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Dacia Maraini di Giulia Savarese
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Descrizione La seguente presentazione illustra la vita della
scrittrice Dacia Maraini, concentrando l’attenzione sul romanzo “La lunga vita di Marianna Ucria”.
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DACIA MARAINI la biografia
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Probabilmente la più conosciuta scrittrice femminista italiana, e la più tradotta nel mondo, Dacia Maraini, nacque a Firenze il 13 novembre del 1936, dal famoso etnologo Fosco Maraini e dalla pittrice, Topazia Alliata. Desideroso di lasciare l'Italia fascista, Fosco Maraini chiese di essere trasferito in Giappone, dove visse con la sua famiglia, tra il 1938 e il Dal 1943 al 1946, la famiglia Maraini, insieme con altri italiani, fu internata in un campo di concentramento, per essersi rifiutata di riconoscere ufficialmente il governo militare giapponese. Nella sua collezione di poesie Mangiami pure, del 1978, la scrittrice racconta delle atroci privazioni e sofferenze, provate in quegli anni. Molti dei racconti scritti dalla Maraini durante l’adolescenza, furono pubblicati nei giornali della scuola.
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Questa scrittrice ha diviso la sua carriera in tre fasi principali
Questa scrittrice ha diviso la sua carriera in tre fasi principali. Una prima, in cui la scrittura le permise di superare l'alienazione che sentiva, attraverso la descrizione e l'analisi delle vita di alcune donne. Una seconda, una volta presa più confidenza con la scrittura, in cui iniziò ad esprimere le sue ideologie e a sostenere il cambiamento politico e sociale. Ed una terza, infine, che riguarda ancora oggi la scrittrice, nel quale si è impegnata a combattere le "certezze ideologiche, attraverso la realtà". Il suo ingresso ufficiale nel mondo letterario nazionale, iniziò quindi negli Anni '50, quando si trasferì a Roma ed entrò in contatto con molti scrittori di rilievo con cui fondò la rivista letteraria Tempo della letteratura.
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A Roma incontrò anche Alberto Moravia, che nel '62 lasciò la moglie Elsa Morante, per lei. Lo stesso anno, Dacia Maraini, pubblicò il suo primo romanzo, La vacanza, a cui successero, L'età del malessere (1963), che vinse il premio Formentor per opere inedite, Mio marito (1968), una collezione di racconti, e sette altri romanzi, di cui due sono diventati dei film. Nel 1985, la scrittrice ha vinto il premio Fregene per Isolina, e nel 1990, il prestigiosissimo premio Campiello, per il suo romanzo storico La lunga vita di Marianna Ucrìa. , inoltre nominato “miglior libro dell’anno”. Ma la fama della Maraini è dovuta anche al suo grande talento come critico, poetessa e drammaturgo. Questa scrittrice si è dedicata moltissimo al teatro, che ella vede come il miglior luogo per informare il pubblico riguardo a specifici problemi sociali e politici.
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Dal 1967, ha collaborato con diversi gruppi sperimentali romani, e ha fondato La Compagnia del Porcospino; nel 1969, ha fondato il Teatro di Centocelle, e, nel 1973, la compagnia de La Maddalena, la prima compagnia teatrale interamente femminile. Dal 1967 ad oggi, la Maraini ha scritto più di trenta opere teatrali e romanzi celebri, molti dei quali sono giunti in Europa e in America. Tra i romanzi più celebri ricordiamo: Memorie di una ladra (1973), Viaggiando con passo di volpe (1991), La bionda, la bruna e l’asino (1987), Bagheria (1993), Buio (1999). Nel 2000 pubblica “La nave per kobe”, il racconto del viaggio che la famiglia Maraini compì per raggiungere il Giappone, da Brindisi a Kobe, quando il giovane Fosco ricevette una borsa di studio in qualità di etnologo, dopo essersi abbandonato alla rischiosa tentazione di strappare la sua tessera fascista sotto gli occhi turbati del padre.
