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PubblicatoGenoveffa Bernasconi Modificato 11 anni fa
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DESCARTES risponde al CATERUS 1) la causa di un’idea
DESCARTES risponde al CATERUS 1) la causa di un’idea? osserva che Caterus ha in mente prima di tutto la realtà effettiva, che è in atto, e per questo non vuol riconoscere la realtà oggettiva dell’idea, anche se dice che non è un puro niente, ma qualcosa
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osserva inoltre che il problema della causa si pone anche per la realtà oggettiva delle idee Esempio: l’idea di una macchina assai complessa. Da dove l’avrò escogitata? forse ne avrò visto una o forse me la sono inventata; comunque “nella causa dovrà esserci in modo formale (effettivo) la ragione dell’artificio che penso con la mente”.
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Per spiegare un’idea, non basta tirare in campo la nostra ignoranza
Per spiegare un’idea, non basta tirare in campo la nostra ignoranza. La causa deve avere almeno le perfezioni dell’effetto. Non si può spiegare l’idea di una macchina piena d’artificio solo con l’ignoranza della meccanica.
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Cartesio: forse il Caterus dimentica l’altra parte del ragionamento: non solo ho detto che abbiamo in noi l’idea di Dio, ossia di un essere perfetto, ma anche che noi siamo finiti, e che la nostra mente proprio per questo non può essere l’origine della realtà obiettiva di tale idea.
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Riguardo al secondo argomento della terza meditazione: il Caterus l’ha paragonato alla via dalle cause efficienti di Tommaso. Cartesio osserva che non è partito dal mondo, 1) perché le cose sensibili sono meno evidenti di Dio; 2) ma anche per una ragione più profonda, legata alla serie delle cause...
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Cartesio introduce qui una difficoltà, legata al modo con cui interpreta la serie delle cause. Osserva che non riesce a capire come le cause infinite (cause seconde) debbano richiedere una causa prima. Scambia però il modo con la questione di fondo: “non si può procedere all’infinito” (Aristotele)
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Cartesio osserva infatti che “dall’impossibilità di immaginarmi una serie infinita di cause non segue che debba esistere una causa prima”; e suggerisce un esempio matematico: la divisione in frazioni può continuare anche se non sono in grado di immaginare come.
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Cartesio conclude piuttosto che è certo da tutto questo che il mio intelletto finito non può comprendere l’infinito. Ecco perché è partito dall’esistenza di se stesso e si è chiesto, non tanto quale sia l’origine a ritroso (serie delle cause) ma piuttosto come possa essere conservato nell’essere.
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Cartesio osserva inoltre che ha cercato la causa della propria esistenza non in quanto anima e corpo, ma in quanto mente: questa è l’unica cosa certa che ci evita di andare in cerca della serie delle cause (i miei genitori e così via all’indietro)
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E non bisogna anche qui dimenticare la presenza in me dell’idea di Dio o di perfezione: solo così ho scoperto la mia finitezza e la necessità che qualcun altro mi abbia posto e mi conservi nell’essere (NB come a dire: anche la seconda prova è legata alla prima)
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A conclusione di questo punto torna sul problema del “per sé”: è impossibile che qualcosa sia causa efficiente di se stessa? Sì, se si parla di cause efficienti che debbono essere diverse dagli effetti o precederli nel tempo; ma forse si può intendere la causa efficiente in un senso più largo.
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Cartesio incomincia precisando che la causa efficiente non è di per sé qualcosa che deve precedere nel tempo il proprio effetto; né posso generalizzare dicendo che tutto deve avere una causa: in tale caso, anche la causa prima dovrebbe avere a sua volta una causa.
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Cartesio suggerisce piuttosto che deve esistere qualcosa che non ha bisogno di una causa né per esistere, né per conservarsi, e “che è in certo modo causa di se stessa” (causa sui)
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Cartesio spiega meglio la propria argomentazione: se anche fossi esistito da sempre, avrei sempre bisogno di qualcuno che mi conservi nell’essere; così Dio, che da sempre esiste, è esso stesso a conservarsi nell’essere (causa sui): una causalità efficiente che non dice un reale influsso su se stesso, ma piuttosto che Dio esiste da sempre.
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Cartesio sembra tuttavia giocare sulle distinzioni: chi intende il per sé in senso negativo, lo fa perché non è in grado di sapere come questo accada (questione solo di linguaggio); ma ci deve essere anche un senso positivo del per sé, ed è quello legato alla verità delle cose.
