistica
alla fine del libro VII Aristotele sviluppa una riflessione sul piacere non nega che il piacere abbia la sua importanza, ma la felicità non è il piacere , è qualcosa di più ampio che contiene anche il piacere l'etica aristotelica è eudaimonistica ma non edonistica la felicità è il fine ultimo dell'uomo; il piacere non è il fine ultimo, ma accompagna e perfeziona ogni attività e sarà tanto migliore quanto migliore è l'attività che esso accompagna
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(Aristotele, Etica VII, cap. 11)
“… abbiamo posto che la virtù ed il vizio morale hanno per oggetto dolore e piacere, e la stragrande maggioranza degli uomini afferma che la felicità implica il piacere… (1) Alcuni, dunque, ritengono che nessun piacere sia un bene, né per sé né per accidente, giacché, dicono, bene e piacere non sono la stessa cosa. (2) Altri ritengono, sì, che alcuni piaceri sono buoni, ma che per la maggior parte sono cattivi. (3) Infine, una terza categoria di persone ritiene che, anche ammesso che tutti i piaceri siano un bene, non è possibile che il sommo bene sia un piacere. (1) Dunque, il piacere, nel complesso, non è un bene, a) perché ogni piacere è un divenire, percepito dal soggetto, che conduce ad uno stato naturale, e, d’altra parte, nessun divenire appartiene allo stesso genere del suo fine: per esempio, il processo di costruzione di una casa non appartiene allo stesso genere della casa. b) Inoltre, l’uomo temperante fugge i piaceri. c) Inoltre, il saggio persegue ciò che non provoca dolore, non ciò che è piacevole. d) Inoltre, i piaceri sono un ostacolo alla riflessione morale, e tanto più quanto più intenso è il godimento, come nel piacere sessuale: nessuno infatti potrebbe pensare alcunché mentre lo prova. e) Inoltre, non c’è alcuna arte del piacere: eppure ogni bene è opera di un’arte. f) Inoltre, bambini e bestie perseguono i piaceri. (2) Dall’affermazione che non tutti i piaceri sono buoni il motivo addotto è a) che ce ne sono di vergognosi e biasimevoli, e b) che ce ne sono di dannosi, giacché alcune delle cose piacevoli producono malattie. (3) Infine, il motivo per cui il piacere non è il sommo bene è che non è un fine ma un divenire. Questo è, pressappoco, quello che si dice.” (Aristotele, Etica VII, cap. 11)
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“ Ma anche che il dolore è un male e che deve essere fuggito è ammesso concordemente: infatti, da una parte c’è il dolore che è un male in senso assoluto, e dall’altra il dolore che è male per il fatto che in qualche modo è per noi un ostacolo. Ma il contrario di una cosa che si deve fuggire proprio in quanto è qualcosa da fuggire, cioè un male, è un bene. Dunque è necessario che il piacere sia un bene. Speusippo, infatti, cercava di risolvere il problema dicendo che il più è contrario sia al meno sia all’uguale, ma la sua soluzione non regge: non si potrà dire che il piacere è per essenza un male. Niente impedisce che il sommo bene sia un piacere determinato, anche ammettendo che alcuni piaceri siano cattivi, come pure una scienza determinata, anche nell’ipotesi che alcune scienze siano cattive. A) Certo, poi, se è vero che di ciascuna disposizione ci sono attività il cui esercizio non ha ostacoli, è anche necessario che la felicità sia l’attività di tutte quante le disposizioni o di una sola di esse, purché sia senza ostacoli, e che questa attività sia la più degna di essere scelta: ma questo è un piacere. Per conseguenza, il sommo bene potrebbe essere un determinato piacere, anche ammettendo che la maggior parte dei piaceri sia cattiva, magari in senso assoluto. E per questo tutti pensano che la vita felice sia una vita piacevole, e contessono il piacere con la felicità, a buon diritto. Infatti, nessuna attività è perfetta quando è ostacolata, e, d’altra parte, la felicità appartiene al genere delle cose perfette. È per questo che l’uomo felice ha bisogno anche dei beni del corpo, dei beni esteriori e di quelli della fortuna, per non essere ostacolato dalla loro mancanza. Coloro, poi, che affermano che anche l’uomo messo al supplizio della ruota o precipitato in grandi disgrazie è felice, purché sia buono, dicono, volontariamente o non, una cosa priva di senso. %
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"La fama non si spegne mai del tutto,