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Nel 2004 la scrittrice pubblica il romanzo la “Colomba”, nel quale la Maraini accompagna i lettori alla scoperta di una storia dai contorni fiabeschi, che penetra con delicatezza le motivazioni e i sentimenti che muovono l’animo umano. Un itinerario intimo di scoperta che conduce a riapprovarsi di un’identità personale e familiare. Ancora estremamente prolifica, viaggia attraverso il mondo par- tecipando a conferenze e prime dei suoi spettacoli. Ora risiede a Roma.
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“La lunga vita di Marianna Ucria”
«Vorrei che Marianna tenesse compagnia al lettore con il suo silenzio carico di pensieri». Questo il desiderio espresso da Dacia Maraini in una sua intervista. E come potrebbe non essere così? Centrale nel romanzo il rapporto tra la protagonista e suo padre. «Lui elegante e trasandato… lei chiusa dentro un corsetto ama- ranto che mette in risalto la car- nagione cerea».
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Padre e figlia, anzi «il signor padre» e «la mutola» avvinti in un rapporto che va oltre il muro del silenzio, che crea una sorta di legame indissolubile, fuori dal tempo. Ma «il signor padre» è un uomo e la «mutola» una donna, nel malefico ingranaggio di un mondo arcaico e onnipre-sente al contempo, dove cer- te cose sono da maschi e cer- te altre da femmine. «Assiste, la piccola mutola innamorata profondamente del padre, al- la scena cruenta e orribile della esecuzione dell’uomo: «lo sguardo della bambina si sposta sul condannato e lo vede piegarsi penosamente sulle ginocchia. […]
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Qualcosa non ha funzionato: l’impiccato, anziché penzolare come un sacco continua a torcersi sospeso per aria, il collo gonfio, gli occhi strabuzzati fuori dalle orbite. […] Ma ora è davvero morto; lo si capisce dalla consistenza di pupazzo che ha preso il corpo appeso. […] Il signor padre si china sulla figlia estenuato. Le tocca la bocca come se si aspettasse un miracolo. […] La bambina prova a spiccicare le labbra ma non ce la fa…». «Scan- tu la ‘nsurdiu e scanto l’avi a sana- re» [«uno spavento l’ha assordata e uno spavento la deve guarire»], aveva trovato scritto un giorno in una lettera del signor padre alla signora madre. Ma di quale spavento parlava? C’era stato un intoppo, un inciampo, un arresto involontario del suo pensiero quando era bambina? E a cosa era dovuto?».
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No, Marianna non ricorda perché a un certo punto della sua vita le orecchie si siano rifiutate di ascoltare e la bocca di parlare. Né assistere all’impiccagione di un ragazzo giustiziato dal macabro Tribunale della Inquisizione era servito a nulla. Ma la sua menomazione non si traduce in una sconfitta, che anzi la diversifica dalle altre donne e riempie il suo silenzio di pensieri. Pensieri che ruba dalla mente degli altri, dove riesce a penetrare senza sforzo, pensieri che costruisce con acume e acutezza di ingegno, forte della bella filosofia del signor Davide Hume e soprat- tutto forte della sua intelligenza, sollecitata dalla lettura, dalle ri- flessioni, dalla coscienza di do- ver lottare per non sprofondare nel labirinto della sua menomazione senza speranza.
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«L’intelletto quando agisce da solo e secondo i suoi più generali principii, distrugge del tutto se stesso… noi ci salviamo da questo scetticismo totale soltanto per mezzo di quella singolare e apparentemente volgare proprietà della fantasia per la quale entriamo con difficoltà negli aspetti più reconditi delle cose…». Marianna entra negli aspetti più reconditi delle cose, senza sottrarsi al suo destino di povera femmina, nata solo per saziare l’appetito sessuale dell’uomo, allevare figli, ubbidire, sottostare, invecchiare precocemente. Lei però non invecchia precocemente, anzi: «strano come regga bene l’età… neanche un filo di grasso, nessuna deformazione, snella come quando aveva vent’anni, la carnagione chiara, fresca, i capelli ancora ricci e biondi, solo una ciocca bianca sulla tempia sinistra…».
