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PubblicatoFabia Rocchi Modificato 9 anni fa
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Nella Bibbia il nome di una persona ne esprime l’identità. Ognuno di noi è un nome e un volto. Questo anonimo è dunque presentato come in ricerca: del proprio nome e mosso da desiderio di senso.
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La ricerca di questa persona è al contempo spirituale e umana. Egli chiede che cosa deve fare per avere la vita eterna: è dunque mosso da una ricerca spirituale, ma di fatto è anche in ricerca di sé, della propria identità espressa al meglio dal proprio nome.
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Certo, viene espressa verbalmente solo la ricerca spirituale, ma dietro a essa, nel non-detto, nell’inespresso, vi è un’umanissima ricerca di sé.
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I meccanismi di sublimazione sono sempre in agguato: ci si presenta con una ricerca spirituale, si pronunciano parole spirituali, ma si tacciono la sete e la carenza, la sofferenza e il bisogno umano, che forse non si sa neppure riconoscere, verbalizzare ed esprimere.
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Ci si presenta cercando l’assoluto, ma si nasconde il proprio desiderio, che Gesù tenterà di far emergere. La ricerca di quest’uomo si esprime nel suo correre da Gesù, nel suo prostrarsi davanti a lui, nel suo interrogarlo (v. 17: «Che cosa devo fare...?»).
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In questo vi è anche la contraddittorietà propria di chi non ha ancora un’identità stabilita: egli mostra zelo ed entusiasmo, ma al contempo svela anche l’incertezza, il dubbio, il non sapere come muoversi, il non sapere che passi fare e che direzione prendere: «Che cosa devo fare?».
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La ricerca si esprime essenzialmente come domanda: lasciare spazio all’altro è lasciare spazio alle sue domande, farlo sentire accolto in tutte le sue domande.
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Nessuna fretta di dare risposte, nessuna presunzione di avere sempre la risposta da dare: meglio, molto meglio, lasciare all’altro lo spazio di dirsi e di domandare.
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La reazione di Gesù alla domanda del suo interlocutore è una contro-domanda che lo guida ad andare a fondo della sua ricerca e di se stesso.
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Qui vi è la sfida: risalire dalle domande che l’altro pone alla domanda che l’altro è.
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Gesù non agisce come forse agirebbero oggi molti educatori e pastori - che sfrutterebbero la domanda sul «che fare» impiegando quella persona come forza-lavoro nelle molteplici attività pastorali, parrocchiali o assistenziali -, ma intende l’oblatività e la generosità della persona come l’espressione del desiderio di ex-sistere, cioè di uscire da sé per trovare la propria identità nell’incontro e nella relazione con gli altri. Ecco la domanda che ognuno di noi è.
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La domanda è richiesta di luce, di orientamento, e orientarsi vuol dire volgersi a est, là dove sorge il sole. Questa luce la persona in ricerca dovrà saperla trovare in sé: spesso noi non siamo coscienti delle risorse e potenzialità che ci abitano.
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Nel nostro testo, Gesù si comporta come colui che genera, fa nascere, che mette in atto una maieutica: Gesù cerca di destare l’altro alla coscienza dei doni e delle risorse che ha già in sé. Qui emerge il «maestro» cercato da questa persona.
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Maestro, insegnante, è colui che fa segno, che dà vita, che trasmette vita, che consegna simboli per interpretare la realtà e per orientarsi in essa.
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Il maestro sa trasmettere un’eredità. Non è colui che si sostituisce all’altro dicendogli che cosa deve fare o che scelte deve compiere.
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Anzi, è colui che fa nascere nell’altro la fiducia in se stesso, la fiducia di avere tutta la capacità per scegliere, decidere e reggere la propria esistenza.
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Antoine de Saint-Exupéry ha scritto: «Se vuoi costruire una nave, non cominciare a ordinare alle persone: tu fa’ questo, tu porta il legname, tu lavora alla vela, ecc., ma risveglia in loro la nostalgia del viaggio, racconta loro la bellezza del mare, instilla in loro l’amore per gli orizzonti sconfinati del mare aperto».
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Se sorge questa passione, allora verrà costruita la nave. E nella gioia, non per dovere.
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