Per il fatto, poi, che si ha bisogno anche della fortuna, alcuni ritengono che la buona fortuna sia la stessa cosa che la felicità, mentre non lo è, perché anch’essa, quando è eccessiva, è d’ostacolo, e forse allora non è più giusto chiamarla buona fortuna: infatti, la sua definizione è relativa alla felicità. B) Il fatto, poi, che tutti, bestie e uomini, perseguano il piacere è segno che esso è in qualche modo il sommo bene: "La fama non si spegne mai del tutto, quando molta gente <la diffonde intorno>…". Ma poiché non è la stessa natura né la stessa disposizione che è o si ritiene che sia la migliore, non è neppure lo stesso il piacere che tutti perseguono; eppure tutti perseguono un piacere. Forse anche non perseguono il piacere che credono o quello che direbbero di perseguire, ma pur sempre un piacere. Tutti gli esseri, infatti, hanno in sé qualcosa di divino. Ma i piaceri corporali si sono appropriati di tutta l’eredità del nome, per il fatto che il più delle volte è ad essi che ci accostiamo e che tutti ne partecipano: poiché, dunque, sono i soli ad essere noti, si pensa che siano i soli ad esistere. C) È poi chiaro anche che, se il piacere non è un bene né un’attività, l’uomo felice non potrà vivere piacevolmente: infatti, a che scopo avrebbe bisogno del piacere, se esso non è un bene, ma è anzi possibile vivere anche soffrendo? Allora, il dolore non è né un male né un bene, se neppure il piacere lo è: ma, allora, perché fuggire il dolore? In conclusione, neppure la vita dell’uomo virtuoso sarà più piacevole, se non lo sono anche le sue attività.” (Aristotele, Etica VII, cap. 13)
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le specie di amicizia e le condizioni in cui si realizza l’amicizia
l’amicizia, trattata nei libri VIII e IX, è analizzata attorno a due problemi: le specie di amicizia e le condizioni in cui si realizza l’amicizia l’amicizia può essere fondata sull’utile, sul piacere, sul bene
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“ A questo proposito ci sarà chiarezza una volta conosciuto ciò che è degno di essere amato. Si ritiene, infatti, che non ogni cosa è amata, ma solo ciò che è degno di essere amato, e che questo è buono o piacevole o utile: si ammetterà che utile è ciò da cui deriva un bene o un piacere, cosicché degni di essere amati saranno il bene ed il piacere intesi come fini. Orbene, gli uomini amano il bene in sé o ciò che è bene per loro? Talora, infatti, si tratta di cose discordanti. Lo stesso vale anche per il piacevole. Si riconosce che ciascuno ama ciò che è bene per lui, e che in senso assoluto è il bene che è degno di essere amato, ma in senso relativo a ciascun uomo lo è ciò che è bene per lui: ma ciascuno ama non ciò che è bene per lui, ma ciò che gli appare tale. Ma non ha importanza: infatti, degno di essere amato sarà ciò che tale appare. Essendo, dunque, questi tre i motivi per cui si ama, per l’affezione alle cose inanimate non si usa il termine "amicizia": esse, infatti, non possono ricambiarci l’affezione, né noi possiamo volere un bene per loro (giacché sarebbe certamente ridicolo volere il bene per il vino; ma se pur così è, ciò che si vuole è che esso si conservi, per averlo per noi); si dice, invece, che bisogna volere il bene per l’amico per lui stesso. Ma quelli che così vogliono il bene degli altri si chiamano benevoli, anche se non vengono da quegli altri ricambiati: la benevolenza, infatti, è amicizia solo quando è reciproca. O non bisogna aggiungere anche "quando non rimane nascosta"? Molti, infatti, sono benevoli verso uomini che non hanno visto mai, ma che giudicano virtuosi, o utili: questo medesimo sentimento potrebbe provare per loro uno di quelli. Costoro, dunque, sono manifestamente benevoli gli uni verso gli altri: ma come si potrebbe chiamarli amici, se tengono nascosto l’uno all’altro il proprio sentimento? Bisogna dunque, per essere amici, essere benevoli gli uni verso gli altri e non nascondere di volere il bene l’uno dell’altro, per uno dei motivi che abbiamo detto.” (Aristotele, Etica VIII, cap. 2)
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a seconda del fondamento l’amicizia può essere di tre specie:
di virtù di utilità di piacere solo quella di virtù è stabile e ferma in quanto fondata sul bene solo chi vive in intimità di rapporti può esercitare effettivamente l’amicizia; l’amicizia per funzionare deve presupporre una sostanziale uguaglianza tra gli individui
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“Per conseguenza, le specie dell’amicizia sono tre, di numero uguale agli oggetti degni di essere amati: per ciascuna classe di essi, infatti, c’è una reciproca palese affezione, e quelli che si amano reciprocamente vogliono l’uno il bene dell’altro, bene specificato dal motivo per cui si amano. Orbene, quelli che si amano reciprocamente a causa dell’utilità, non si amano per se stessi, ma in quanto ne deriva loro, reciprocamente, un qualche bene. Parimenti nel caso in cui si amino a causa del piacere: infatti, essi non amano gli uomini spiritosi per il fatto che posseggono quella determinata qualità, ma perché a loro risultano piacevoli. Dunque, coloro che amano a causa dell’utile, [amano a causa di ciò che è bene per loro, e quelli che amano per il piacere lo fanno per ciò che è piacevole per loro, e non in quanto l’amato è quello che è, ma in quanto è utile o piacevole. Per conseguenza, queste amicizie sono accidentali: infatti, non è in quanto è quello che è che l’amato è amato, ma in quanto procura un bene o un piacere. Per conseguenza, le amicizie di tale natura si dissolvono facilmente, perché gli amici non rimangono uguali a se stessi: se, infatti, uno non è più utile o piacevole, l’altro cessa di amarlo. E l’utile non è costante, ma è diverso di volta in volta. Quindi, svanito il motivo per cui erano amici, si dissolve anche l’amicizia, dal momento che l’amicizia sussiste in relazione a quei fini. Si riconosce che l’amicizia di questo tipo sorge soprattutto tra i vecchi (giacché gli uomini di tale età non perseguono più il piacevole ma l’utile), e negli uomini maturi e nei giovani sorge solo tra quelli che perseguono l’utile. Ma non è che costoro vivano molto in compagnia gli uni degli altri. %
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Talora, infatti, non riescono piacevoli gli uni agli altri: perciò non sentono neppure il bisogno di tale compagnia, a meno che questi amici non siano utili. Infatti, in tanto risultano piacevoli gli uni agli altri, in quanto hanno la speranza di un bene. Tra queste amicizie viene posta anche quella verso gli ospiti. Invece, si ritiene che l’amicizia dei giovani sia causata dal piacere: questi, infatti, vivono sotto l’influsso della passione, e perseguono soprattutto ciò che è per loro un piacere immediato. Ma col procedere dell’età anche le cose che fanno piacere diventano diverse. È per questo che i giovani rapidamente diventano amici e rapidamente cessano di esserlo: infatti, l’amicizia muta insieme col mutare di ciò che fa piacere, e il mutamento di un tale tipo di piacere è rapido. Inoltre, i giovani sono inclini alla passione amorosa, giacché gran parte del sentimento amoroso segue la passione e deriva dal piacere: perciò essi s’innamorano e cessano d’amare rapidamente, mutando sentimento più volte nello stesso giorno. Essi, però, vogliono passare insieme i loro giorni e la vita intera: è in questo modo, infatti, che si procurano ciò che si ripromettono dall’amicizia. L’amicizia perfetta, invece, è l’amicizia degli uomini buoni e simili per virtù: costoro, infatti, vogliono il bene l’uno dell’altro, in modo simile, in quanto sono buoni, ed essi sono buoni per se stessi. Coloro che vogliono il bene degli amici per loro stessi sono i più grandi amici; infatti, provano questo sentimento per quello che gli amici sono per se stessi, e non accidentalmente. Orbene, l’amicizia di costoro perdura finché essi sono buoni, e, d’altra parte, la virtù è qualcosa di permanente. %
