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Seminario di filosofia dell’immagine
20 dicembre 2007 Paolo Spinicci Considerazioni fenomenologiche sulla natura del ritratto Seminario di filosofia dell’immagine
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Il ritratto: un’accidentalità storica?
Il ritratto è un genere artistico che ha una sua storia e non è affatto detto che con il trascorrere dei secoli si intenda sempre la stessa cosa con lo stesso termine, proprio come nulla ci rassicura che sia davvero necessario che questa forma figurativa sopravviva al divenire della cultura. Proprio come il romanzo o la forma sonata, anche il ritratto è un genere che ha una sua origine: per Burkhardt il ritratto è nato con il Rinascimento italiano ed è dunque una forma artistica recente e tipicamente europea
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Noi apparteniamo ad un mondo in cui il ritratto è importante, ma se ci riflettiamo un poco è facile scorgere molte ragioni che potrebbero farci sembrare inquietante e bizzarra questa nostra ossessione che ci spinge a fissare in un’immagine il volto. In fondo perché mai dovremmo costringere gli altri a ricordarsi del nostro volto colto in un’età e in un’espressione particolari? E poi non c’è qualcosa di sbagliato nel tentare di fissare una cosa mobile come un volto? Il ritratto restituisce il tuo volto – ma a che età? – e lo rende riconoscibile – ma per chi? A questi argomenti potrebbero affiancarsi quelli del fanatismo religioso – ed anche in questo caso non c’è bisogno di andare tanto lontano dalla nostra tribù. Nel XVII Pierre Nicole riteneva colpevole e fastidiosa l’abitudine del ritratto e la criticava come un vano indulgere sull’aspetto sensibile delle persone – e anche oggi vi è chi la pensa così. Un mondo senza ritratti non è affatto inconcepibile e basta forse dare ascolto al fastidio che talvolta proviamo quando qualcuno ci fa una fotografia per capire quale sia la strada che ci potrebbe condurre da questo nostro mondo pieno di ritratti ad un mondo che non ne avvertisse affatto il bisogno
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Può darsi che tra breve nessuno ritenga più opportuno fare un ritratto e può anche darsi che in futuro questa parola assuma un senso diverso e descriva ciò che oggi non chiameremmo con quel nome – questo può ben accadere, ma ciò non toglie che se oggi possiamo usare questa parola e comprenderci ciò accade perché è possibile farlo e questo ci invita a chiederci quali sono le strutture che ci consentono di ancorare proprio questo gioco figurativo al mondo della nostra esperienza e di ancorarlo proprio così come noi ora facciamo. Dobbiamo, in altri termini, chiederci quali siano gli aspetti che determinano la grammatica del concetto che circoscrive questa forma figurativa per poi chiederci quali siano le sue condizioni di possibilità.
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Di qui il senso delle nostre considerazioni: se è possibile il ritratto e se vi sono state culture che hanno praticato questa forma di raffigurazione debbono esservi condizioni che rendano sensato questo gioco. Un’ipotesi: ritratti possono esservi perché è possibile raffigurare in un certo modo un certo oggetto e perché quel modo è strettamente connesso alla natura di quell’oggetto
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Questo non è un ritratto – ma perché?
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Perché questo è un ritratto
…e questo non lo è?
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Prima regola: Possiamo dipingere una sedia, un tavolo o un albero e potremmo essere capaci di riconoscerli, proprio come sappiamo riconoscere una casa o un paesaggio che qualcuno ci mostra in una fotografia. In tutti questi casi, tuttavia, non sembra affatto lecito parlare di ritratti e se il discorrere del ritratto di un cane ci sembrerebbe semplicemente fuori luogo, riterremmo di avere interamente violato la grammatica che circoscrive l’uso sensato di quel termine se parlassimo di ritratti anche per le raffigurazioni di oggetti inanimati. Qui è all’opera una regola che seguiamo con scrupolo anche se nessuno ce l’ha mai insegnata, – una regola che potremmo formulare così: solo di una persona è possibile fare un ritratto.