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Esempio: una pietra dirò che è per sé (in senso negativo) perché non conosco la sua causa; ma se mi domando se nella pietra c’è una forza che la mantenga nell’essere, allora dovrò dire che non è per sé (in senso positivo): solo Dio è per sé in senso positivo e al di là della parola, è come se fosse ‘causa efficiente’ di se stesso.
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Cartesio riprende poi l’osservazione del Caterus ripresa da Suárez: ciò che è limitato ha una causa e osserva che non è la limitazione a richiedere una causa, semmai la cosa limitata; il che equivale a dire: la limitazione si può spiegare con la forma (per sé) ma l’esistenza non è una questione puramente formale.
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E allarga quindi il discorso: tutto quello che esiste è o per una causa, o per sé come per una causa: In conclusione: il per sé va interpretato comunque in senso positivo. Osservazione: qui Cartesio torna a privilegiare l’esistenza sull’essenza
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Ma veniamo all’idea di infinito: a dire il vero l’infinito in quanto infinito non può essere compreso ma è tuttavia inteso un conto è l’indefinito, un conto l’infinito: del primo non conosco i limiti solo per qualche aspetto, del secondo sotto tutti gli aspetti
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Inoltre un conto è l’infinità in quanto tale e un conto la cosa infinita: l’infinità è concepita come qualcosa di positivo, ma viene intesa come assenza di limitazioni (ossia in modo negativo) la cosa infinita viene concepita in modo positivo, ma non in tutta la sua estensione, che è appunto infinita
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Torna all’esempio del chiliogono e aggiunge quello del mare: noi vediamo distintamente una parte o un particolare, ma vediamo solo confusamente il tutto. Altrettanto si deve dire di Dio: noi abbiamo solo una conoscenza che è propria di una mente finita; non ho mai preteso di conoscere l’infinito in tutta la sua estensione
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Cartesio dopo aver concesso che in tal modo gli sembra di essere d’accordo con Tommaso d’Aquino riguardo alla conoscenza solo confusa di Dio, passa alla prova a priori.
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E incomincia facendo mostra di essere d’accordo con Tommaso: Anselmo avrebbe dovuto dire che la parola Dio indica appunto qualcosa che esiste non solo nella mente, ma anche nella realtà; ma si tratta solo del significato della parola, mentre io ho detto qualcosa di ben diverso
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La differenza è proprio questa, la premessa di tutto il ragionamento: ciò che concepisco in modo chiaro e distinto appartenere all’essenza di qualcosa, deve essere affermato con verità di quella cosa (premessa maggiore) Ora nell’essenza di Dio, ... (minore) quindi (conclusione) posso dire con verità di Dio che esiste.
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Osserva Cartesio che la premessa maggiore non è in fondo che il principio dell’evidenza; la difficoltà è piuttosto nella premessa minore: nelle cose comuni siamo soliti distinguere tra essenza ed esistenza e facciamo fatica a pensare un’essenza in cui sia necessario pensare anche l’esistenza.
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Forse sarebbe meglio distinguere tra esistenza possibile ed esistenza necessaria: nelle cose comuni l’esistenza è pensata come possibile; solo nell’idea di Dio troviamo l’idea di un’esistenza necessaria.
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Si può inoltre aggiungere un ulteriore criterio: le idee inventate da noi sono divisibili in modo chiaro e distinto (nel cavallo alato: posso pensare le due cose divise in modo chiaro e distinto); mentre per le idee che mi fanno conoscere qualcosa di immutabile, le distinzioni sono possibili solo con una restrizione della mente.
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Prendiamo l’idea di un corpo perfettissimo, come suggerisce il Caterus: mi accorgo subito che le perfezioni sono state da me riunite a partire dai diversi corpi; inoltre, nel concetto di corpo non trovo l’idea di una potenza in grado di produrlo o conservarlo nell’essere.
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Nell’idea di un essere onnipotente, invece, troviamo anzitutto l’idea di una esistenza possibile; ma troviamo anche l’idea di una potenza infinita, che senz’altro ne garantisce l’esistenza. 113: “è manifesto per lume naturale che ciò che esiste per la sua propria forza, esiste sempre”
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All’ultima obiezione, sulla sesta meditazione, Cartesio osserva che occorre non una distinzione formale, ma una distinzione reale; precisa: “io concepisco pienamente che cos’è un corpo (una cosa completa); altrettanto posso dire della mente o dello spirito: ecco il fondamento della distinzione reale”; una distinzione formale rimane all’interno della cosa.
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Osservazione: le precisazioni di Cartesio alle prima obiezioni sono importanti per capire anche le discussioni successive, in particolare le seconde (Mersenne) e le quarte obiezioni (Arnauld).
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