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Le Donne sottomesse in Afghanistan
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In questo periodo gli occhi del mondo sono puntati sull’Afghanistan e i media sembrano interessarsi a qualcosa che fin’ora hanno ignorato: la condizione della donna sotto il regime dei Talebani. Una cosa è sicuramente vera: le donne in Afghanistan sono costrette a condizioni di vita agghiaccianti e nella società sono come dei fantasmi. La legge dei Talebani vieta alle donne di lavorare, studiare e di farsi visitare - privilegio consentito solo alle donne di famiglie nobili – tra l’altro, in qualsiasi attività da esse svolte saranno sempre accompagnate da un Mahram (padre, fratello o marito), costrette nel loro lungo velo, chiamato burqa.
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Il velo è il simbolo della separazione dei sessi, tipica delle società arabo-islamiche, profondamente tradizionali e patriarcali, in cui è più che mai sentita l'esigenza di una forma di controllo sulle donne da parte degli uomini. Con l'espansione dell'Islam, esso si diffuse rapidamente in tutti i paesi arabi: fu adottato da quasi tutte le donne nelle città e specialmente da coloro le quali appartenevano alle classi agiate, ma né le contadine né le donne che lavoravano lo adottarono completamente. L'uso del velo trova, infatti, la sua massima espressione nelle città, pur variando da paese a paese: ad esempio in alcuni paesi arabo-islamici esso è utilizzato dalle donne o per libera scelta o per imposizione; in altri paesi, invece, è addirittura vietato, come in Tunisia dove è proibito l'uso del velo nelle scuole e negli edifici pubblici.
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La scelta della donna musulmana di coprire la testa proviene dal Corano; con l'avvento dell'Islam, il velo divenne un segno esteriore di adesione delle donne alla religione islamica. Il Corano dice: « Oh Profeta! Dì alle tue spose e alle tue figlie e alle donne dei credenti che si ricoprano dei loro mantelli, questo sarà più atto a distinguerle dalle altre e a che non vengano offese (...) Dì ai credenti che abbassino gli sguardi e custodiscano le loro vergogne; questo sarà per loro, cosa più pura, ché Dio ha contezza di quel che essi fanno. E dì alle credenti che abbassino gli sguardi e custodiscano le loro vergogne e non mostrino troppo le loro parti belle, eccetto quel che di fuori appare, e si coprano i seni d'un velo e non mostrino le loro parti belle altro che ai loro mariti, o ai loro padri o ai loro suoceri o ai loro figli...»
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Ci capita spesso di incontrare per strada o in altri luoghi una donna col capo coperto da un velo, il nostro pensiero è spesso condizionato dal disagio che proviamo in sua presenza e personalmente penso a quali potrebbero essere le soluzioni per migliorare la sua condizione. Il velo fa purtroppo parte degli stereotipi occidentali sulla civiltà arabo-islamica. La tv e i giornali parlano con grande superficialità della condizione della donna nel mondo e delle diverse Religioni. Il messaggio che emerge è quello per cui i Cristiani sarebbero aperti e favorevoli ai diritti della donna (non direbbero così le numerose donne bruciate sul rogo in passato perché accusate di stregoneria!) e gli Islamici chiusi e patriarcali. Qualcuno dirà che da noi si vive meglio, le donne vivono in una condizione migliore; di certo non dobbiamo ringraziare il Cattolicesimo per questo, ma le donne che prima di noi hanno disobbedito e lottato contro le ingiustizie del dominio patriarcale.