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Un quadro del Ghirlandaio che non definirei un ritratto
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Angelo Poliziano e Giulio de’ Medici
Un possibile spiegazione: sembra essere sufficiente “ritagliare” il quadro perché venga voglia di parlare di un ritratto?
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Una spiegazione falsa: si sostiene che il ritratto implichi l’isolamento. Si tratta tuttavia di una tesi insostenibile poiché vi sono, notoriamente, ritratti di gruppo Franz Hals, Banchetto degli ufficiali della Guardia civica di San Giorgio, 1616
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E perché anche questo non è un ritratto?
Rockwell, Girl at the mirror
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Perché si possa parlare di un ritratto sembra necessario infatti che la persona raffigurata si sia messa in posa e che non vi siano altre ragioni che giustifichino i suoi gesti e il suo comportamento
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La famiglia del pittore
Hans Holbein, La famiglia del pittore
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Degas, La famiglia Belelli
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Non possiamo dire, se non metaforicamente, che una fotografia è il ritratto di una piazza o di una città che pure riconosciamo senza alcuna difficoltà e non possiamo farlo perché non è possibile cogliere il modo in cui l’una e l’alta ci appaiono come se fosse il frutto di una decisione, come se fosse l’esito di un atteggiamento scelto per apparire così. Gli oggetti non possono mettersi in posa perché non sapremmo davvero in che modo costringere la parola «atteggiamento» a far presa sugli oggetti e sul loro modo di manifestarsi: una sedia o un tavolo hanno proprietà di varia natura e proprio per questo ci appaiono in modi mutevoli, ma ciò non toglie che non possano atteggiarsi in nessun modo, perché la nozione di atteggiamento può applicarsi soltanto là dove fa presa il concetto di decisione.
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Ma gli animali possono mettersi in posa?
Per rispondere a questa domanda è necessario cercare, in primo luogo, di comprendere meglio che cosa voglia dire mettersi in posa. Ora io credo che di posa sia lecito parlare per intendere quel comportamento volontario che consiste nel disporre il corpo e il volto secondo un disegno che è determinato esclusivamente dalla consapevolezza del nostro essere osservati e dal fatto che appariremo a chi ci osserva proprio così come ci atteggiamo. «Mettiti in posa» significa dunque questo: assumi l’atteggiamento in cui vuoi essere visto e non lasciarti determinare nel tuo comportamento da moventi che non siano interamente riconducibili alla dimensione della visibilità e che siano invece motivati dal tuo consueto interagire con ciò che è parte della situazione cui appartieni. Il senso di questa massima è chiaro. Chi si mette in posa deve fare un passo indietro rispetto alla vita per preoccuparsi non di ciò che realmente lo circonda e che lo invita in vario modo ad agire, ma del modo in cui appare a chi lo guarda. La posa implica una sospensione della prassi: si è in posa quando si smette di fare ciò che si deve, per disporsi esplicitamente sul terreno di una finzione che mette in scena gli sguardi e i gesti che si ritengono più adatti per definirsi agli occhi degli altri. E ciò significa: nella posa, impariamo a lasciarci guidare da un movente che non è reale, poiché ciò che determina il nostro comportamento non è ciò che noi siamo, ma il modo in cui vogliamo apparire agli altri.