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sul grembo, non sapendo dove rin- tanarsi, che cosa fare; poiché ogni
Sposa a tredici anni, partorisce i suoi figli e li alleva, ma non fisicamente, perché nelle nobili famiglie ci sono i subalterni a pensare a tutto. Le sue rimangono mani: «che non hanno mai percepito il peso di una pentola, di una brocca, di un catino, di uno straccio. […] Hanno accarezzato, quelle mani, qualche testa di neonato, ma non si sono mai intrise della loro lordura. […] Certamente si sono posate, inerti, sul grembo, non sapendo dove rin- tanarsi, che cosa fare; poiché ogni gesto, ogni azione, era considerata pericolosa e inopportuna per una ragazza di famiglia nobile». Marianna alleva i suoi figli e le sue figlie con amorosa dedizione, attenta alla loro crescita mentale e psicologica, dipingendoli sulla tela e dipingendo nella sua mente la meravigliosa capacità di «essere» che ciascuno di noi ha e che ci fa individualità irripetibili e uniche.
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Manina, la paciera, Felice con la sua vocazione alla medicina, Giuseppa che rincorre la passione, Mariano che rifiuta di crescere e di autodeterminarsi e… Signoretto il più piccolo… il prediletto, tutti insieme a giocare, a vivere, a comunicare, sia pure per iscritto. Quella comunicazione che a lei era mancata… lei, figlia della sua «signora madre» inetta, infelice e affogata nel laudano, lontana, persa nel suo torpore di frustrazione, capace solo di ricordare alla figlioletta la sua situazione di «povera mutola». «Chissà che aveva in quella testa sempre languidamente reclinata su una spalla la dolcissima signora madre! […] Con quella tendenza a impigrirsi dentro un letto sfatto, dentro una poltrona, perfino dentro un vestito in cui si assestava appoggiandosi con le carni molli alle stecche di balena, ai ganci, financo alle asole.
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Una pigrizia più fonda di un pozzo nel tufo, un torpore che la conteneva come un baccello di carruba contiene il seme duro, morbido color della notte» .Lei, figlia prediletta del signor padre, che incapace di risolversi, la regala al cognato come si regalerebbe un gattino cieco a qualcuno che ha bisogno di un oggetto con cui riempire il vuoto dell’inettitudine, quel padre che adora, che troneggia nella sua mente, che l’accompagna per tutta la vita, anche dopo la sua morte, che ricorre nei suoi pensieri, quel signor padre: «che ha un modo tutto suo di montare sul baio acchiappandosi alla criniera corvina parlando al cavallo con fare persuasivo. […] Quando il vapore umido del mare prende a salire alle narici fresco e salato, il baio solleva le zampe anteriori e in pochi attimi, con una spinta poderosa dei fianchi, si solleva da terra. L’aria si fa più leggera, pulita; dei gabbiani vengono loro incontro stupefatti. Il signor padre incita il cavallo […], certamente questa volta la sta conducendo con sé in paradiso…».
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Ma in paradiso volerà il piccolo Signoretto, quel piccolo figlio tanto amato, nato anzitempo, allegro e intelligente, che voleva stare solo in braccio a lei, che la mordeva, la stringeva, le parlava, noncurante della sua sordità, sedeva a tavola accanto a lei, contro le abitudini del casato. Finché un giorno si era ammalato. E la mamma bambina, chiusa in una disperazione sorda come le sue orecchie e muta come le sue labbra, tenta disperatamente di salvarlo. E desidera di vederlo morire subito. Marianna: «appoggia la testa sul petto del figlio ascoltando i battiti di un cuore fievole appena percettibile. L’odore del latte rigurgitato e dell’olio di canfora le entra con prepotenza nelle narici. […]. Lo rivede aggrappato al suo seno nei primi mesi di vita […] Quando lo vede succhiare l’aria in quel modo straziante, le labbra livide, le manine aggrappate ai bordi della culla, pensa che il miglior modo di aiutarlo sarebbe di farlo morire».