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Ho scoperto, attraverso le esperienze delle donne della mia famiglia, che per motivi diversi - economici, politici e culturali - le donne sono spesso poste al di sotto degli uomini e, per raggiungere un livello superiore, devono lottare contro le discriminazioni di coloro i quali temono le loro capacità. Nel campo economico le donne occidentali hanno raggiunto una propria indipendenza, mentre in altre parti del mondo dipendono, ancora, completamente e psicologicamente dall’uomo. Nel campo culturale hanno ormai raggiunto livelli pari, se non a volte maggiori, di quelli degli uomini: sono molte le donne impegnate sul fronte della ricerca scientifica di qualsiasi tipo. Il settore politico, invece, continua ad essere dominato dagli uomini che decidono e impongono le loro regole. Un altro problema dell’universo femminile è il matrimonio che segna la fine dell’istruzione; ho letto di migliaia di donne afgane che sono state espulse da scuola perché sposate. Questo è un duro colpo per le studentesse afgane alle quali è stato negato il diritto dell’istruzione. Donne che magari potrebbero migliorare la vita nel loro paese si vedono preclusa la possibilità di studiare e di viaggiare per migliorare sé stesse.
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La violenza contro le donne è ancora oggi a livelli drammatici in Afghanistan.
Il fondamentalismo islamico di ogni tipo considera le donne come esseri inferiori, schiave in casa capaci solo di procreare figli. Con la salita al potere dei fondamentalisti islamici nel 1992, il diritto delle donne di partecipare pienamente alla vita sociale, economica, culturale e politica del Paese è stato drasticamente ridotto e, in seguito, addirittura negato dai talebani. Sotto questi ultimi (che rappresentano tuttora il potere predominante in Afghanistan), come ho già detto prima, le donne sono state totalmente private del diritto all'istruzione (tutte le scuole femminili sono state chiuse), del diritto al lavoro (a tutte le donne è stato imposto di restare a casa), del diritto di spostarsi
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(come ho già detto, nessuna donna può uscire di casa da sola e senza essere accompagnata da un parente stretto di sesso maschile), del diritto alla salute (nessuna donna può essere visitata da un medico di sesso maschile), del diritto a ricorrere alla legge (la testimonianza di una donna vale la metà di quella di un uomo), del diritto a divertirsi (tutti i luoghi di incontro femminili, ricreativi e sportivi, sono stati vietati, le cantanti non possono cantare dal momento che le loro voci "provocano" gli uomini, ecc.) e del diritto
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di essere degli esseri umani a tutti gli effetti (non possono mostrare il loro viso in pubblico agli uomini, indossare vestiti dai colori sgargianti o truccarsi, non possono portare scarpe con tacchi poiché, con il loro suono, potrebbero sedurre gli uomini; non possono viaggiare in veicoli privati insieme a passeggeri di sesso maschile, non hanno il diritto di parlare a voce alta quando sono in pubblico, né ridere forte per non provocare gli uomini, ecc.).
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Le donne sono considerate un bottino di guerra, i loro corpi costituiscono un altro campo di battaglia. Un esempio della vita di queste donne lo possiamo vedere nel film “Viaggio a Kandahar”. La storia vede come protagonista una giornalista canadese che tenta di arrivare a Kandahar per aiutare la sorella che le aveva rivelato di volersi suicidare durante l’ultima eclissi. Essa, scappata anni prima durante la guerra civile, si precipita per salvarla, solo che a causa di mancati passaggi per Kandahar, dovuti a posti di blocco lungo le strade, non riesce a raggiungerla in tempo. La vita, in questi Paesi era, e lo è tuttora, molto dura, a causa del deserto che aveva, e ha, occupato gran parte del territorio, e si potevano coltivare prodotti poveri come cereali, migli, sorgo e sesamo.
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Molte sono le immagini che ho incontrato durante la mia ricerca su questa tematica e ha attirato la mia attenzione un’artista di fama internazionale il cui impegno è perfetta espressione di tale situazione. Mi riferisco a Shirin Neshat, una donna di grande forza e carisma che attraverso le sue opere artistiche ha reso visibile l’immagine dell’Islam e delle sue donne. Shirin Neshat è nata nel 1957 a Qazvin in Iran, ha studiato all'Accademia di Belle Arti e poi si è trasferita negli Stati Uniti e vive a New York. E' conosciuta a livello mondiale per le sue opere che hanno come soggetto la donna e la sua condizione nel confronto tra Oriente e Occidente.