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La prima voce che parla nel concetto di posa ha il tono di una consapevolezza acquisita – una consapevolezza complessa che si guadagna in una relazione intersoggettiva, dando ascolto ai diversi modi in cui gli altri reagiscono alla nostra presenza. Abbiamo coscienza del percipere, ma diveniamo consapevoli del nostro percipi e lo diventiamo senza bisogno di studiarci allo specchio, ma semplicemente comprendendo come reagiscono gli altri alla nostra presenza e all’atteggiamento che di volta in volta la anima. Alla dimensione dell’accettazione e della consapevolezza si lega tuttavia, nella posa, il momento della prassi e dell’attività: chi si mette in posa non vuole soltanto essere visto, ma cerca di determinare in una direzione determinata il modo del suo apparire e quindi anche del suo essere riconosciuto dagli altri. Di qui il secondo aspetto di cui discorriamo: la posa è il frutto di una prassi volontaria che cerca di decidere il modo in cui chi l’assume sarà percepito dagli altri. Possiamo allora trarre una conclusione impegnativa: proprio perché è caratterizzata dalla dialettica tra la consapevolezza dell’apparir così e la decisione di voler apparire in un certo modo, la posa assume il senso di una narrazione identitaria, di una prassi che cerca di raccontare ciò che di fatto sono secondo il dettato di una decisione soggettiva.
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Di qui la natura peculiare del ritratto
Di qui la natura peculiare del ritratto. Un ritratto non è una qualsiasi raffigurazione di una persona determinata, ma è un’immagine che propone una narrazione: ci presenta in effigie un volto che conosciamo e ci chiede di fare del modo in cui quel volto è narrato e messo in scena, il testo di un racconto che ci parla di una persona reale. La posa determina il contenuto della narrazione: atteggiandosi in questo modo, quel volto vuole apparirci in una forma determinata e vuole quindi raccontarsi in un certo modo. Per cogliere in un quadro un ritratto non basta riconoscere la persona raffigurata: occorre anche sentire la voce che ci invita a riconoscerlo nelle forme che l’immagine ci mostra. Questo è quanto un ritratto ci dice: «quello che vedi sono proprio io, perché proprio io ho deciso quale sia la veste che deve consentirti di riconoscermi»
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Di questa voce lo spettatore deve prendere atto, ma deve insieme tentare di saggiare la validità di ciò che essa propone. Non ogni posa è credibile perché non è sempre vero che la decisione di apparir così sappia legarsi alla consapevolezza di come di fatto si appare. La posa ha una sua interna dualità e può, proprio per questo, essere incongrua in se stessa: la decisione di apparire così può scontrarsi con il modo in cui di fatto appare quel volto e quel corpo che così si atteggia.
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È tuttavia evidente che vi è un’altra forma di incongruenza: qualche volta i ritratti non sembrano applicarsi alla persona di cui ci parlano. L’immagine è ineccepibile, ma il racconto non si attaglia alla persona raffigurata: è il caso del Democrito di Terbrugghen su cui ci siamo soffermati nella scorsa lezione. La narrazione identitaria non si chiude e il cammino di cui consta resta sospeso a metà: alla voce che dice «sono proprio io!» non riusciamo come spettatori a fare eco e ci è quindi impossibile esclamare (come talvolta invece facciamo e non per tacitare un dubbio) «guarda, è proprio lui!».
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“Guarda: è proprio lui!”
Riflessioni sul significato di un’espressione.
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Una constatazione ovvia: il ritratto non è indice di una relazione reale che sussista tra due soggetti reali – il pittore e il modello, per esempio – e non è dunque affatto lecito sostenere che dalla percezione di un ritratto si possa risalire all’esservi stato un tempo un individuo reale che abbia assunto una certa piega espressiva e un certo comportamento solo per questo – per essere riconosciuto così dagli altri. Un ritratto, dunque, non è indice di una posa e non ci assicura del suo avere avuto luogo in un qualche istante del passato, ma più semplicemente la rende fenomenicamente manifesta: vediamo raffigurata una persona, ma questo non implica né che quella persona necessariamente esista, né che quel peculiare atteggiamento che vediamo raffigurato abbia davvero avuto luogo o che sia stato qualcosa di più che un aspetto fuggevole e casuale che un volto ha per un attimo assunto di fronte alla macchina fotografica. Ne segue che perché si possa parlare di un ritratto non è necessario che una posa abbia avuto effettivamente luogo: è sufficiente che il volto raffigurato possa essere inteso, a torto o a ragione, come se fosse espressione di un atteggiamento particolare.
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