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Figura splendida, affascinante, coinvolgente questa Marianna senza infanzia, senza amore, senza udito, senza futuro. Sullo sfondo di una terra orgogliosamente ancorata alla sua inettitudine, profumata, arsa, sfavillante di limoni, di odori, di pietanze succulente, di estati torride, di brevi inverni ventosi che giungono all’improvviso, di cavalli, di mona- cazioni, di proverbi, di arroganza nobiliare, di immobilismo e di sfa- villio, di località dai nomi accattiva- nti, musicali, di boschi di sugheri, di «distese di terreni coperti da una lanugine gialla piumata appena scossa dal vento» e di miseria, di squallida miseria senza requie.
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«Ovunque giri lo sguardo è la stessa cosa: case basse addossate le une alle altre, spesso munite della sola entrata che fa da finestra e da porta. Dentro si intravedono stanze scure abitate da persone e animali in tranquilla promiscuità. E fuori, rivoli di acqua sudicia, qualche bottega di granaglie esposta in grandi cesti, un fabbro ferraio che lavora sulla soglia sprizzando scintille, un sarto che alla luce della porta taglia, cuce e stira…». Marianna Ucrìa: capace di usare la penna in un momento storico in cui le donne sono tutte analfabete o quasi, sono donne «dall’intelligenza lasciata a impigrire nei cortili delle delicate teste acconciate con arte parigina.
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Di madre in figlia, di figlia in nipote, sempre intente e girare intorno ai guai che portano i figli, i mariti, gli amanti, i servi, gli amici, e a inventare nuove astuzie per non farsene schiacciare». Una femminista senza coscienza di esserlo,che prende in mano le redini delle sue proprietà quando, vedova e cosciente di due fratelli che non sanno risolversi, si determina a gestire e a capire. «Ormai sono a Torre Scannatura da venti giorni. Marianna ha imparato a distinguere i campi di grano da quelli di avena, i campi di sulla da quelli lasciati a pascolo. Conosce il costo di una forma di cacio sul mercato e quanto va al pastore e quanto agli Ucrìa. Le si sono chiariti i meccanismi degli affitti e delle mezzadrie. Ha compreso chi sono i campirei e a cosa servono: a fare da tramite fra proprietari distratti e contadini riottosi…».
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Solo l’amore non sa accettare, quell’amore che non conosce, perché lei ha conosciuto solo gli amplessi a cui era necessario sottostare per dovere, quelle continue violazioni fisiche e psicologiche del «signor marito zio» che la prendeva e penetrava nel suo ventre senza il dolce della tenerezza, senza il gusto della complicità, senza parole, muto come muta è la sua sposa, sordo ai richiami della sua anima, come sordo è il suo rapporto con la società, con la storia, con il progresso. «Marianna ripensa ai loro frettolosi accoppiamenti al buio, lui armato e implacabile e lei lontana, impietrita. Dovevano essere buffi a vedersi, stupidi come possono esserlo coloro che ripetono senza un barlume di discernimento un dovere che non capiscono e per cui non sono tagliati. Eppure hanno fatto cinque figli vivi e tre morti prima di nascere che fanno otto: otto volte si sono incontrati sotto le lenzuola senza baciarsi né carezzarsi. Un assalto, una forzatura, un premere di ginocchia fredde contro le gambe, una esplosione rapida e rabbiosa».
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Quel signor marito zio il cui cervello assomiglia, pensa Marianna, in un certo senso alla sua bocca «trita, scompone, pesta, arrota, impasta, inghiotte» ma niente trattiene di quel cibo e resta magro, a dispetto degli anni. Per lui la moglie è una incomprensibile bambina di un nuovo secolo, così assurda nella sua ansia di rinnovamento, così incomprensibile, tesa alla ricerca di novità, di azione. Quell’azione «aberrante, pericolosa, inutile e falsa» perché rendere familiare l’ignoto e dargli forma è tradimento di quell’ozio sublime che solo i nobili veri possono permettersi. Cento volte meglio quel quadro che tiene nel suo studio che rappresenta il martirio di san Signoretto e che porta sotto, incisa nel rame, la dicitura «Beato Signoretto Ucrìa di Fontanasalsa a Campo Spagnolo, nato a Pisa nel 1269».