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Le sue prime opere sono fotografie di visi di donne che portano dipinti
sul volto, calligrafie di poesie persiane, non solo sul volto ma anche sulle mani, sulle palpebre, sulle braccia, “come se la donna muta volesse offrire alla poesia il supporto del proprio corpo”.
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Il titolo di questi lavori è appunto Le donne di Allah, (Women of Allah, 1993-1997).
La condizione delle donne islamiche diviene oggetto della sua ricerca artistica. Nel 1993 ritornata in Iran ha fotografato soprattutto le donne. La prima immagine di fronte alla quale ci mette è una donna con la canna di fucile tenuta tra i piedi: noi ne vediamo le piante e leggiamo i caratteri arabi - è il testo di una poetessa araba del medioevo. .
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Shirin Neshat si fa conoscere a livello internazionale attraverso le sue foto, ritratti femminili avvolti nello chador: sulle parti scoperte del corpo (il volto, le mani, i piedi) sono tracciati in scrittura farsi versi d'amore di poetesse persiane. Il suo lavoro si espande all'uso di più tecniche ed è aiutata da uno staff di sette persone che sono artisti di varia provenienza: danza, musica etc. Vengono proiettate immagini in cui si confrontano Occidente e Oriente, universo maschile e femminile: basti pensare a Turbulent con cui nel 1999 si è aggiudicata il Premio Internazionale della Biennale di Venezia.
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Il passo decisivo, l'artista, lo compie nel 1997-98 passando ai video
Il passo decisivo, l'artista, lo compie nel passando ai video. Si tratta di due video proiettati simultaneamente su due pareti opposte: da una parte c'è un uomo in camicia bianca e pantaloni neri che canta una canzone tradizionale davanti ad un pubblico tutto di uomini, tutti vestiti come lui; dall'altra, una donna avvolta nel nero del chador, che canta da sola, al vuoto, una canzone senza parole.
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Seguono Rapture (1999), un video girato in Marocco, cui bisogna aggiungere una serie di foto scattate durante le riprese. Per realizzare Rapture (in italiano vuol dire "estasi", "rapimento") Neshat ha utilizzato oltre duecento comparse, divise fra donne e uomini. L'azione si svolge, anche qui, in due situazioni simmetriche e contrapposte: il gruppo degli uomini è chiuso all'interno di una fortezza di pietra, e si muove in uno spazio circolare, cinto da un muraglione. Il gruppo delle donne, invece, si aggira all'aperto, in un vasto luogo, come una landa desolata, da cui poi si sposta verso il mare, sciamando nei veli neri verso una piccola imbarcazione al largo. L'azione è muta e i gesti dei due gruppi sono enigmatici.
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Gli uomini sembrano obbedire ad un rito, sembrano occupare lo spazio in modo assurdo, senza compiere alcuna attività specifica, mentre le donne si raggruppano, corrono lungo la spiaggia…
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Ancora, gli uomini sono tutti vestititi uguali, camicia bianca e pantaloni neri, le donne tutte uniformamente avvolte nel nero del chador. Gli altri video presentati nella mostra riflettono anch'essi sulla condizione della donna islamica sia quando sola in casa canta una canzone d'amore seguendo il suono di una radio, come in Pulse (Pulsazione, 2001), sia quando vaga in preda al delirio nella piazza di una città orientale come in Possessed (Posseduta, 2001), affascinando e inquietando al tempo stesso la gente che la circonda.
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Troviamo in questa artista fronteggiarsi vecchio e nuovo, donne e uomini
Ma ciò che le interessa non è schierarsi o denunciare o rivendicare, ma capire, riflettere e spostare il punto di vista rispetto ai luoghi comuni sulla donna musulmana.
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La condizione della donna nel mondo è lontana non solo dal raggiungimento della parità anche da una vita che possa definirsi umana. A tutto ciò l’unica risposta possibile è la mobilitazione e l’azione diretta delle donne. Non esiste un altro modo per cambiare il mondo, eliminare le ingiustizie e vivere finalmente tutte e tutti una vita degna di essere vissuta.
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