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E ciascuno è buono sia in senso assoluto sia in relazione al suo amico, giacché i buoni sono sia buoni in senso assoluto sia utili gli uni agli altri. E come sono buoni, sono anche piacevoli, giacché i buoni sono piacevoli sia in senso assoluto sia gli uni in relazione agli altri: infatti, per ciascuno sono fonte di piacere le azioni conformi alla sua natura e quelle dello stesso tipo, e le azioni dei buoni sono appunto identiche o simili. E una tale amicizia, naturalmente, è permanente, giacché congiunge in sé tutte le qualità che gli amici devono possedere. Infatti, ogni amicizia è causata da un bene o da un piacere, o in senso assoluto o in relazione a colui che ama, e si fonda su una certa somiglianza. Ma in questa amicizia si trovano tutte le cose suddette in virtù di ciò che gli amici sono per se stessi: in questa, infatti, gli amici sono simili, e c’è pure il resto (il buono e il piacevole in senso assoluto), e sono soprattutto questi gli oggetti degni di essere amati; per conseguenza, in questi uomini anche l’amore e l’amicizia sono del massimo livello e della migliore qualità. Ma è naturale che simili amicizie siano rare, giacché pochi sono gli uomini di tale natura. Inoltre, richiede tempo e consuetudine di vita comune: secondo il proverbio, infatti, non è possibile conoscersi reciprocamente finché non si è consumata insieme la quantità di sale di cui parla appunto il proverbio. Per conseguenza, non è possibile accogliersi come amici, né essere amici, prima che ciascuno si sia manifestato all’altro degno di essere amato e prima che ciascuno abbia ottenuto la confidenza dell’altro. E coloro che si scambiano rapidamente l’un l’altro i segni dell’amicizia, vogliono, sì, essere amici, ma non lo sono, se non sono anche degni di essere amati e se non lo sanno: infatti, la volontà di amicizia sorge rapidamente, ma non l’amicizia.” (Aristotele, Etica VIII, cap. 3)
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l’amicizia pur essendo una forma di benevolenza ed amore, va distinta da essi
quando si ama entrano in campo anche fattori emotivi e sessuali in cui gioca un ruolo determinante la bellezza (il che può non avvenire nel rapporto di amicizia) si ha benevolenza anche verso chi non si conosce (mentre l’amicizia presuppone una frequentazione)
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“ La benevolenza assomiglia ad un sentimento di amicizia, ma non è amicizia: la benevolenza, infatti, può nascere anche verso chi non si conosce, e può rimanere nascosta, ma l’amicizia no. Questo si è detto anche prima. Ma non è neppure una affezione. Infatti, non ha né tensione né desiderio, mentre l’affezione implica queste cose; e l’affezione si accompagna con l’intimità, mentre la benevolenza nasce anche all’improvviso, come, per esempio, succede, anche nei riguardi degli atleti in gara: si diventa, infatti, benevoli nei loro riguardi e si fanno propri i loro desideri, ma non si condivide con loro alcuna azione; come abbiamo detto, si diventa benevoli all’improvviso e si ama superficialmente. Quindi, la benevolenza sembra essere il principio dell’amicizia, come il principio dell’amore è il piacere derivante dalla vista: nessuno ama, infatti, se prima non ha provato piacere per l’aspetto dell’altro, ma chi gode dell’aspetto di un altro non è detto che necessariamente ami; ciò avviene, invece, quando ne sente la mancanza, se è lontano, e ne desidera la presenza. Così pure, dunque, non è possibile essere amici se non si è cominciato a provare della benevolenza, mentre provare benevolenza non significa ancora amare, giacché si vuole soltanto il bene di coloro verso cui si è benevoli, ma non si agirebbe insieme con loro, né ci si darebbe da fare per loro. Perciò, metaforicamente, si potrà dire che essa è una amicizia improduttiva, ma se dura nel tempo e giunge all’intimità diventa amicizia, ma non quella fondata sull’utilità né quella fondata sul piacere, giacché neppure la benevolenza si fonda su di essi. Infatti, colui che ha ricevuto un beneficio offre la sua benevolenza in cambio di ciò che ha ricevuto, e fa ciò che è giusto; ma chi vuole la buona riuscita di un altro, nella speranza di ricavarne gran vantaggio, non sembra che abbia della benevolenza per quella persona, ma piuttosto per se stesso, come pure non è suo amico, se gli è devoto per qualche motivo interessato. Insomma, la benevolenza sorge per la virtù e per un certo valore, quando una persona appaia ad un’altra nobile o coraggiosa o qualcosa di simile, come abbiamo detto anche a proposito degli atleti in gara.” (Aristotele, Etica IX , cap. 5)
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educazione intellettuale: formazione del carattere:
la virtù non coincide con la conoscenza, ma va concepita in conformità ai diversi aspetti dell’esperienza umana essendo le virtù distinguibili in virtù teoretiche ed etiche, l’educazione che mira al conseguimento della virtù si svolgerà con procedimenti diversi: educazione intellettuale: acquisizione di una mentalità scientifica che si fonda sull’insegnamento teoretico (sapienza) formazione del carattere: acquisizione delle virtù etiche agendo sulla facoltà desiderativa dell’anima col ricorso al ripetuto esercizio pratico (saggezza) i due ideali non sono in competizione tra loro, a differenza di Platone dove viene assolutizzato l’ideale della sapienza
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la paideia aristotelica si specifica in relazione ai diversi tipi di costituzione politica
a seconda della costituzione sono esplicitati gli obiettivi del percorso educativo che comunque deve tendere a formare un cittadino capace di partecipare responsabilmente alla vita sociale con Platone condivide l’idea della dimensione comunitaria dell’educazione; l’idea che l’educazione sia il fulcro dello stato
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descrizione delle forme politiche assunte dalle città greche
l’intento della riflessione politica di Aristotele è descrittivo (in Platone, invece, prevale un interesse normativo): descrizione delle forme politiche assunte dalle città greche sostiene una teoria naturalistica dello stato (contro l’idea di un’origine convenzionale): lo stato è il compimento naturale di un processo che vede l’uomo aggregarsi inizialmente nella famiglia, poi nel villaggio, infine nella poleis poichè l’uomo è un animale naturalmente sociale (zoòn physei politikòn), per natura tende ad aggregarsi ad altri individui; Aristotele, comunque, mantiene ferma una certa autonomia del singolo rispetto alla poleis e critica, ad esempio, la comunanza dei beni teorizzata nella Repubblica platonica perchè l’individuo antepone sempre i suoi interessi privati a quelli pubblici, critica anche l’estremo potere dei guardiani con cui si rischia una spaccatura tra chi detiene tutto il potere e chi non ne dispone
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la subordinazione di donna e figli al capofamiglia
nella indagine sulla famiglia, approfondisce il suo ruolo di cellula fondamentale della riproduzione della specie e di nucleo dell’attività economica alcuni temi: la subordinazione di donna e figli al capofamiglia l’arte di acquistare le ricchezze (sono legittime quelle naturali come ad esempio quelle ricavate dalla terra / illegittime quelle non naturali come ad esempio il prestito ad usura, la vendita per profitto e non per acquisire un bene) la giustificazione della schiavitù (padrone e schiavo sono tali per natura) queste posizioni evidenziano il favore per la media proprietà agraria e il progetto di ridimensionamento dei ceti industriali
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Aristotele giudica insufficiente il criterio platonico solo quantitativo di classificazione delle diverse costituzioni, e ritiene che debba essere integrato con una tipologia qualitativa utilizzando il criterio della classe (poveri/ricchi) la costituzione perfetta è quella che realizza il telos, il bene comune esistono delle evoluzioni devianti delle costituzioni: la monarchia in tirannide l’aristocrazia in oligarchia la politìa in democrazia sfrenata “ Le degenerazioni delle forme ricordate sono la tirannide, rispetto al regno, l'oligarchia rispetto all'aristocrazia, la democrazia rispetto alla politia. La tirannide è infatti una monarchia che persegue l'interesse del monarca, l'oligarchia quello dei ricchi, la democrazia poi l'interesse dei poveri.” (Aristotele, Politica) la politìa è la costituzione perfetta perchè integra la democrazia con l’aristocrazia e ne tempera gli eccessi
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in una poleis l’equilibrio tra ricchi e poveri è favorito da una forte classe media (mesoi), piccoli e medi proprietari terrieri; questi cittadini svolgono una funzione equilibratrice, dato che garantiti dal loro benessere non possono suscitare l’invidia dei poveri essendo modesti i loro possedimenti riguardo alla partecipazione delle diverse classi sociali agli organi deliberativi, esecutivi, giudiziari, Aristotele preferisce soluzioni che comportino un equilibrato coinvolgimento di tutti i ceti sociali nella vita dello stato
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