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L’amore tuttavia la insegue
e Marianna fugge, la cerca con gli occhi, con il corpo, con la mente, con ingenui tranelli, cavaliere dai capelli ricci e neri sul suo cavallo veloce e dispettoso, la spia e lei fugge, la implora e lei resiste, la cerca, la trova, la perde… si trovano, si amano. E nel suo ventre la sensazione dell’amore, quel ventre che aveva solo subito il travaglio dei parti e il martirio del sacrificio. Un amore impossibile per Marianna, nobile, duchessa, mutola, vedova, femmina, rappresentante della regale stirpe degli Ucrìa. Un amore da cui bisogna fuggire.
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«Il brigantino si muove appena dondolandosi sull’acqua verde
«Il brigantino si muove appena dondolandosi sull’acqua verde. Davanti, a ventaglio, la città di "Paliermu": una fila di palazzi grigi e ocra, delle chiese grigie e bianche, delle stamberghe dipinte di rosa, dei negozi dai tendoni a strisce verdi, le strade delle «balati» sconnesse in mezzo a cui scorrono rivoli d’acqua sporca […] Ora il brigantino è agiato da scosse lunghe e nervose. Le vele sono issate: la prua si dirige decisamente verso l’alto mare. Marianna si appoggia con tutte e due le mani alla balaustra laccata mentre Palermo si allontana con le sue luci pomeridiane, le sue palme, le sue immondizie spinte dal vento, la sua forca, le sue carrozze. Una parte di lei rimarrà lì, su quelle strade inzaccherate, in quel tepore che sa di gelsomini zuccherati e di escrementi di cavallo».
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Profumi ed escrementi: la bellezza di un mondo che appare contro l’atrocità di un mondo che schiaccia, che opprime, che uccide, che condanna, che perseguita; la bellezza di quelle ragioni del cuore che la ragione non conosce ma che ti costringe a misconoscere… Gli escrementi di cavallo, simbolo di un logorante immobilismo mentale che si nutre di se stesso, appannaggio di un mondo maschile fatto di maschi che non hanno alcun diritto se non quello esercitato in nome di una falsa doppia morale, maschi che in fondo fanno pena, perché non trovano altro alibi alla loro prepotenza crudele che non si riduca al possesso di quel qualcosa con cui possono violarti e sentirsene orgogliosi.
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«La sera, alla tavola del capitano, nel saloncino dal tetto a botte, seggono strani visitatori che non si conoscono fra loro: una duchessa palermitana sordomuta chiusa in una elegante spolverina alla Watteau a rigoni bianchi e celesti…». E «brandelli di memorie disperse e quasi dissolte» risalgono dal fondo della coscienza… immagini di tutta una vita, una lunga vita, segnata da quello "scantu" che l’ha resa sordomuta, una menomata che ha trasformato la sua menomazione in una proficua fonte di affinamento fisico e intellettivo, che vorrebbe ritornare indietro ma che ha troppa voglia di riprendere il cammino, di percorrere la strada del suo destino fino alla fine, interrogando i suoi silenzi… interrotti solo una notte, da un assurdo grido agghiacciante che traduce finalmente la memoria di ciò che fu.
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Il romanzo comunica ai lettori un’idea profonda e sensuale della Sicilia». La Sicilia de La lunga vita di Marianna Ucrìa riesce a soggiogare così profondamente, da far sentire nelle narici l’odore della menta, del mare, immaginando «una notte benigna, tiepida, allagata di profumi» e percependo «una leggera brezza salina che arriva a tratti dal mare».
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